Alfredo Panzini

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Alfredo Panzini - Biografia e opere

Di Massimo Serra

La vita e l'opera di Alfredo Panzini si collocano a cavallo di due secoli l’’800 e il ‘900; tuttavia, pur avendo raggiunto la maturità nel XX secolo, egli rimane ideologicamente e culturalmente legato alla "fin de siecle", la fine dell’800. Borghese di nascita, lo fu anche suo lavoro; con rispetto alla sua formazione e al suo contesto, nonché al suo orientamento per la bella scrittura, fu un classicista. Venerò i classici, si ispirò ad essi e cercò di mantenere (e sporadicamente migliorare) la tradizione di cui era il prodotto. Nacque a Senigallia, nelle Marche, nel 1863. Suo padre era un medico e un moderato proprietario terriero che perse il suo piccolo patrimonio al tavolo da gioco. Compiuti gli studi secondari nella città natale, Alfredo ottenne una borsa di studio presso il collegio veneziano Foscarini, grazie all'intervento personale di un funzionario della Prefettura di Senigallia. Dopo il diploma si iscrisse all'Università di Bologna, dove studiò con uno dei più prestigiosi poeti e letterati italiani, Giosuè Carducci. Nel 1886 Panzini si laureò con una tesi sulla poesia maccheronica, un particolare tipo di poesia che si distingue per il suo linguaggio umoristico, la cui struttura e sintassi è latina ma le parole sono sia latine che italiane, con terminazioni latine! Vinse poi un concorso nazionale per l'insegnamento e fu assegnato prima a Castellamare di Stabia, vicino a Napoli, e in seguito a Napoli, quindi a Imola e poi, grazie all'interessamento del suo mentore Carducci, a Milano, dove rimase fino al 1917. In quel periodo, incapace di sopportare il dolore per la perdita dell'unico figlio Umbertino, morto nel 1910, si trasferì a Roma. Nel 1928 si ritirò; un anno dopo fu nominato membro dell'Accademia d'Italia, appena riattivata da Mussolini. Scrisse praticamente fino al giorno della sua morte avvenuto nell’aprile 1939.

Lo schema della traiettoria di Panzini è fin troppo familiare, soprattutto per quanto riguarda la sua formazione. Ciò che è insolito è il fatto che la sua attrazione per l'insegnamento sembra essere dovuta non tanto a ragioni vocazionali quanto a ragioni pratiche. Formato da un grande classicista, è naturale che già durante gli studi universitari Panzini abbia sviluppato una grande sensibilità per la letteratura classica, latina e italiana: la sua venerazione per Omero, Catullo, Esiodo, Virgilio, Boiardo e Ariosto (per citare alcuni dei suoi autori preferiti) si riflette pagina dopo pagina nei numerosi libri che scrisse durante una vita intensa; libri pieni di descrizioni della natura e della vita rurale. Il suo stile, spesso lavorato con la proverbiale lima dell'artista, è stato accuratamente cesellato per tradurre in letteratura il mondo idilliaco e pastorale che desiderava. Le parole che usava, i temi che ricorrono nella sua produzione letteraria, la scena e gli stati d'animo che riusciva a creare sulla pagina stampata, suggeriscono il sapore unico del paesaggio romagnolo che amava profondamente. Certo, le sue fatiche non sono sempre riuscite: a volte si avverte una sorta di tecnica pedante, eccessivamente sforzata, che distrugge la sensazione di spontaneità che egli cercava di trasmettere. Ma c'è di più: i suoi libri mettono in luce una tendenza a fuggire dalle "città invivibili", una marcata preferenza per la pace e la calma della campagna. Panzini si identifica ovviamente con un'epoca meno caotica e più saldamente strutturata. La sua profonda preoccupazione per quella che doveva sembrare un'erosione dei valori tradizionali si riflette più volte nella sua concezione di una società strettamente organizzata intorno alla famiglia. Allo stesso modo, il suo rispetto per la nazione, il suo desiderio di vederla ristabilita in una posizione di grandezza, indicano il carattere di un uomo i cui valori erano quelli della classe media istruita, purtroppo incapace di accettare le aspirazioni meno egoistiche e più nobili dei gruppi liberali e di sinistra. L'amore di Panzini per la famiglia, per Dio e per il paese prova il suo senso di meraviglia verso la natura, il suo solido rispetto per le funzioni vitali della donna sono lodevoli e ammirevoli, se non fosse che, così come sono presentati nella sua opera, glorificano la vita della borghesia, impegnata nell'ordine e nella conservazione delle istituzioni sociali e politiche, particolarmente gelosa del proprio potere e delle proprie prerogative. Non c’era niente di male in questo, ognuno puntava a segmenti di lettori ed era giusto così. In più Panzini era, come vedremo, un figlio del periodo risorgimentale italiano, di cui insieme ad altri raccolse il testimone senza preoccuparsi molto delle spinte ideologiche a cavallo di ‘800 e ‘900.

