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Storia della Guerra: il medioevo
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Storia della Guerra: la guerra
antica
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Storia della
Guerra: la guerra nel medioevo
La
storia militare è un aspetto tutt'altro che trascurabile
nella storia dei popoli in tutte le età, ed è certo eccessiva la
preoccupazione di coloro che la vogliono escludere dal
patrimonio di conoscenze delle persone, soprattutto dei giovani,
nel timore che essa possa suscitare atteggiamenti bellicosi o
violenti, o che esalti quanto nell'individuo e nei popoli è
considerato "moralmente deteriore".
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La storia della guerra, la storia militare, invece
significano anche storia di tecniche complesse e ingegnose,
stimolo alla ricerca scientifica, significano anche dimensione
etica ed eroica della vita, che ha pure il suo posto nelle
vicende umane, non si può negare. La preoccupazione è legittima, ma certo la storia
militare è parte importante, anche se non prevalente della
storia dei popoli e non si può cancellare. Essa si lega alla storia della tecnica e a quella delle scoperte
scientifiche (basti citare come esempio i problemi della
balistica o le leggi della dinamica nel loro sviluppo
storico), e quindi aiuta alla formazione di quella prospettiva
della storia come "sviluppo" o "svolgimento" che appare una
dimensione fondamentale del tempo che ci ha preceduto.
La guerra medievale della cavalleria
Crollato
l'Impero Romano d'Occidente, la società barbarica impose
la sua organizzazione militare. Era abbastanza semplice come
scherma: ai servi era riservato il lavoro mentre ogni uomo
libero era un soldato. Ma, con il tempo, soli i ricchi
ebbero i privilegi delle armi, fattesi molto costose. Una
rivoluzione tecnica ebbe in ciò una influenza decisiva. I
Goti dell'Ucraina e gli Alani del Caucaso insegnarono
l'arte nuova del combattere a cavallo, appresa dalle popolazioni
nomadi dell'Asia.
L'antichità non aveva conosciuto la
ferratura del cavallo e nemmeno la sella o la staffa
Queste
innovazioni, a partire dal settimo secolo, dettero alla
cavalleria un primato nuovo. Gli eserciti furono formati da
cavalieri, blindati di corazza sempre più pesante per resistere
ai colpi d'ascia e delle spade. Le guerre avevano allora uno
svolgimento stagionale, dovendo coincidere con i mesi di
abbondante foraggio per i cavalli. I contingenti in armi
dovevano essere convocati nei paraggi dei luoghi più vicini
all'oggetto della spedizione: il servizio militare divenne così,
oltre che censitario, (dove cioè si faceva conto del censo
familiare, cioè della rendita), locale. Nell'imporsi della
società feudale, l'esercito venne a coincidere con nella classe
dirigente. Signore e cavaliere diventarono sinonimi. Ma i
vassalli-cavalieri, divenuti signori ereditari, in molti casi
hanno sostituito con il pagamento di una somma l'obbligo del
servizio a cui sono tenuti: una evoluzione che trasforma in
certo senso il vassallo "fedele" in "mercenario", e che nella
fitta piramide dei doveri "personali" che legano signore a
signore, reintroduce a favore della monarchia la nozione del
servizio pubblico. Accanto a questa evoluzione
barbarica-feudale, vanno tuttavia ricordate alcune tipiche
formazioni, coesistenti, nel mondo delle armi.
Guerrieri Franchi, Cavalieri Ungari
e Cavalieri Corazzati Germanici
I
guerrieri franchi, fino alla creazione del regno
merovingio, si presentavano in campo armati di asce, la temibile
francisca, e di spada, senza casco, con l'unica difesa
dello scudo. A cavallo andavano solo i capi. Precipitandosi di
corsa contro l'avversario, dopo aver scagliato le francische,
lo impegnavano in un disordinato combattimento. Gli eserciti
franchi erano piccoli, (mai superiori a 10.000 uomini),
costituiti da bande, ognuna fedele al suo capo, facile a predare
e a lasciare la lotta se risultasse troppo incerta. Gli
Ungari o magiari, invece erano dei temibili combattenti a
cavallo; furono a lungo il terrore dell'Occidente, fino alla
battaglia di Lechfeld, nel 955, dove un consistente nucleo
di essi (50000 cavalieri) fu battuto e letteramente annientato
dal capo germanico Ottone il Grande sul leader militare
magiaro, il gyula Bulcsú e i suoi luogotenenti Lehel
e Súr. La cavvalleria pesante, cioè corazzata, dei
germani ebbe la meglio sulla cavalleria leggera degli ungari.
