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Giotto - Vita e opere - Biografia
Giotto di Bondone da quasi sette secoli è stato venerato come il
padre della pittura europea, l'inventore della terza dimensione
nella pittura e uno tra i primi grandi maestri
italiani. Allievo dell'altro grande pittore fiorentino
dell'epoca, Cimabue ha lasciato in luoghi come
Assisi,
Roma,
Padova ,
Firenze e
Napoli affreschi e dipinti su
tavola che oggi fanno parte, non solo della storia dell'arte, ma
anche dell'immaginario di ognuno di noi. Giotto fu il
protagonista e riuscì a imprimere una svolta fondamentale a tutto il
linguaggio artistico dell'Occidente |
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Intorno all'anno 1300, Firenze,
e insieme ad essa tutta la Toscana, conosce gli effetti di una significativa
fioritura economica e culturale: il comune antico, i cui severi e semplici
costumi vengono rimpianti dall'esule Dante per bocca del suo antenato
Cacciaguida, cede il posto a una città imprenditoriale, benestante,
forte di una solida borghesia mercantile e finanziaria.
Alle soglie del XIV secolo in numerose città italiane l'espansione urbana si
era fatta incessante: il vescovo, gli ordini religiosi, le ricche famiglie,
i banchieri e i commercianti facevano a gara nel promuovere la costruzione
di nuovi edifici. Di pari passo con lo sviluppo economico e sociale della
città, nacque anche una intensa attività artistica, che spinse a cercare
nuove forme di rappresentazione. In questa congiuntura si inserisce
positivamente Giotto: un artista nacque nel 1267 a Vespignano
nei pressi di Firenze. Dopo aver svolto, tra il 1280 e il 1290 il suo
apprendistato presso la bottega di Cimabue, egli si impose come il
massimo artista dell'epoca. La sua fortunata carriera è testimoniata dalla
lunga serie di incarichi prestigiosi che lo portarono a lavorare per Papi,
re e ordini monastici. Soggiorno in numerose città d'Italia tra cui
Assisi
(dove affrescò la Basilica superiore di San Francesco),
Roma,
Napoli,
Milano
influenzando profondamente l'arte locale. Tra il 1304 e il 1306 si spostò a
Padova
dove dipinse, su richiesta del banchiere
Enrico Scrovegni, la celeberrima
Cappella degli Scrovegni. Nel
1334, nominato direttore dei lavori del
Duomo di Firenze,
fornì il progetto per l'omonimo
Campanile di
Giotto. Morì settantenne l'8 gennaio 1337 e venne sepolto nel Duomo fiorentino
con grandissimi onori.
Una
carriera folgorante
Di origini di umili, il figlio del contadino Bondone,
trova la propria dimensione di uomo e di artista nella vita cittadina,
conscio dell'acquisito ruolo sociale e del successo delle opere lasciate in
diversi centri italiani nel corso di lunghi viaggi. La sua pittura sarà
l'immagine di questa sicurezza morale e materiale, della soddisfazione del
conoscere e interpretare il proprio tempo e il proprio ambiente.
Giotto segnò una svolta nell'arte medievale, allontanandosi dalla pittura
bizantina. Le sue figure hanno volumi, agiscono nello spazio ed
esprimono un intensa umanità. I suoi personaggi dipinti sono senza dubbio
uomini e donne veri: con il loro carico di ansie e speranze, di stupore e di
sentimento, e d'altra parte con il solido volume del loro corpo occupano un
ruolo sociale, tangibile, nello scenario quotidiano della città o
della campagna.
La piena consapevolezza della presenza attiva dell'individuo
nella storia e nel mondo è la maggiore conquista della cultura italiana alle
soglie del XIV secolo: in questo periodo compie i primi passi il
movimento intellettuale che, il secolo dopo, sfocerà nella natura stagione
dell'umanesimo. Prende corpo un linguaggio nuovo, il "volgare" di
Dante e
Boccaccio, le cui credenze chiare e sonore corrispondono pienamente al
dipanarsi delle scene e dei personaggi nei dipinti di Giotto, mentre anche
la scultura, con Arnolfo di Cambio e con Giovanni Pisano, raggiunge la
completa estensione della gamma espressiva, dall'animazione vibrante alla
calma solennità.
Secondo i contemporanei, Giotto cambiò la lingua dell'arte "dal greco al
latino": eppure, il suo apprendistato si svolge in una cultura figurativa
ancora influenzata dall'arte bizantina.
Secondo i dettami di questa tradizione ispirata alla corte imperiale di
Bisanzio e saldamente radicato in tutta l'Europa orientale, le immagini
create dall'arte bizantina devono seguire le regole di un codice di
rappresentazione molto preciso: non si cerca di produrre l'impressione della
realtà, ma di dare espressione visibile, con aristocratico simbolismo, a
vicende e personaggi ultraterreni. Così, le singole scene della storia sacra
seguono un filone iconografico che rimane immutato nel tempo, ripetuto con
diligente osservanza. Il maestro di Giotto, Cimabue e il grande coetaneo
Duccio da Boninsegna, pur con risultati tra loro diversi, sono ancora in
parte legati a questo modo di intendere la pittura, elegante, preziosa,
calligrafico: Giotto, fin dalle sue prime opere conosciute, è mosso da un
desiderio diverso, e realizza una delle più decisive svolte dell'arte
occidentale.