Dietro questa facciata di rispettabilità, come spesso accade, c'era un'altra vista meno attraente che la sensibilità di Panzini riconosceva ma che non era in grado di affrontare: lo sfruttamento della classe operaia, le politiche repressive in patria e l'imperialismo in politica estera, l'intellettualismo e la corruzione che avrebbero portato alla nascita e alla vittoria del fascismo negli anni Venti. Aveva tanti critici che elogiavano il suo operato, come Sibilla Aleramo, Massimo Bontempelli, Federico Tozzi, Eugenio Montale, Curzio Malaparte, Luigi Russo, Ernesto Giacomo Parodi, Attilio Momigliano, Pietro Pancrazi, Adriano Tilgher, Giacomo Debenedetti, Goffredo Bellonci. Ma tra tutti prevalsero, soprattutto nel giudizio sull’autore dopo il secondo conflitto mondiale, alcuni giudizi critici negativi, di peso. Come quelli di Croce e Gramsci.

Egli "non riesce a dare forma e a comunicare le sue emozioni e le sue immagini poetiche", secondo le parole di Benedetto Croce. "... se non attraverso una maschera. Ha messo sui suoi volti la maschera di chi non capisce la frode che è la vita, e la ragione per cui gli uomini e le donne sono quello che sono, e, poiché dichiara di non capire, si sente superiore a chi crede di capire".

L'immagine che emerge dai libri che Panzini scrisse non è tanto quella di un romanziere quanto di un perenne "turista" nel senso migliore del termine, un commentatore appassionato della vita: da qui i suoi numerosi viaggi in bicicletta sulla costa orientale e adriatica dell'Italia, in città e borghi che le sue letture classiche gli avevano insegnato ad amare. Le sue escursioni gli fornirono ampi spunti per i suoi racconti e saggi, mentre il suo amore per il passato diede ulteriore impulso alla sua propensione a scrivere favole, la più evasiva delle attività letterarie. I personaggi che creò per i suoi libri sono tutti, in larga misura, proiezioni di se stesso: razionali, premurosi, dignitosi, inclini allo scetticismo, persone né eccessivamente inventive né profonde, che si ritrovarono di fronte all'alba di una nuova era, incapaci di reagire ad essa, impreparati ad affrontare le sfide dei nuovi tempi e i cambiamenti di costumi e valori che inevitabilmente accompagnano tali tempi. "Se scrutiamo le opinioni del Panzini", osservava acutamente Benedetto Croce, "i suoi giudizi contraddittori, i suoi sentimenti contrastanti, temo che non si possa trovare altro che una grande paura di un mondo in movimento, e un'inquietudine che può derivare da questo movimento alla propria tranquillità e al proprio benessere".

Panzini sceglie l'unica via d'uscita possibile dalla sua situazione filtrando la sua esperienza attraverso lenti autobiografiche, dando così consistenza e credibilità alle sue idee sul mondo. "L'interesse dell'autore", osservava uno dei suoi primi e più perspicaci, anche se troppo generosi critici, Renato Serra, "non è nei [suoi] personaggi, di cui gli capita di raccontare la storia; è nella storia del suo stesso cuore; la sua narrazione è soprattutto un lungo e meditato soliloquio, di tanto in tanto variato da personaggi leggeri".