Questi ultimi, riprendendo la tecnice
delle sconfinate steppe asiatiche erano armati di arco, ben
saldi in sella come centauri e soprattutto apparivano
all'improvviso, dalla pianura del Rodano a
quella
del Po. Non attaccavano certo le città fortificate (solo Pavia
ne conobbe la crudeltà) ma solo i piccoli centri. Le loro razzie
erano spaventose. Con la sconfitta di Lechfeld non solo i
magiari si eclissarono dallo scacchiere delle storia, venendo di
lì a poco cristianizzati, ma sul campo di battaglia i nobili
germanici proclamarono Ottone loro Imperatore. Alcuni anni
dopo, ancora forte di questa vittoria, Ottone si recò a Roma e
si fece incoronare dal pontefice stesso, nell'embrione del
futuro
Sacro Romano Impero
Germanico. Un'altra cosa restò da
quel momento nella Storia, la guardia personale di Ottone
portava come stendardo la bandiera dell'arcangelo Michele
e, con la vittoria sugli ungari (nell'immagine un modellino di
un cavaliere ungaro), San Michele divenne il patrono principale
del Sacro Romano Impero (e in seguito della Germania).
I normanni (o vichinghi), l'Impero
Bizantino
Famosi
razziatori furono anche i normanni. La differenza con gli
ungari? Per le loro spedizioni adoperavano navi. Ognuna di
essere a bordo una cinquantina di guerrieri. Dalle basi
scandinave, ma presto anche da basi più meridionali, partivano a
primavera, risalivano i fiumi e assaltavano di sorpresa. Per
queste razzie i normanni allestirono anche grandi flotte: 120
navi nell'845 e 200 nel 861, quando risalirono alla Senna.
Assalti inarrestabili di un esercito ben numeroso, se si pensa,
al confronto, che l'impero di Carlo Magno non poteva fornire
nemmeno 5000 cavalieri pesanti (le grandi conquiste di Carlo
Magno non dovranno perciò essere attribuite alla sua potenza
militare, ma piuttosto al vuoto di potenza di paesi conquistati;
con una eccezione, per sottomettere i sassoni, decisi a
resistergli, Carlo Magno impiegò ben 30 anni). L'Impero
bizantino conservò invece a lungo la sua complessa struttura
militare di derivazione romana: due eserciti, di 18.000 uomini
ciascuno, in Asia e in Europa, formati oltre che dalla
cavalleria e della fanteria, da corpi specializzati: famosa
l'artiglieria bizantina che sapeva adoperare recipienti
conici di terracotta
pieni
di quel "Fuoco greco", alla cui efficacia, specie
nei combattimenti navali, si vuole anche attribuire la
millenaria resistenza dell'Impero d'Oriente rispetto a quello
d'Occidente.
Il termine "fuoco greco" era utilizzato soprattutto
dai popoli stranieri, poiché i bizantini, intendecano se stessi
come romani dell'Impero romano d'Oriente, quindi lo
chiamavano "fuoco romano". La formula di questa miscela
incendiaria era un segreto di stato, conosciuto solo
dall'imperatore. Chiunque metteva a reppentaglio il "segreto"
era punito con la morte. Una delle sue componenti era
sicuramente la calce viva, che aveva la terribile
caratteristica di non poter essere spenta con l'acqua, che anzi
ravvivava la forza delle fiamme. Le navi dell'epoca in legno,
pece per impermeabilizzare velatura, sartie e corde in fibre
vegetali, erano destinate a sicura distruzione.