Un più che probabile
viaggio a Roma, compiuto in giovane età, suggerisce a
Giotto una chiara e personale interpretazione dell'antichità, vista come
modello di sobrietà e di compostezza, e, insieme, di sottile e acuta
indagine della natura e dei sentimenti umani. Gli artisti romani del tardo
Duecento (come Pietro Cavallini, Jacopo Torriti e Filippo Rusuti) si erano
già incamminati lungo una strada simile: ma solo con Giotto questa via
diventa grandiosa conquista, ben presto distribuita dall'artista stesso in
tutt'Italia, da Assisi a Roma, da Rimini a Padova, da Napoli a Milano,
tappe contrassegnate da cicli di affreschi e opere di straordinaria
importanza, alcune di esse andate perdute, ma che ebbero un ruolo
determinante per la formazione di scuole locali ispirate a Giotto. Nel giro
di pochi decenni, spuntarono dappertutto scuole di "giotteschi", più o meno
originali: ma è soprattutto Firenze la città che accoglie in modo duraturo
la lezione del proprio illustre figlio. Al punto che la civiltà figurativa
del
Rinascimento, sbocciata all'inizio del XV secolo grazie
Brunelleschi,
Donatello e
Masaccio, ha sempre riconosciuto in Giotto una salda,
incrollabile radice.
Sembra paradossale, ma in realtà, per il fatto di essere e di sentirsi un
uomo del proprio tempo, Giotto, come Dante, è da settecento anni un uomo
moderno.
Realtà e leggende della giovinezza, fino alla rivelazione degli affreschi di
Assisi
Ci sono pervenute solo scarse notizie sulla giovinezza e la formazione di
Giotto. Non sappiamo nemmeno se il suo nome sia completo oppure diminutivo
di Biagio o di Agnolo.
La data di nascita non è attestata dai documenti, ma ricavata dal fatto che
il pittore morì nel gennaio del 1337 a settant'anni: il 1267 è comunque
una data molto plausibile, in stretta coincidenza con la nascita di Dante,
che cade, com'è noto, nel 1265.
Nato in una famiglia contadina di Colle di Vespignano, non lontano da
Firenze, il padre, Bondone, è un "lavoratore di terra e naturale persona". Giotto
viene descritto dai più antichi commentatori (in particolare da Lorenzo
Ghiberti seguito poi da Vasari) come un fanciullo prodigio. L'incontro tra
il pastorello che graffisce le pecore sui sassi del Mugello e il Grande
maestro Cimabue, in strada verso Bologna, è uno dei più tipici e ripetuti
esempi di "talento naturale" dell'intera storiografia artistica. Aldilà
della verosimiglianza dell'antica leggenda (recentemente però riproposta da
Luciano Bellosi per vera), accerta l'esistenza di un rapporto molto diretto
e tra Cimabue e Giotto, tanto che è possibile che il maestro e allievo
abbiano lavorato insieme ad alcune opere, come la Madonna della Prepositura
di Castelfiorentino.
Lo stile di Cimabue rappresenta l'estrema evoluzione dell'arte bizantina in
Italia: le pose delle figure, lo scarso interesse nei confronti della
rappresentazione dello spazio, i gesti e i lineamenti e rispondono alle
regole dettate dalla tradizione orientale. D' altro canto, Cimabue ha una
visione grandiosa e drammatica della storia sacra, un senso di conflitto tra
bene male che si traduce in una nuova energia plastica nei suoi dipinti, con
risultati di forte impatto emotivo, "espressionistico". Presso Cimabue, un
altro episodio segna la formazione artistica del giovane Giotto: un viaggio
a Roma. Prima di entrare a far parte del grandioso cantiere della Basilica
di San Francesco ad Assisi il giovane pittore va per la prima volta nella
"città eterna". Giunto là, incontra una situazione particolare: un centro di
30.000 abitanti, circa la metà di Firenze, in cui emergono montagne di
monumenti antichi in rovina. Fra le macerie dell'antica Roma spiccano le
splendide costruzioni delle basiliche cristiane, parecchie delle quali sono
state decorate con mosaici e affreschi nel corso del XIII secolo. In quel
tempo si sviluppa un importante scuola romana di pittura, i cui
rappresentanti principali sono Pietro Cavallini, Jacopo Torriti e Filippo
Rusuti.
Senza rinnegare del tutto l'iconografia bizantina, i pittori e I mosaicisti
romani e recuperano la tranquilla monumentalità dell'arte classica: nella
città del Papa sembra rinascere un'arte imperiale, alla quale partecipa
anche lo scultore architetto toscano Arnolfo di Cambio, autore a Roma di
significativi complessi ornamentali. Anche se non sono state finora
identificate come opere certe di Giotto anteriori agli affreschi di Assisi
(qualcuno suggerisce di cercare tracce della giovinezza di Giotto fra i
mosaici del Battistero di Firenze), I critici sono concordi nel sottolineare
l'importanza decisiva del suo soggiorno romano, al punto che si discute se
Giotto sia arrivato nel cantiere di San Francesco ad Assisi al seguito di
Cimabue oppure nell'ambito degli artisti provenienti da Roma. Comunque,
dall'ultimo decennio del Duecento inizia il suo stretto rapporto con
l'ordine dei Francescani, che saranno a più riprese i suoi committenti.
Il grande complesso architettonico del Convento della Basilica di San
Francesco era stato avviato solo due anni dopo la morte del santo, caduta
nel 1226, e si era velocemente sviluppato, fino a diventare il più
importante monumento dell'architettura e della pittura italiana tra Due e
Trecento.
Una cripta sotterranea (in seguito a murata, poi riaperta nel Settecento)
costituisce il primo livello: in essa si trova la tomba di San Francesco.