Panzini scrisse un numero straordinario di libri e la versatilità fu il suo marchio di fabbrica: saggi, racconti, opere pseudostoriche, romanzi e un avvincente Dizionario moderno attraverso il quale cercò di arricchire il suo linguaggio, raccogliendo e spiegando le molte parole che, attinte da altre lingue e dialetti, erano entrate a far parte dell'italiano colloquiale. Solo verso gli ultimi anni della sua vita alcune delle opere di Panzini ottennero un grande successo presso il grande pubblico, anche se i suoi scritti erano apparsi regolarmente su riviste borghesi come L'Illustrazione italiana e La Nuova Antologia. Per quanto riguarda la critica, la storia è un'altra. Dai critici ricevette un'attenzione costante, anche se alcuni, come Luigi Russo e Benedetto Croce, non potevano essere sempre annoverati tra i suoi ammiratori. Negli anni Venti un critico come Luigi Tonelli, nel suo Alla ricerca della personalità, nominava Panzini insieme a Grazia Deledda e Luigi Pirandello come "scrittore più degnamente celebrato". Croce, d'altra parte, lamentava in un saggio pungente che per circa vent'anni Panzini aveva cercato di allargare il suo pubblico sacrificando la qualità, e lo accusava di lavorare "meccanicamente" e di "crescente frivolezza e vacuità". L'autore stesso non ignorava i pericoli di un'eccessiva dispersione e di un'eccessiva attività: tra il suo regolare incarico di insegnante, il corso extra tenuto al Politecnico di Milano e le lezioni private per aumentare il suo magro stipendio, si lamentava, in una lettera al suo buon amico e collega scrittore Marino Moretti, nel 1919: "Sono stanco di lavorare. Nessun lavoratore ha lavorato più di me. Lavoro inutile, forse; ma pur sempre lavoro". Come altri scrittori prima e dopo di lui (Balzac e Dostoevskij, per citarne solo due), Panzini scoprì il terrore di trasformarsi in una specie di automa che scriveva continuamente per stare al passo con i suoi impegni editoriali.

Ma che dire dei critici che lo ammiravano: cosa vedevano nei suoi scritti che suscitava il loro rispetto e la loro stima? La domanda può trovare una risposta se si tiene presente che, in un'epoca che cominciava a reagire sia alla scrittura "essenziale" dei post-veristi sia alla prosa dorata di d'Annunzio, i lettori dovevano trovare un certo conforto in un letterato che affondava le sue radici nella tradizione classica, che aveva un senso dello stile e che teneva al suo mestiere. In un'epoca di retorica dannunziana, che aveva seguito un tipo di romanzo che non molti avrebbero trovato gradevole per la sua frequente crudezza e il suo brutale candore, deve essere sembrato confortante leggere uno scrittore che sapesse essere spiritoso e affascinante senza essere roboante o offensivo.

Che tipo di scrittore era Panzini? A giudicare dai suoi racconti, si può dire che fosse, per dirla in parole povere, un favolista senza complicazioni, un narratore malinconico che sapeva rappresentare il pathos della vita, ma non la sua tragedia, che sapeva presentare in modo drammatico la sua infelicità nei confronti del presente, ma che non riusciva ad appassionarsi alle indignazioni che producevano miseria; che sapeva rivolgersi in modo delicato e convincente alla meravigliosa qualità della vita di un tempo, senza capire che il passato ci appare bello solo perché la nostra prospettiva storica ci fa dimenticare i suoi giorni bui e piovosi. Nel racconto Le Ostriche di San Damiano, ad esempio, racconta di un insegnante che si reca in un ristorante di lusso, di quelli che non può davvero permettersi, e viene più o meno costretto dal cameriere a ordinare un pasto al di sopra delle sue possibilità, anche se il piatto è di qualità. Le ostriche che gli vengono servite sono "offerte dalla casa" per celebrare il santo patrono. Il proprietario, scopriamo presto, era uno degli ex studenti del professore, da lui bocciato in latino e italiano. Il professore è comprensibilmente imbarazzato: il ristoratore, invece, è molto grato al suo ex insegnante. Il voto negativo ricevuto a scuola è stato l'evento che ha finalmente convinto il padre della mancanza di interesse del figlio per gli studi accademici. Di conseguenza, è stato mandato in una nota scuola di formazione in Svizzera, dove ha acquisito le competenze che hanno reso possibile il suo successo imprenditoriale.