Invasione Araba
L'Islam
invece, nonostante la sua travolgente conquista, nella sua prima
fase iniziale non dispose mai di un grande esercito (l'Egitto
nel 639 fu sottomesso da 4000 uomini). Soprattutto cavalieri, i
combattenti musulmani portavano spesso in groppa alle loro
cavalcature i fanti, che, scesi da cavallo, attaccavano
l'avversario con una scarica di frecce a cui seguiva la carica
forsennata di cavalieri. Un secolo dopo tuttavia le cose erano
cambiate nel cosidetto Secondo Assedio di Costantinopoli
del 717 quando gli arabi misero assieme una forza di più di 120
mila uomini e più di 2500 navi, ma nonostante la superiorità di
forze vennero sconfitti grazie proprio alla distruzione della
flotta araba per mano di quella bizantina che aveva usato l'arma
segreta, il fuoco greco. Questa sconfitta fu comparata con la
più famosa battaglia di Poitiers del 732 quando i franchi
guidati da Carlo Martello, sconfissero gli arabi
arrestandone per sempre l'espansione in Europa. In questo caso
infatti il fallito assedio di Costantinopoli bloccò per i
successivi 700 anni l'espansione musulmana nel sudest del
continente europeo.
L'esercito feudale
L'esercito
feudale è sempre piccolo, la guerra è una guerra di signori
contro signori. Il feudatario porta al suo superiore i
propri cavalieri-vassalli, dai quali gli è dovuta fedeltà. Ogni
cavaliere e accompagnato dagli scudieri, che cavalcano i
cavalli di ricambio, provvedono a rivestire il signore
dell'armatura, a issarlo in sella, pesante di ferro com'è,
per il combattimento. Esisteva anche una fanteria nel
periodo feudale, cioè un corpo di soldati appiedati, ma questa
era armata in maniera varia, irregolare, non uniforme, non si
muoveva mai tatticamente sul campo di battaglia:
sosteneva l'azione solo l'azione della cavalleria, lanciando
frecce contro gli avversari, o cercando di trattenerli mentre i
cavalieri alle sue spalle si riordinavano. Erano i cavalieri
appunto, i protagonisti indiscussi della battaglia: orgogliosi
nelle loro convenzioni cavalleresche, sicché non era raro che il
combattimento, quasi un giudizio di Dio, si fissasse con
precisione di luogo e ora, in battaglie divise spesso per tre
file. Le prime due file si muovevano, successivamente
frontalmente, all'attacco. Dopo il primo scontro, il
combattimento si spezzava in zuffe di piccoli gruppi, perfino in
duelli. La terza fila, di solito il comando del capo supremo,
eseguiva movimenti avvolgenti, parava i contrattacchi nemici, e
aveva l'onore, nel successo, dell'inseguimento conclusivo al
nemico.
L'Assedio e la cavalleria: la
guerra difensiva prevale su quella offensiva
Così
combatteva l'esercito feudale le sue battaglie in Occidente, e
poi in Oriente alla conquista crociata. Ma i racconti dei
cronisti, gli storici cioè contemporanei, sono più spesso
attenti alle mirabili imprese degli assedii. Questi
ultimi si imparararono presto presto vincere, poiché gli
eserciti, anche se poco numerosi, avevano una breve stagione di
guerra, con il solo resistere in una fortezza finché
l'avversario fosse costretto ad abbandonare la lotta, non paghi
certo del saccheggio delle terre indifese. Contro le
fortificazioni, quasi imprendibili, si adottarono o si
inventarono rozze macchine (arieti, torri mobili), (artiglieria
a leva e grandi balestre). Ma per lo più si doveva, per il
buon esito dell'assedio si doveva sperare in un tradimento
all'interno della città assediata. Nel medioevo infatti le
tattiche di guerra difensive avevano una enorme e indubbia
superiorità su quelle offensive. L'immagine al lato mostra
un dipinto sul leggendario Assedio di Antiochia del 1098
da parte dei crociati. La città contesa era in mano ai
musulmani, che l'avavo conquistata ai bizantini pochi anni prima
nel 1085 grazie proprio a un tradimento interno alla città.