Sopra la cripta è impostata la bassa e larga Basilica Inferiore, di
architettura ancora romanica, terminata già poco dopo il 1230; sopra sorge
la Basilica Superiore, consacrata nel 1253. Come la chiesa sottostante è a
navata unica, ma è molto più slanciata, ormai del tutto gotica. Grandi
bifore con vetrate istoriate la rendono molto luminosa, in contrasto con
l'oscurità e il senso di raccoglimento della Basilica Inferiore, e lo spazio
viene tranquillamente ritmato dal semplice avanzare di quattro campate con
volte a crociera; inoltre, grandi pareti sono lasciate libere, pronte ad
essere decorate con affreschi.
Nei due ambienti i lavori procedono in parallelo, anche con l'apporto di
artisti nordici, ma mentre nella basilica inferiore, dalla pianta più
articolata, si individuano diverse cartelle e zone, affidate via via a
differenti artisti, i vasti muri della Basilica Superiore suggeriscono un
programma unitario, ancora oggi leggibile nonostante i gravissimi danni
subiti dagli affreschi nel corso dei secoli.
Le Storie dell'Antico e del Nuovo Testamento sono infatti collegati
all'illustrazione di passi della Legenda Maior, la vita e i miracoli di San
Francesco secondo il racconto di San Bonaventura, composto nel 1260-1263. Il
santo viene presentato non in modo agiografico o aneddotico, ma storico,
come se il disegno divino, attraverso i precedenti della Bibbia e del
Vangelo, trovasse in Francesco una logica e diretta conseguenza.
Intorno al 1277-1280 è dunque Cimabue a dare un impulso straordinario alla
decorazione del transetto sinistro, comprese le volte, affrescando tra
l'altro la drammatica scena della Crocifissione. In seguito, verso il 1285,
pur mantenendo Cimabue la direzione dei lavori, l'esecuzione degli affreschi
passa ai suoi collaboratori, tra cui emergono il romano Jacopo Torriti e
l'esordiente senese Duccio da Boninsegna. Si iniziano così a decorare le
parti alte della navata, in particolare gli spazi tra le finestre con Storie
dell'Antico e del Nuovo Testamento, sovrapposte su due registri. In questa
fase, all'altezza della quarta campata, si assiste alla prima comparsa della
mano di Giotto. L'attribuzione a Giotto di alcuni episodi dell'Antico e del
Nuovo Testamento è generalmente accettata, mentre ancora controversa è la
cronologia, da fissare comunque intorno al 1290. Nella volta della campata
d'ingresso, meglio conservata rispetto alle pareti laterali e alla
controfacciata, sono i dipinti i quattro Dottori della Chiesa, seduti
davanti a leggii e scansie che simulano la decorazione geometrica al mosaico
tipica del romanico laziale, mentre nel contiguo sottarco sono
visibili piccole coppie di santi. Ancor più interessanti sono le poche
parti conservate delle scene bibliche ed evangeliche fra le finestre. Divise
in regolari spazi quadrati di 3 m per lato, queste scene sono uno dei campi
privilegiati per lo studio della pittura italiana alla fine del Duecento: la
personalità del giovane Giotto è presto avvertibile, specie nelle due Storie
di Isacco e nella frammentaria Deposizione nel sepolcro, nei termini di una
sottile attenzione al gioco delle espressioni e dei sentimenti, mentre il
racconto segue la scansione di un metro classico, regolare e pausato, e non
il ritmo incalzante e drammatico di Cimabue.
Ma se nelle Storie dell'Antico e del Nuovo Testamento Giotto collabora con
altri importanti pittori, confrontandosi con essi, passando al registro
inferiore diventa il solo protagonista.
La parte bassa delle pareti è leggermente aggettante, e sembra essere stata
appositamente predisposta, durante la costruzione della basilica, per far da
supporto a un ciclo di affreschi. Le storie di San Francesco, sviluppate
secondo un senso di lettura che parte dal fondo della parete a destra per
risalire, passando per la controfacciata, lungo la sinistra, segnano la
fermarsi di un idea nuova nell'arte. Composte durante la seconda metà degli
anni Novanta del Duecento, seguono la vita di San Francesco dall'adolescenza
fino ai miracoli compiuti dopo la morte: senza precedenti iconografici (se
non per le fattezze del Santo), Giotto può affrontare liberamente l'impresa,
e solo in alcune delle ultime scene si nota un certo allentamento della
qualità, segno dell'intervento di allievi. La novità di questi affreschi
consiste nell'aver presentato San Francesco in carne ossa (si vede il nudo
parziale della Rinuncia ai beni paterni), fra la sua gente (spesso
rappresentata in modo corale, come nella Morte del Cavaliere di Celano), il
luoghi riconoscibili e concreti (la piazza di Assisi fa da sfondo
all'Omaggio di un semplice); e, soprattutto, in spazi architettonici o
naturali concepiti in modo tridimensionale e funzionale alla scena
rappresentata. Ad esempio, le linee delle colline del Dono del mantello a un
povero convergono verso la testa del santo, che diventa così il vertice e
non solo dell'episodio narrativo, ma di tutto il paesaggio; le architetture
del Colloquio con il Crocifisso di San Damiano e della Conferma della regola
sono autentiche "scatole"spaziali, descritte con un inedita visione a tre
dimensioni, in anticipo sulle ricerche della prospettiva: notevole, in tal
senso, è l'iconostasi vista da dietro nel Presepe di Greccio.
Senza disperdersi in un racconto puramente biografico, e anzi mantenendo
testualmente il programma iconografico, Giotto realizza una sequenza di
immagini, di personaggi e di scenari reali, chiudendo in modo definitivo
ogni rapporto con lo stile bizantino. L'equilibrio delle sue scene raggiunge
l'obbiettivo di un racconto commovente demo azionante per il semplice
fedele, denso di interesse di novità per gli artisti gli uomini di cultura.