La storia, narrata in modo leggero e senza pretese, è in un certo senso tipica della spensieratezza, dell'umorismo e della semplicità di Panzini. Un altro racconto Padre e figlio, pubblicato nel volume Fiabe della Virtù, narra della profonda discordia tra due generazioni, un tema i cui risvolti sono quanto di più contemporaneo si possa trovare. Domenico è un agricoltore di grande successo, rinomato in tutta la regione per l'abilità e gli ottimi risultati ottenuti con il suo metodo di allevamento delle mucche e di lavorazione della terra. Il suo matrimonio è stato un disastro e, poco dopo la nascita del figlio Marco, si separa dalla moglie, che muore poco dopo. Marco viene iscritto in un bel collegio dove diventa uno studente eccezionale, la cui mente incredibile gli permette di memorizzare interi passaggi dei libri che legge.

Tutti prevedono per il giovane un futuro brillante, opinione confermata dalla sua eccellenza nella facoltà di legge a cui è stato ammesso e in cui si è laureato. Con grande disappunto del padre, però, Marco sceglie di non aprire uno studio legale, ma di diventare scrittore. La gente del paese ammira la sua dedizione alla vocazione scelta; il padre, invece, si risente del fatto che l'impegno del figlio nella scrittura gli impedisca di prendere in mano l'attività di successo della famiglia. Col passare del tempo, Marco va a trovare il padre sempre meno regolarmente, tranne quando è pronto (come si lamenta il padre) "a dare alla luce il suo libro". Un giorno Marco, ormai quarantenne, torna a casa, si ammala e muore. La sua morte si trasforma in una esperienza traumatica per Domenico, che inizia a disfarsi della sua proprietà, donandola a organizzazioni benefiche e progettando di trasformare la sua casa, e in particolare lo studio del figlio scomparso, in una sorta di mausoleo. "Poi", conclude Panzini, "il tempo passò e la gente non parlò più di Marco, l'eroe, del monumento e del cipresso". Padre e figlio è una storia commovente, pervasa di pathos, strettamente costruita intorno al conflitto tra valori materiali e non materiali, all'incomprensione tra vecchie e nuove generazioni, all'insensibilità di chi vede solo nell'accumulo di ricchezze il fine ultimo dell'uomo, la sua ragion d’essere.

La consapevolezza di quello che oggi si suole chiamare "divario generazionale" è un leitmotiv di gran parte della produzione letteraria di Panzini. Già nel 1893, nel suo Il libro dei Morti, uno dei personaggi, Giacomo, confessa il suo senso di alienazione dicendo: "Sono fuori posto in questa società. Sono perso in essa". Questo sentimento è essenzialmente ciò che spinge Panzini a insistere nel guardare al passato per trovare le proprie radici ma anche, ahimè, come unico modo per evitare le sgradevolezze e le difficoltà del presente. Lo ritroviamo nei suoi racconti e lo ritroviamo nella maggior parte, se non in tutte, le opere più lunghe (generalmente ibridi di narrativa, storia, commenti di viaggio, reminiscenze personali, erudizione e così via) come Lanterna di Diogene (1907) e Viaggio di un povero letterato (1918).

Tra i molti romanzi (il termine è qui usato in mancanza di uno migliore) scritti da Panzini, La Madonna di Mamà sembra essere il più vicino alla concezione tradizionale del genere (con dedica al critico letterario Renato Serra). Del resto, l'autore stesso aveva un occhio di riguardo per quest'opera, come dimostrano le accurate revisioni a cui la sottopose quando la preparò per le edizioni successive.

Tradizionale in tutti i sensi, il libro ha un tema semplice, caro a Panzini perché tratto dalla sua stessa esperienza: la lotta e il dolore di un giovane che lascia il suo paese natale per la città, dove si libererà dei suoi atteggiamenti e delle sue idee provinciali e guadagnerà la sua virilità. Il romanzo rappresenta uno degli sforzi di Panzini per comprendere il presente, con tutte le sue complessità, senza rifugiarsi nel passato. Alla fine Panzini affronta con decisione lo smarrimento provocato dalla Prima guerra mondiale (tipico di molti scrittori dell’epoca, come ad esempio Matilde Serao in Mors Tua) e, per estensione, da tutte le guerre, seguendo contemporaneamente il tentativo del giovane protagonista di essere assorbito, accettato e integrato nella società urbana.