La cavalleria era uno strumento di
guerra che risentiva dell'economia arretrata del sistema
feudale, che non poteva provvedere a una lunga guerra di
logoramento.
Perciò
in Italia i Comuni, tanto più deboli come armamento
offensivo, potevano permettersi di sfidare chiusi nelle loro
mura gli eserciti feudali e imperiali. Nonostante questo,
nonostante l'impotenza della cavalleria di fronte alle necessità
di una guerra di logoramento, il suo tramonto sarebbe stato
molto in la da venire e, ad ogni modo, in campo aperto, sarebbe
restava la sovrana arma risolutrice. Contro di essa, le
fanterie, per molto tempo, non seppero svolgere se non compiti
difensivi. Nella Battaglia di Legnano nel 1176, la
fanteria comunale stretti intorno al famoso Carroccio,
spezzò l'impeto della cavalleria nemica dell'imperatore
Federico Barbarossa, ma solo per dar tempo alla propria
cavalleria di riordinarsi per un contrattacco.
Gli inglesi e il Long Bow (l'Arco
Lungo)
Il
più delle volte per spezzare gli equilibri serviva una decisiva
innovazione tattica o tecnica. Fu così che quando gli
inglesi crearono una fanteria leggera di arcieri armati di
lunghi archi, i famosi longbow, sbaragliarono eserciti
francesi molto più numerosi e molto più corazzati. Il Long Bow
aveva un tiro molto più penetrante rispetto agli archi
precedenti ed era tre volte più rapido della balestra. Gli archi
lunghi si misurarono nella Battaglia di Crecy del 1346,
quelladi Poitiers del 1356 e quella di Agincourt
del 1415 contro la cavalleria feudale francese, che, sconvolta
dal tiro degli arcieri, fu finita dei cavalieri appiedati. Va
comunque detto che il successo dipese da un insieme di fattori,
tra cui quella psicologica legata al "codice cavalleresco"
seguito più dai francesi che dagli inglesi, dal numero degli
arcieri e da condizioni del terreno favorevoli. Infatti in
diverse circostanze quella stessa fanteria si mostrò essa stessa
non risolutiva.
Le Compagnie d'Ordinanza in Francia
L'ordinamento
feudale non consentiva lunghe ferme. D'altra parte il
mercenarismo, l'assoldamento di bande di avventurieri, di
professionisti della guerra, aveva il suo limite nella ancora
insufficiente base finanziaria delle nuove monarchie. Per questo
un inizio alla una soluzione del problema, furono in Francia
alle Ordinanze del 1445, che crearono (scusate il
gioco di parole) le Compagnie d'Ordinanza (Compaignies
de l'Ordonnace du Roi)
per le quali il re imponeva
tasse per il mantenimento di sue truppe permanenti. Accanto
alla cavalleria, nel 1448 si costituivano compagnie di
arcieri: doveva esserci, ogni 50 famiglie, un bravo arciere,
compensato in tempo di pace con l'esenzione dalle imposte (da
qui il nome di Franco Tiratore). Con questo mezzo
Carlo VII di Francia poté disporre di 7000 uomini sempre
addestrati e in perfetta forma. I signori diventavano
ufficiali del re. Intanto lo stesso sviluppo
dell'artiglieria a fuoco contribuiva a trasformare l'esercito
feudale: solo il potere centrale poteva permettersi di sostenere
le spese ingenti per arsenali e parchi di bocche da fuoco. I
membri delle compagnie d'ordinanza furono definiti "gendarmi"
per eccellenza, utilizzati sia in guerra che per il mantenimento
dell'ordine pubblico, da questo corpo deriva quello della
gendarmeria francese attuale.