Alcuni momenti della vita di San Francesco figurano anche in un grande
dipinto su tavola a fondo d'oro, San Francesco riceve le stimmate, firmato,
proveniente dalla chiesa di San Francesco a Pisa e oggi al Louvre, coevo
all'esecuzione degli affreschi assisiati.
Nell'anno 1300, quando probabilmente aveva appena finito le Storie di San
Francesco, Giotto ritorna a Roma e partecipa alle manifestazioni del
Giubileo, indetto da Papa Bonifacio XIII. In questo periodo dipinge alcuni
affreschi, ricordati dalle fonti perlopiù scomparsi: rimane il frammento di
una Composizione celebrativa dell'anno Santo, inserita in un pilastro di San
Giovanni in Laterano.
Gli affreschi di Assisi
Per il gusto dell'ordine francescano Assisi e la sua basilica divennero il
centro pittorico più fervido del medioevo e richiamarono i migliori artisti
del tempo.
Nei secoli XIII e XIV cambiò profondamente il modo di fare arte, il merito
anche dei francescani, l'ordine religioso fondato da San Francesco d'Assisi
(1181-1226). Quando il santo morì, la sua popolarità era immensa. La Chiesa
che porta il suo nome venne costruita per custodirne le spoglie. L'edificio
è composta da due classi distinte e sovrapposte: la Basilica Inferiore,
bassa e larga, a forme ancora romaniche; la Basilica Superiore, slanciata e
luminosa, segue invece i principi dell'architettura gotica.
Qui abili pittori hanno lasciato splendidi affreschi, come il celebre ciclo
sulla vita di San Francesco attribuito a Giotto.
Il tema principale è rappresentato dalla storia e dalla leggenda di San
Francesco d'Assisi, raccontate in 28 grandi riquadri accostati l'uno
dall'altro lungo la fascia centrale.
I segreti di una tecnica complessa
L'afresco, o "pittura a fresco" è una tecnica conosciuta fin dall'antichità.
Venne riscoperta del medioevo perché era meno costoso del mosaico. Consiste
nell'applicare il colore sull'intonaco ancora umido, in modo che asciughi
assieme la parete. Si produce allora una trasformazione chimica capace di
conservare la pittura finché dura l'intonaco. Realizzare un buono a Trieste
è piuttosto complicato: il pittore deve essere abile e non avere esitazioni,
poiché, una volta asciugata la parete, non si può più modificare ciò che e
stato dipinto.
Sui blocchi di pietra puliti veniva disteso il riccio, cioè uno strato di
intonaco grezzo composto di sabbia grossa impastata con calce, fino a
ottenere una superficie liscia. Successivamente venivano tracciate delle
linee di riferimento utili per il disegno preparatorio. Si eseguiva il
disegno preparatorio a carboncino o a sinopia (il colore rossastro). Sulla
porzione di parete che si intendeva affrescare in una giornata veniva
disteso il tonachino, un ultimo sottile strato di intonaco composto da
polvere di marmo e calce mescolato con acqua. Prima che il tonachino
asciugasse, il pittore dipingeva rapidamente la parte di affresco prevista,
completandola di ogni dettaglio. Ogni porzione di affresco dipinto in un
giorno era detta "giornata". Le giornate potevano essere più o meno estese,
a seconda della complessità di esecuzione.
Il primo esempio di prospettiva spaziale
Già nel ciclo di San Francesco ad Assisi si erano osservate alcune novità
nella rappresentazione dello spazio. Ancora più sorprendenti si rivelano
quelle realizzate nella cappella degli Scrovegni, dove Giotto da un saggio
della sua bravura di pittore di interni. Accanto all'abside egli dipinge due
ambienti con volte a crociera e finestre bifore. Essi costituiscono dei veri
e propri "inganni" ottici, poiché danno l'impressione che esista uno spazio
reale al di là della parete. Possiamo considerarli tra i più audaci
tentativi di messa in prospettiva dello spazio.
Dopo Assisi e Roma, finalmente Giotto è a Firenze. Del primo periodo
fiorentino rimangono le tracce significative della Madonna di San Giorgio
della Costa, in alcuni resti di affreschi nella chiesa di Badia (dove si
trova anche un polittico, ora agli Uffizi), e soprattutto nel grande
Crocifisso su tavola sagomata, nella sagrestia di Santa Maria Novella.
Prima versione di un tema che Giotto repliche più volte, mostra l'abbandono
degli eleganti e rigidi stilemi Visentini termine più diretta
rappresentazione anatomica: in particolare significativo dell'uso di un solo
chiodo per fissare i tuoi piedi di Cristo alla croce, il che implica una
sovrapposizione prospettica delle gambe, molto semplificata dei crocifissi
di tradizione bizantina , in cui ciascun piede è fissato da un chiodo.
Giotto ritornerà ancora ad Assisi anche dopo il suo periodo giovanile, e
curerà la decorazione, nella Basilica Inferiore, della volta con Allegorie
francescane e della Cappella della Maddalena.
In entrambi i casi l'artista si è limitato soprattutto il compito di
sovrintendenza e di coordinamento, lasciando ad allievi l'esecuzione diretta
degli affreschi.
La cappella degli Scrovegni è la fase centrale della maturità (1300-1320)
L'interno della cappella degli scroto Vegni è un ambiente assai semplici, di
forma rettangolare, con pareti prive di pilastri divisori. Ogni scena degli
affreschi a fare delimitata da fregi dipinti, che permettono ai fedeli di
leggere con chiarezza ciascuna singola immagine e di capire la successione
delle episodi. Sulla parete d'ingresso è dipinto un grande Giudizio
Universale.