Il protagonista della storia è Aquilino che, dopo aver conseguito il diploma, accetta un incarico presso una ricca famiglia aristocratica come insegnante privato del loro brillante, viziato, ma coinvolgente bambino Bobby. I primi mesi nella nuova posizione sono particolarmente difficili per Aquilino, che cerca di orientarsi in un ambiente totalmente nuovo, misterioso e persino estraneo e di stabilire un rapporto produttivo con il suo assistito. Fortunatamente, Bobby non solo è estremamente intelligente, ma anche astuto e abile nel polemizzare con il suo tutore, di cui riesce a sfruttare a suo vantaggio le debolezze e le contraddizioni, rendendo il loro rapporto vivace e pieno di sorprese. Alla fine i due diventano buoni amici e imparano ad andare molto d'accordo. Aquilino stesso si dimostra un insegnante onesto e paziente, che riscuote la simpatia dei suoi datori di lavoro, il marchese Ippolito e sua moglie donna Barberina, che per un po' diventa la sua amante, fino ai mesi inquieti che precedono lo scoppio della Prima guerra mondiale e la crisi politica in Italia, che porta alla spaccatura in due fazioni, una favorevole e l'altra violentemente contraria alla guerra e alla partecipazione dell'Italia al conflitto. La posizione di Aquilino non è tanto legata alle sue convinzioni politiche quanto all'amore per Edith, una governante inglese alle dipendenze della stessa famiglia. Entrambi vengono infatti coinvolti nel movimento pro-guerra. Un giorno si trovano in una manifestazione contro la guerra; fortunatamente riescono a sfuggire alla furia della folla e si rifugiano in un albergo vicino. Lì la loro relazione, che era stata di tipo formale, sboccia in una relazione carnale. Alla fine del libro, Aquilino si congeda da Edith e parte per il servizio militare.

La Madonna di Mamà, come è evidente anche dalla sinossi, non è un libro molto emozionante. Eppure, è tipico della migliore arte di Panzini come qualsiasi altro romanzo da lui scritto. C'è, per esempio, un'intrusione rilevabile da parte dell’autore nel romanzo stesso, attraverso una dolce ironia e un umorismo che pervade la storia. Finalmente abbiamo la sensazione che qualcosa stia accadendo, cambiando ed evolvendo, una qualità rara nell'opera altrimenti statica di Panzini; sentiamo anche qualcosa dei cambiamenti nelle relazioni personali dei vari personaggi: Bobby, Aquilino, donna Barberina, Edith. Percepiamo anche una piccola parte dei cambiamenti storici che l'Italia ha vissuto nei difficili mesi precedenti la prima guerra mondiale, soprattutto per quanto riguarda la politica di estrema destra e di e sinistra.

Ma ci sono molti aspetti inquietanti che tendono a privare il romanzo dell'emozione che dovrebbe avere: i personaggi sono disegnati senza molto spessore; gli eventi sono in gran parte rappresentati con troppa disinvoltura. Panzini sembra essere un artista più a suo agio con gli acquerelli che con gli oli, con una tela piccola piuttosto che una grande; con situazioni comuni e facilmente definibili. Non c'è da stupirsi che Pietro Pancrazi abbia osservato che "I personaggi di Panzini possono far pensare alle suole [di una scarpa]: c'è un lato e c'è l'altro, ma non si vede mai nessuno dei due".