Le compagnie di ventura
Le
"ordinanze francesi" sono state anche un colpo molto
pesante alle compagnie di ventura, che fino ad allora
avevano operato accanto agli eserciti feudali e regi. Erano
formate da professionisti della guerra, cadetti, spesso senza
eredità, piccoli nobili rovinati dei rivolgimenti economici che
avevano tolto valore alla guerra, cittadini esiliati dalla
fazione vittoriosa, antichi servi della gleba e, con le
crociate, i reduci che non sapevano più avere altra occupazione
se non è la guerra stessa. Assoldati prima individualmente, poi
in piccole bande, i venturieri si erano raccolti in
compagnie più o meno vaste, per il vantaggio di unire insieme le
forze e guadagni. Il capitano della compagnia poteva offrire
così al migliore offerente i suoi servigi, diventando il vero
agente di un'impresa economica. E di questi servigi la monarchia
francese si era avvalsa per combattere il re d'Inghilterra nelle
lunghe e numerose guerre che contrapposero i due paese, ma anche
per comprirere il potere dei feudatari. Tra le compagnie di
ventura vi erano quelle più organizzate e quelle che
assomigliavano più che altro a bande di predoni, come quelle
passate alla storia degli Almogavari o come le Masnade.
I primi erano mercenari che seguirono Pietro III d'Aragona
nella conquista della Sicilia nel 1288. La loro unica
paga è quanto riuscivano a depredare. Così come le masnade erano
gruppi spesso di predoni ai limiti della legge, di cui di volta
in volta si servivano i signori. Infatti il termine masnada andò
presto a indicare un'accezione molto negativa, che indicava un
gruppo di sbandati, "senza disciplina".
I condottieri
La
terra in cui le compagnie di ventura fiorino di più fu l'Italia.
Signorie e principati, che disponevano di basi finanziarie
cospicue, e preferivano non valersi di eserciti di cittadini che
avessero nostalgie di libertà. Assoldarono milizie mercenarie,
prima straniere, poi, soprattutto dopo la vittoria sulle milizie
bretoni (nella Battaglia di Marino), del condottiero
Alberigo da Barbiano a capo della sua Compagnia di San
Giorgio, nel 1379, italiane. Dalla compagnia di da Barbiano
emersero in seguito molti condottieri famosi come Ugolotto
Biancardo, Jacopo dal Verme, Facino Cane,
Ottobono Terzi, Ceccolino da Michelotti,
Giacomo Attendolo (detto Sforza capostitipe della omonima
dinastia) e soprattutto Braccio da Montone. Alberigo da
Barbiano innovò l'arte della guerra, soprattutto il combattimento
a cavallo, modificando le barde dei cavalli, rendendole delle
vere e proprie coperte d'acciaio lunghe, ideando nuove tecniche
di carica e munendo il muso del destriero di uno spuntone che
all'occorrenza diveniva micidiale nell’assalto; aggiunse,
inoltre, la ventaglia ed il collare all’elmo del cavaliere per
proteggerne il collo.
I
condottieri pagano direttamente le loro lance (la
compagnia del Carmagnola, nel 1427, ne contava 230; la lancia,
in Italia, era composta da un uomo d'arme, uno scudiero, un
paggio, tutti tre montati, ma solo il primo combattente) e si
fanno pagare dello Stato che li assolda. La lancia era
compasta di base composta da tre componenti, un cavaliere
pesantemente armato e protetto (il cosiddetto capolancia, o
anche "elmetto", da capolancia deriva il termine "caporale"),
uno scudiero a cavallo, dotato
tuttavia di solo armamento leggero (chiamato piatto e, in
Francia, coustillier) e un paggio (in Italia spesso un
Saccomanno) che assolveva alle consuete funzioni di servitore,
vivandiere, portaordini, oltre a provvedere alle esigenze più
materiali (cucina, saccheggio, raccolta della legna, trasporto
delle tende ecc.). La lancia quindi era composta da almeno 3
persone, ma in genere da 5 cavalli, due destrieri e due ronzini
grossi per il combattimento del capo-lancia e del piatto (il
termine ronzino inizialmente indicava un cavallo di qualità
inferiore al destriero, ma comunque in grado di reggere un
cavaliere pesante), più un ronzino piccolo usato dal saccomanno
come cavallo da tiro o per i suoi spostamenti, e solo in
condizioni di emergenza utilizzato in battaglia.