Tra il 1304 il 1306 Giotto lavora a Padova, per affrescare la cappella fatta
erigere da Enrico Scrovegni il espiazione del peccato di usura commesso dal
padre, condannato da Dante all'inferno. Non è provato da documenti, ma è
probabile che Giotto stesso abbia curato l'architettura dell'edificio, che
sorge sui resti della anfiteatro romano di Padova, e che viene pertanto
ricordato anche come Cappella dell'Arena. Infatti, la struttura è
semplicissima, essenziale, e lo spazio interno è perfettamente funzionale a
contenere un complesso ciclo di affreschi: un'unica navata, con strette
finestre solo sul lato, e una volta a botte, dipinta con un cielo stellato e
alcune figure divine (la Madonna col Bambino, Cristo benedicente, gli
Evangelisti, i Dottori della Chiesa) entro medaglioni. Il programma
iconografico esalta la figura della Madonna come madre di Cristo, a sua
volta protagonista della redenzione, via di salvezza per l'uomo, lungo la
strada tra il vizio e la virtù (Impersonati dalle fantasiose allegorie in
monocromo che decorano lo zoccolo, dipinto in modo da simulare un
rivestimento in marmo), verso il Giudizio finale.
La grande parete della controfacciata è occupata appuntol giudizio
universale, impostato intorno all'energica figura di Cristo,
attorniato da compatte schiere di angeli, che divide i beati e i dannati, i
quali precipitano fra le orrende pene infernali. La scena è affollata,
vivace, ma molti particolari sembrano essere stati affidati ad allievi.
Sulla stessa parete compare il ritratto di Enrico Scrovegni, che dedica il
modellino della cartella alla Madonna.
Lungo i lati e sull'arco trionfale si allineano su tre registri
sovrapposti, senza soluzione di continuità, le Storie di Gioacchino e Anna e
le Storie della vita e della Passione di Cristo Per un totale di 36
riquadri; il senso di lettura è simile a quello delle Storie di San
Francesco. Realizzati in un periodo di tempo circoscritto, gli affreschi di
Padova segnano la fase della prima maturità di Giotto nei termini di una
grande coerenza stilistica, un controllo formale continuo, senza attimi di
caduta, un'affermazione solenne della dignità della figura umana e, insieme,
del suo ruolo centrale nella Storia.
Ancora più che ad Assisi, Giotto domina e organizza lo spazio in cui
agiscono i personaggi. Le figure, squadrate e compatte, quasi come dei soldi
geometrici, occupano volumi fisicamente e misurabili in ambienti dilatati,
architettonici o naturali che siano. L'ordine cronologico delle scene inizia
con le vicende dei genitori della Madonna. I riquadri Che raffigurano il
padre di Maria esule nel deserto (come Gioacchino tra i pastori) sono
indicativi della disposizione "psicologica" degli elementi della natura e
del paesaggio, con personaggi solitari, astri e rocciosi come i colli dello
sfondo. Il nodo di sentimenti reciproci che lega Gioacchino e Anna i soldi
dell'Incontro alla Porta Aurea, una delle prove più complete della ricchezza
di possibilità espressive e da parte di Giotto, che qui rappresenta anche il
tenero bacio tra i due protagonisti. Con la Natività di Maria (ambientata
nella stessa architettura dell'Annuncio a Sant'Anna), sempre nel registro
più alto, si passa alla parete sinistra. Fra i diversi momenti in cui è
diviso il episodio dello Sposalizio della Vergine emerge, per suggestione ed
energia compositiva, la Preghiera per la fioritura delle verghe, con il
gruppo del sacerdote e dei pretendenti risolto dell'incontro tra imponenti
masse. Le figure dell'Arcangelo Gabriele e dell'Annunciata, sull'arco
trionfale, collegano la parte sinistra con la destra: inquadrati gli
elementi architettonici identici fra loro, disposti in scorcio, sono due
masse piene robuste, salde nella "cubatura" dei volumi, ben diverse dalla
nervosa sagoma della Madonna col Bambino di Giovanni Pisano, collocata
sull'altare della cappella insieme ad altre sculture, due angeli che reggono
candelieri. Al centro dell'arco trionfale è inserito un dipinto su tavola
raffigurante Dio Padre, in cattive condizioni di conservazione.
L'infanzia di Cristo, inaugurata dalla Visitazione dell'arco trionfale, nel
registro intermedio si apre con alcuni episodi di commossa intimità: la
Madonna, che ai capelli raccolti in una treccia, acconciatura comune nel
veneto del primo Trecento, assume nella Natività una posa distesa,
inconsueta in pittura ma di grande naturalezza. Nella Fuga in Egitto Giotto
fa di nuovo uso degli elementi naturali per potenziare l'effetto psicologico
dei personaggi: la Madonna e il Bambino appaiono conpatti, stretti, e
inseriti entro il profilo di una roccia sullo sfondo. Viceversa, le coste
delle colline sembrano schiudersi simmetricamente nel Battesimo di Cristo,
la scena con cui si apre la sequenza dedicata ai miracoli e alla Passione di
Gesù. Il tradimento di Giuda, posto sull'arco trionfale, fa da collegamento
con le pareti, e indica il passaggio al registro inferiore: i lineamenti del
creditore sono ripresi in modo caricaturale nel diavolo nero che gli sta
alle spalle.