Strutturalmente, il romanzo è rivelatore e tipico, soprattutto per quanto riguarda la capacità dell'autore di comporre una narrazione sostenuta. La Madonna di Mamà è divisa in ventisei capitoli abbastanza brevi, la maggior parte dei quali porta un titolo: sia per il trattamento che per la lunghezza, sembrano essere unità quasi autonome che potrebbero essere lette e godute spesso indipendentemente dall'insieme. Altri elementi tipici di Panzini che si ritrovano ne La Madonna di Mamà sono una garbata ironia e una modesta, ma persistente moralizzazione di tipo manzoniano. Così, ad esempio, dopo aver parlato con il marchese don Ippolito di Torrechiara, Aquilino, confida l'autore, non è dispiaciuto delle sue osservazioni, "perché quando l'uomo si trova in qualche grave difficoltà, è contento se altri gli dimostrano che la perfezione non esiste né in terra né in cielo". Oppure, dopo un'altra conversazione con il marchese, l'autore commenta: 'Vedete! Quando ero bambino, mia madre - che sia benedetta la sua anima - era solita dire: L'erba che voglio non cresce da nessuna parte se non nel giardino del Papa. È ovvio che non cresce più nemmeno lì". Episodico, scettico, lievemente ironico, perennemente pessimista ma contenuto, Panzini amava il passato più del presente e costruì gran parte della sua opera letteraria intorno al tema del passato. Era uno scrittore gentile, mai perseguitato dalla sua immaginazione, sempre desideroso di raggiungere il grande pubblico, che sapeva essere poco preparato ai libri difficili. I suoi atteggiamenti e la sua concezione di quello che doveva essere il suo compito rendevano inevitabilmente impossibile o al massimo incerta una scrittura di un certo spessore. Per questo motivo Panzini raramente scontentò i suoi lettori e non sfidò mai veramente i suoi critici. E va bene così. Ci sono sempre stati i generi. Tuttavia Panzini ha accompagnato per un paio di generazioni i lettori italiani facendo in qualche modo parte delle loro vite. Egli appartiene a un'epoca di crepuscolarismo, un periodo di luci soffuse e di visioni umili. Nel migliore dei casi è un narratore piacevole, nel peggiore un moralizzatore semplicistico: era, come ha detto giustamente un critico, uno scrittore nato non "per creare fatti e personaggi, ma per nascondersi dietro di essi". "Il suo obiettivo", continua Claudio Marabini, "non cambia: cercherà sempre un uomo, una piccola virtù, un'anima. Non smette mai di spegnere quello sguardo indagatore, pronto a chiedere a chi incontra: "Cosa c'è dentro di te, nell'ombra più nascosta? E tu, cosa stai cercando?" . . . Questo è il motivo per cui non è mai riuscito a scrivere né la storia né i romanzi col classico schema del romanzo, che richiedono un ideale fermo".

È insomma un vero peccato che tra gli scrittori del Novecento si parli veramente poco, e a volte per nulla, di Alfredo Panzini: o, se se ne parla, è per lo più frettolosamente e con giudizi genericamente negativi, che sembrano derivati dalle severe parole di Gramsci, che collocò Panzini fra i nipotini di padre Bresciani o ancora di quelle per nulla tenere di Benedetto Croce. Come società con una cultura prevalentemente di sinistra, per gran parte del dopo guerra (non diamo una accezione negativa o positiva alla cosa) molti degli autori che avevano sottoscritto il manifesto degli intellettuali fascisti redatto da Gentile, fatta eccezione dei premi Nobel come Luigi Pirandello o Grazia Deledda, sono stati completamente dimenticati. Erano forse inferiori di qualità, ma non meritavano l'oblio totale.

Opere, in effetti, enormi e spesso frutto di una facilità di scrittura che si distende libera e solerte per pagine e pagine di romanzi, prose, meditazioni, memorie, viaggi, senza quasi mai uno scatto, ma con molte intrusioni di citazione dotte, di professorali erudizioni, di battute di spirito che vorrebbero essere maliziose e graffianti, ma che ormai risentono della polvere del tempo e dei mutati costumi.

Ai danni di Panzini hanno, poi congiurato anche i suoi lodatori ed estimatori dei primi decenni del secolo, che indicarono oltre in La Lanterna di Diogene, ovvero Un viaggio in bicicletta da Milano a Bellaria il suo capolavoro. Piacque, allora, l’unione di ironia e di pretesa profondità di meditazione e di pensiero, di cultura e di capacità descrittiva, di simbolicità e di realismo: e il giudizio finì con il collocare Panzini fra i prosatori raffinati e arguti, pieno (si disse) di estri e di umori.

Il successo critico de Lanterna di Diogene influenzò lo stesso Panzini, che lo ripeté con Viaggio di un povero letterato, questa volta effettuato in treno, poi finì con l’inserire viaggi in Italia o nel tempo fra Greci e Romani in tante altre opere più determinanti narrative, con alterni risultati.

Eppure Panzini ebbe sicure virtù di narratore, ma proprio nella direzione opposta rispetto alla prosa leccata ed elegante, piuttosto in quella del romanzo di ambiente romagnolo e bolognese, rigoglioso, ma soprattutto sollecitato da uno spirito rabbiosamente conservatore.

Tra i critici, come accennato fu Antonio Gramsci a parlare della reazionarietà di Panzini; ma il giudizio non può essere una semplice etichetta negativa di carattere politico-ideologico. In realtà la reazionarietà di Panzini fu molto vitale per una rappresentazione acida e cruda di un mutare del mondo e della storia che lo trova osservatore lucido e attento di chi vede e teme l’irrimediabilità della trasformazione e si arrovella ugualmente su di essa, cercando di irriderla, di mostrare il carattere di volgarità e di brutalità, di denunciare il mondo capovolto e insensato che, secondo lui, ne viene fuori.