I
condottieri erano avidi
di guadagno ma anche di potenza e di gloria e subirono alterne
vicende. Un esempio su tutti fu Antonio di Montefeltro,
conte d'Urbino fortunato impresario di guerra, che dei
suoi possessi, così come poi il più celebre duca Federico,
fece il centro inesauribile per il reclutamento di milizie.
Non finì bene a Francesco Bussone detto il Carmagnola,
accusato di tradimento dei sospettosi veneziani e finito
decapitato con tre colpi di spada.
Alessandro Manzoni,
perorò l'innocenza del Carmagnola, nella tragedia del Conte
di Carmagnola ("nulla da temer più resta"), nella
quale si fa del condottiero il profilo di un leale servitore
della repubblica ma che fu sacrificato nel nome della ragion di
stato. Andò meglio a Bartolomeo Colleoni, luogotenente
proprio del Carmagnola sotto le insegne di Venezia, spentosi
invece come un ricco signore campagnolo nel suo castello di
Malpaga (che è ancora in piedi). Al condottiero Francesco
Sforza nato a San Miniato nell'attuale provincia di
Pisa, riucì, unico caso, a sedersi sul trono ducale di Milano
succedendo ai Visconti (dopo avere sposato Bianca
Maria Visconti) e a creare una dinastia seppur breve. Il
padre di quest'ultimo Giacomo (o Jacopo) Attendolo, anche
lui capitano di ventura, era soprannominato prima Muzzo o Muzio
(da Giacomuzzo), poi Sforza, soprannome che diventò il cognome
di famiglia.
La
guerra era per i condottieri un'arte e si distinguevano i
condottieri in vere e proprie scuole di pensiero: la scuola
braccesca per l'impeto in battaglia, da Braccio da Montone,
detto anche
Braccio
Fortebracci e la scuola
sforzesca per la sapienza tattica, da Francesco Sforza.
Ma tutti, nel sospetto che circondava il loro servizio,
divennero comunque vittime anche della crisi profonda dell'arte
militare del loro tempo. La cavalleria era incapace di
battaglie decisive, annientatrici, prevalendo i mezzi di difesa.
La guerra non riusciva, quasi mai, a risolvere la lotta
politica, che nelle vicende dinastiche, nel gioco alterno delle
alleanze pareva avere un più risolutivo teatro. Mentre le
compagnie scendevano in campo per tentare di sorprendere
l'avversario fuori dalle fortificazioni campali, continuava il
lavoro della diplomazia per tentare nuove compromessi, nuove
combinazioni. Da qui l'insicurezza degli stessi condottieri
incerti del loro avversari, pagati, ma isolati nella loro azione
di guerra, e la tentazione, in alcuni di essi, di stabilizzare
la loro posizione, aldilà dalle annuali condotte, in un possesso
della loro forza militare poteva mostrare a portata di mano.
Secondo Machiavelli gli scontri tra
condottieri erano per lo più farse
A
volte furono considerate delle vere e proprie farse,
sulla scorta del disprezzo macchiavellico, le battaglie tra
condottieri in Italia, quasi fossero soltanto scontri scontri
incruenti, occasione soltanto di fare prigionieri per guadagnare
sul riscatto. Ma è un giudizio inesatto. La Battaglia di
Anghiari, vicino ad Arezzo ad esempio, nel 1440 tra
Michelotto Attendolo (cugino di cugino di Muzio Attendolo
Sforza e di Francesco Sforza e genero di Braccio
da Montone) e un altro celebre condottiero, Niccolò
Piccinino, dove si affrontarono 3500 cavalli e 2000 fanti
per parte, non ebbe, come vuole Macchiavelli, solo un
morto per altro accidentale (Ed in tanta rotta e in sì lunga
zuffa che durò dalle venti alle ventiquattro ore, non vi morì
che un uomo, il quale non di ferite ne d'altro virtuoso colpo,
ma caduto da cavallo e calpesto spirò). La battaglia provocò
per i canoni dell'epoca un certo spargimento di sangue. Secondo
Flavio Biondo lo storico e umanista del Rinascimento (fu
lui a coniare il termine medio-evo) il Piccinino, battuto,
avrebbe avuto 60 morti e 400 feriti. Un bilancio comunque
pesante dati i mezzi di difesa rinascimentali. In seguito poi
lo storico britannico Michael Mallett dopo attenti
studi ipotizzo che le perdite complessive della battaglia
ammontavano a circa 900 morti complessivi. La battaglia di
Anghiari è rimasta celebre nella storia per la copia che Paul
Rubens fece dell'originale di Leonardo da Vinci (nell'immagine).