L''Ultima Cena (uno degli episodi, insieme alla Salita al Calvario e
all'Ascensione in cui maggiormente si riscontra l'intervento di un
collaboratore) e la Lavanda dei piedi sono ambientata all'interno di un
identico padiglione prospettico, scheda alle scene un tono grave e raccolto,
molto diverso dalla cosmica atmosfera del Bacio di Giuda: intorno
all'abbraccio di Giuda, folgorato dallo sguardo sereno e severo di Cristo,
si agita una folla di personaggi, con effetti dinamici sottolineati
dall'agitarsi di picche e di lanterne, di cui Giotto fa un uso quasi
teatrale. Le scene centrali della parete (Crocifissione; Compianto su Cristo
morto; Noli me tangere) formano quasi un trittico, sono momenti spesso
rappresentati nell'arte, e troppo in essi Giotto concentra alcune delle più
innovative soluzioni spaziali. Lo strazio degli angioletti, intorno al
crocifisso, è un'ennesima prova della sensibilità del maestro nel cogliere
le espressioni umane; Cristo risorto, apparendo alla Maddalena, ha una
movenza leggera, elegante, che le ha fatte paragonare ai bassorilievi
dell'Atene di Fidia. Nella scena del pianto intorno al Cristo morto, le
figure sono scalate in una sequenza di piani in profondità, le figure viste
di schiena. San Giovanni, piegato verso il cadavere di Gesù, allarga le
braccia in senso perpendicolare al piano di immagine, aprendo ulteriore
breccia nello spazio.
A tal proposito, nella Cappella degli Scrovegni Giotto ha dipinto due
"inganni ottici": nell'arco trionfale ha simulato, grazie all'uso calcolato
della prospettiva, due carpelle o "corretti", dimostrazione della sua
eccezionale e anticipatrice conoscenza delle regole della rappresentazione
tridimensionale.
Compianto sul Cristo morto
Questo affresco, dipinto da Giotto 1304 il 1306, si trova a Padova, Cappella
degli Scrovegni.
L'opera fa parte di un ciclo di affreschi, che narrano la vita della Vergine
di Cristo. In questa scena viene raffigurato il momento in cui il corpo di
Cristo, ormai privo di vita, è disteso a terra e compianto dalla madre e
dalle persone che l'hanno conosciuto. La disposizione dei personaggi è
estremamente accurata. Le figure appaiono modellate dai chiaroscuri e hanno
un volume ben definito.
Le sagome massicce delle donne di spalle in primo piano servono a delimitare
lo spazio oltre il quale si svolge il dramma. La parete della roccia che
taglia diagonalmente la scena, conduce il nostro sguardo all'abbraccio
straziante tra Maria e il Figlio, che rappresentano il vero fulcro della
composizione.
Colpisce l'umanità dei gesti: la Vergine abbraccia piangendo il figlio,
mentre San Giovanni, in piedi, allarga le braccia come disperato di fronte
alla morte del Maestro.
Anche gli altri personaggi manifestano con i gesti e espressioni il loro
dolore di fronte al dramma a cui stanno assistendo.
Gli angeli volteggiano nel cielo come impazziti dal dolore. Il naturalismo
di Giotto rivela anche nei dettagli (ad esempio, le mani della Madonna che
sorregge il capo di Gesù).
Dalla Cappella degli Scrovegni proviene un Crocifisso su tavola, oggi ai
Musei Civici di Padova: secondo alcuni studiosi, è stato eseguito da Giotto
durante un secondo soggiorno padovano, nel 1317, quando decora con
affreschi, oggi perduti, il Palazzo della Ragione.
Nel periodo che va dagli affreschi della Cappella degli Scrovegni a quelle
delle cappelle Bardi e Peruzzi in Santa Croce, E cioè all'incirca dal 1305
al 1320, Giotto attraverso il momento più "classico" della sua produzione.
Durante questi anni Giotto viaggia ancora parecchio, toccando arrivi (dove
rimane lo splendido Crocifisso nel tempio Malatestiano, considerato il
miglior saggio di Giotto in questo genere specifico di dipinti) e Roma, dove
ritorna nel 1310 per eseguire il grande mosaico della Navicella di San
Pietro per l'esterno della basilica vaticana: non ne restano che alcuni
frammenti, pesantemente restaurati.
La sua fama e la sua fortuna crescono: economicamente e socialmente, è un
uomo "arrivato". È spostato con Ciuta(Ricevuta) di Lapo del Pela, da cui ha
8 figli, e mette in pratica la sua predisposizione commerciale, investendo i
guadagni di pittore in una serie di fortunate iniziative economiche. I
dipinti di questi anni sono composizioni solenni e ritmate, in cui le figure
si dispongono in modo regolare, senza mai alcun eccesso espressivo o
sgradevole deformazione. Risalgono a questo periodo tavole di notevole
formato, come la pala d'Ognissanti degli Uffizi e la più tarda Dormitio
Virginis dei Musei di Berlino, paragonata, anche per la sua forma sagomata,
ai frontoni dei templi greci. Nella prima sala degli Uffizi la madonna di
Giotto è collocata accanto a due simili maestà di Cimabue e di Duccio da
Buoninsegna: il confronto mostra come il nostro pittpre si sia staccato
evidentemente dai moduli bizantini, per dare alle sue figure un volume
solido, tangibile, e nello stesso tempo inserito in uno spazio ambientale
misurabile (il trono su cui siede la Madonna di Giotto è una sottile
struttura gotica, ben diversa dai pesanti e massicci scranni romanici delle
altre due Maestà)
Gli affreschi fiorentini e l'ultimo periodo: da Giotto al giottismo
(1320-1337)
A partire dal 1320 Giotto risulta particolarmente attivo a Firenze. Molte
delle opere ricordate dalle fonti antiche sono andate perdute, alcune invece
disperse in vari musei del mondo. È il caso di un grande polittico, formato
da cinque tavole cospirato e della predella con Scene della vita e della
Passione di Cristo, faticosamente ricostruito dagli studiosi a partire da un
Santo Stefano del Museo Horne di Firenze e della Madonna col Bambino della
National Gallery of Art di Washington, in origine al centro del complesso.
Le piccole tavole della predella riprendono con grazia temi e composizioni
della
Cappella degli Scrovegni.
Tra il 1320 e il 1325 Giotto lavora assiduamente nelle cappelle delle
famiglie fiorentine allineate lungo la parte absidale della grande chiesa di
Santa Croce, confermando il proprio stretto legame con l'Ordine francescano
e, d'altro canto, la posizione di artista d'èlite in città.
Secondo le fonti, ben quattro erano le cappelle affrescate: ne rimangono
due, entrambi appartenenti a famiglie di banchieri, a destra dell'abside
maggiore. In entrambi i casi, gli affreschi erano stati completamente
ridipinti nel secolo scorso: la rimozione dei restauri ha restituito
un immagine parziale, ma almeno originale, delle scene. La Cappella Peruzzi,
eseguita per prima, presenta Storie di San Giovanni Battista e San Giovanni
Evangelista, affrontate su due muri laterali. L'interesse di Giotto per la
prospettiva è sempre più evidente, è l'artista tiene conto del punto di
vista del riguardante, essendo la cappella stretta e alta: edifici sono
molto complessi (come nel Festino di Erode), come validi diversa profondità
e dimensione; anche nelle scene all'aperto (Resurrezione di Drusiana)
l'articolazione degli spazi urbani e architettonici è insolitamente varia.
Di forte suggestione è la scena con Visione di San Giovanni a Patmoss: il
santo addormentato è circondato dai simboli dell'Apocalisse, che gli
appaiono il sogno.
La contigua Cappella Bardi che riprende il tema delle storie di San
Francesco, a cominciare dall' ampio riquadro con San Francesco che riceve le stimmate sull'arco d'ingresso.
Gli affreschi della Cappella Bardi sono considerati tra i vertici assoluti
dell'arte giottesca.
Il ciclo, rispetto a quello di Assisi che è stato dipinto trent'anni prima,
Giotto ha acquisito un linguaggio più fermo e pacato, disteso completamente
nello spazio. Anche i più forti sentimenti sono come trattenuti da una salda
serenità, che si traduce in strutture compositive ampie e ben
distribuite. È composto da un lunetta alla sommità e da due grandi
riquadri rettangolari sottostante.
L'autografia giottesca è stata sempre indiscussa. Affreschi sono stati
recentemente attribuiti all'ultimo periodo di attività del maestro, negli
anni 1334-35.
Esemplare è l'Accertamento delle stimmate, con il commosso pianto dei tratti
la morte di San Francesco. Lo stato di conservazione degli affreschi e il
compromesso della storia di manomissioni subito dalla cappella: le parti
superstiti, però, hanno una freschezza di colore maggiore rispetto
alle più spente pitture della Cappella Peruzzi.
Sempre in Santa Croce, nella Cappella Baroncelli, si trova il Polittico
dell'Incoronazione della Vergine, dipinto probabilmente poco dopo gli
affreschi della Cappella Bardi. Nelle compatte schiere di angeli che
inneggiano alla Vergine, e anche le massicce figure dello scomparto centrale
è ravvisabile l'esteso intervento di aiuti. Ai singoli collaboratori di
Assisi e di Padova se ormai sostituita una bella organizzata bottega, nella
quale cominciano a mettersi in luce alcuni parenti di Giotto e personalità
dell'artista è sempre meglio definite. Nel 1327 insieme a Taddeo Gaddi e a
Bernardo Daddi, Giotto si scrive all'Arte dei Medici e degli Speziali,
aperta da allora agli artisti. Una conferma dell'intervento della bottega
nel Polittico Baroncelli, paradossalmente, è la presenza della firma di
Giotto, che sembra quasi preoccuparsi di certificare il controllo del
maestro nell'esecuzione. Interessante è il "riuso" rinascimentale politico,
inserito in un elegante cornice quattrocentesca.
Tra il 1328 e il 1333, dopo un decennio di attività a Firenze, Giotto
riprende a viaggiare: risiede ripetutamente a Napoli, Dove il re
Roberto d'Angiò lo impegna in numerose opere (fra cui affreschi in Castel
dell'Ovo),tutte perdute. Intorno al 1330, inoltre, si reca a Bologna, dove
coordina l'esecuzione Del cosiddetto Polittico di Bologna (oggi nella
Pinacoteca Nazionale), anche esso vistosamente e prevalentemente opera di
allievi.
Ancor più importante è il Polittico Stefaneschi (Roma, Pinacoteca Vaticana),
dedicato a San Pietro e commissionato dal cardinale Jacopo Caetani
Stefaneschi Per l'altare maggiore della Basilica di San Pietro. Il polittico
, dotato di predella, è dipinto su entrambe le facce: da un lato, Cristo in
gloria è affiancato dalle rappresentazioni dei martiri di San Pietro e San
Paolo; dall'altro, San Pietro siede in cattedra, come primo Papa, fra altri
santi. Il donatore (come faceva anche Enrico Scrovegni) È presentato in atto
di donare il polittico. Benché riveli in più puliti l'intervento di un
aiuto, forse senese, il dipinto a parecchie parti di alta qualità,
direttamente dalla mano di Giotto, il quale, nella figura del donatore
inginocchiato, si conferma acuto ritrattista. I Polittici di Bologna e di
Roma sono tra alle ultime opere di Giotto a noi pervenute. Il 12 aprile 1334
tre artista assume l'incarico di "magister et gubernator" dell'Opera
di Santa Reparata, cioè il cantiere del Duomo di Firenze. La sua abilità di
architetto è ben presto dimostrata dalla fondazione ed al primo piano del
campanile, completato nell'alzato durante la seconda metà del trecento. Tra
il 1335 e il 1336 Giotto, sempre accompagnato da allievi, si trasferisce
presso la corte milanese di Azzone Visconti: come accade per Napoli, anche a
Milano non rimane traccia delle sue pitture, se non il tavole e affreschi di
epigoni. Successivamente Giotto torno a Firenze, per seguire i lavori del
campanile: muore, settantenne, l'8 gennaio 1337, e viene sepolto in Duomo
con grandissimi onori pubblici.