La cosa sicura era che i condottieri,
disposti, orgogliosi professionisti quali erano, anche a
rischiare la vita, preferivano fare più prigionieri (lo Sforza
ad Anghiari ne fece 1800) che ammazzare, poiché i morti non
pagavano il riscatto e prigionieri sì; ed erano pronti, salvo le
gelosie del mestiere e i rancori personali, a rispettarsi dopo
lo scontro, poichè dopo qualche mese, la ruota delle vicende,
avrebbe potuto farli ritrovare fianco a fianco, pagati magari lo
stesso padrone.
Le flotte medievali
L'impero
bizantino aveva conservato l'antica tradizione marinara nel
suo dromone, lunga nave a un solo ordine di rematori. Dal
modello bizantino derivò la galera (o galea), la
tipica nave da combattimento, nel Meditterraneo medievale, da
quando le coste erano tornate a essere sbocco di vita e non più,
come nell'età barbarica, confine estremo di popoli arroccati
lontano da esse. Ma proprio in relazione alle necessità di
offesa, e di difesa delle flotte commerciali che, in carovana,
dai porti ad esempio delle repubbliche marinare,
tessevano instancabili la loro audacia rete di traffici, anche
le navi a vela, e non più solo le galere a remi, furono via via
attrezzate al combattimento. Gli Uscieri, per esempio,
erano le grosse navi a vela chiamate così per gli sportelli o
usci praticati sui fianchi per agevolare l'imbarco di cavalli e
di macchine da guerra; insieme alle galere partecipano anch'essi
alla battaglia, buttando nella mischia, vere e proprie fortezze
galleggianti, attraverso i loro castelli e ponti volanti, con
ordigni adatti, dei veri e propri proiettili, da lanciare sulle
navi avversarie. Fortezze che talora, nel combattimento,
venivano legate tra loro per formare il cosiddetto "porto
d'alto mare" o "porto galleggiante", perché il vento
non ne isolasse qualcuna, facendone preda delle più veloci
galere, superiori certo, queste, negli scontri rapidi in mare
aperto.
Erano
più utili invece le navi a vela per imprese marittime più
complesse: alla conquista di Costantinopoli della quarta
crociata (quella tra cristiani) furono impiegate 62 galere, ma
ben 100 uscieri. La velatura si era fatta più forte. Non più la
vela "alla quadra" ingombrante, ma la vela triangolare
latina (il termine vela latina deriva da vela alla trina,
c'è triangolare), e tra la vela di maestra è quella di bompresso
(l'albero di prua), una vela di mezzana: una velatura che si
gioverà nel XII secolo anche di un timore vero e proprio,
su alcuni agugliotti metallici (supporti che servivano a tenere
fermo il timone per consentirgli di girare), invece che
dell'antico remo-timone. Ma la vittoria definitiva sulla galera
sarà determinata soltanto dall'apparire delle armi da fuoco. La
galera, tutta stipata di rematori, poteva solo piazzare una
bocca da fuoco fissa, nella corsia. La nave a vela, nelle varie
forme che assunse fino al galeone cinquecentesco, potere invece
portare agevolmente un buon quantitativo di artiglieria su
entrambi i lati.
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