Giotto architetto
Negli ultimi anni di vita Giotto progetto per il Duomo di Firenze il
Campanile, una torre a pianta quadrata. L'edificio, alleggerito da bifore e trifore, è rivestito in marmi policromi,
sculture e bassorilievi. Alta quasi 85 metri, fu terminato dopo la sua
morte, nel 1357. Nonostante gli interventi successivi, il grande campanile
presenta dell'insieme un aspetto omogeneo....Vedere il
Campanile di
Giotto.
L'eredità
Secondo un noto aforisma di Roberto Longhi l'unico vero "giottesco" è Giotto
stesso. Solo lui, infatti, ha avuto l'energia per un aumento radicale della
tradizione artistica italiana: i seguaci, anche se grandi artisti, non
riescono a superare il maestro. I frequenti viaggi di Giotto favoriscono la
nascita di scuole "giottesche" in tutt'Italia: tipico è il caso dei pittori
riminesi, forse il più pronti ad accogliere le novità del maestro e a
tradurli in un piacevole senso narrativo. La cultura prospettica e
geometrica attecchisce però soprattutto a Firenze, che durante la
prima metà del trecento prende il posto di Assisi all'avanguardia delle
ricerche artistiche: nei luoghi stessi in cui lavora Giotto, a iniziare
dalla Basilica di Santa Croce, maestri come Maso di Banco, Agnolo Gaddi,
Bernardo Daddi e i parenti di Giotto Stefano e Giottino costituiscono un
gruppo compatto, ispirato a un solido realismo. Insomma, la profezia
dantesca che prevedeva un successore di Giotto in grado di superare il
maestro, come Giotto stesso aveva fatto con Cimabue, sembra non avverarsi.
Come ha ampiamente dimostrato Millard Meiss, la "peste nera" del 1348
provoca un profondo ripensamento nella cultura e nell'arte toscana: la
pittura e recupera il rapporto di dipendenza del destino dell'uomo dal
volere di Dio, che le immagini di Giotto avevano parzialmente limitato.
Così, per circa mezzo secolo si assiste alle ritorno a un'arte ieratica, se
vera: Giotto viene ammirato e studiato, ma più dal punto di vista
artigianale che da quello compositivo.
Le novelle del Boccaccio e del Sacchetti ricordano la figura storica del
maestro, tanto brutto quanto arguto: trapela la nostalgia per un tipo di
pittura che più nessuno è in grado di praticare. Il Libro dell'Arte, scritto
alla fine del Trecento da Cennino Cennini, è il compendio della tecnica
giottesca, minutamente descritta in ogni fase della preparazione e
dell'esecuzione dell'opera d'arte.
All'inizio del Quattrocento la lezione di Giotto viene riproposta come base
dell'umanesimo.
Masaccio viene salutato come un "Giotto redivivo", per avere applicato le
regole della proiezione prospettica della pittura, nelle figure come
nell'architettura. Mentre lo stile dominante era il ricco e ornato tardo
gotico, l'austerità asciutta e forte di Giotto torna in auge con la
linearità delle architetture del Brunelleschi (che alza la cupola del Duomo
accanto al campanile di Giotto) e l'energia plastica e propria delle
sculture di Donatello.
Il recupero storico di Giotto, sentito come l'antenato del Rinascimento
fiorentino, viene sancito dal pubblico decreto con cui, nel 1490, viene
eretto Giotto un monumento celebrativo, comprendente una scultura di
Benedetto da Maiano e l'epigrafe dettata da Poliziano. Nello stesso periodo
il giovane Michelangelo si esercita nel copiare gli affreschi giotteschi,
ricavandone il gusto per figure di robusto volume.
Dal Cinquecento in avanti, nonostante gli alti elogi decretati da
Vasari e da tutta la storiografia d'arte successiva, la fortuna di Giotto e
di tutti i "primitivi", tende a eclissarsi. I pittori anteriori alla metà
del Quattrocento vengono considerati una "curiosità" da eruditi, e molte
delle loro opere vengono irrimediabilmente distrutte o manomesse: le
Cappelle Bardi e Peruzzi, ad esempio, vengono ricoperte di intonaco.
Nel corso dell'Ottocento, sulla scorta del recupero avviato dal romanticismo
tedesco, Giotto viene considerato con crescente attenzione, e le sue opere e
di scoperte, anche attraverso restauri non sempre rispettosi.
Alla fine del secolo scorso si studiano in modo approfondito gli affreschi
di Assisi: la ricerca di Rintelen (Giotto und die Giotto-Apokirphen,
pubblicata nel 1912) inaugura la lunga polemica sulle attribuzioni,
compendiata nel 1939 da Offner con un lungo articolo dal significativo
titolo di Giotto-non Giotto. Mentre i critici si dividono, il maestro
Giotto viene recuperato come fonte per la pittura: Cézanne e i cubisti
trovano in lui un punto di riferimento molto forte, e Carlo Carrà (autore
anche di una monografia critica sul maestro) pone Giotto alla base
dell'estetica del gruppo chiamato Novecento.
Le ricerche critiche del dopoguerra, favorite da restauri e scoperte,
affrontano i più vari aspetti dell'arte giottesca, e in modo particolare tre
punti considerati significativi: la rappresentazione dello spazio, la
cronologia delle opere, la formazione.
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