Ci sono altri romanzi di Panzini che riguardo questi temi: La pulcella senza il pulcellaggio e Il padrone sono me. Certo l’autore è un narratore slegato, per episodi, per ritratti: ma la Bologna godereccia e romantica de La pulcella, che scompare di fronte agli arrivisti che vengono della provincia a studiarvi, disposti, si, agli amori, ma più attenti alla carriera, è descritta con sapienza e arguzia e con la divina malinconia di fronte a ciò che è perduto ormai nel passato, mentre acidi corrosivi sono versati sul protagonista diventato deputato socialista, imborghesito a Roma e arricchitosi anche a spese pubbliche.

Estremamente lucida poi nel Padrone sono me, è la rappresentazione della crisi mortale della borghesia per colpa della guerra che pure ha voluto. Nazionalista, della generazione figlia del Risorgimento, Panzini non vede nella Prima Guerra Mondiale che la causa immediata del declino della classe sociale borghese e del trionfo dei profittatori e dei demagoghi, mentre la proprietà passa nelle mani dei contadini, che hanno saputo mettere a frutto la loro astuzia nell’orgia della retorica, di stoltezza, di illusioni, di ingenuità in cui sono precipitati i vecchi padroni. Robertino, il personaggio principale del Padrone sono me,  muore in guerra nella stessa azione da cui esclude, perché si salvi, Zvani, il coetaneo figlio dei suoi contadini, che non crede alla guerra e alla patria; il vecchio astronomo, padre di Robertino e proprietario terriero, impazzisce e dal suo nuovo status di pazzo dal dolore, grida a tutti quelle verità sull’assurdità della guerra che nessuno vuole sentire; l’inquietante e bella Dolly muore anch’essa in un ospedale di guerra; e alla fine chi resta vincitore e Zvani, che si è comprato terra e casa dei padroni di un tempo. Non aveva chissà quali ideali, ma voleva semplicemente vivere e lavorare nella sua terra.

La fine di un mondo, quello dell’Italia borghese nata dal Risorgimento, non poteva essere descritta con più acre amarezza e ferocia. Qui Panzini, proprio perché assume il punto di vista del grande conservatore (e chi mai può seriamente sostenere la sciocchezza che un conservatore [o come direbbe Gramsci un reazionario] non possa essere un grande scrittore?), raggiunge un risultato narrativo di esemplare forza e lucidità.

Biografia

Alfredo Panzini nasce a Senigallia il 31 dicembre 1863, come afferma lui stesso nell’ "Antologia" "d’essere venuto al mondo poco prima che scoccasse l’ultimo dì dell’anno". La madre, Filomena era marchigiana, nonostante l’origine romagnola, mentre Emilio, il padre, era di Rimini a tutti gli effetti, essendo nato e vissuto nella città che era appartenuta ai Malatesta.

Panzini nasce a Senigallia casualmente, essendo la madre andata in visita ai genitori durante le festività. Nonostante ciò non attribuirà mai importanza ai propri natali in terra marchigiana e si sentirà legato unicamente a Rimini, tanto che già in età giovanile dichiarerà Rimini città natia. Allo stesso modo in età adulta affermerà di ricordare di essere nato a Senigallia unicamente quando doveva inserire la propria nascita nei documenti.

Il rapporto con la città di Rimini sarà per lo scrittore travagliato, senza mai una chiara posizione. Nonostante abbia apprezzato la città fino all’adolescenza, Panzini scrive in età adulta in modo ondivago, più negativo che positivo. La moglie affermerà che le sue parole furono "come odio per l’innamorata, perché egli nel profondo amò la sua città intensamente".

I motivi per questo odio sono riconducibili a diversi fattori, come l’ambiente ritenuto troppo chiuso e la cattiva reputazione della famiglia per le ingenti perdite del padre Emilio al gioco e per la sua mancata oculatezza nella gestione del patrimonio familiare, tanto che sfidò un uomo che aveva scritto un articoletto diffamatorio, tale Quintino Quagliati, in un duello all’arma bianca. Il disprezzo per la città natale aumentò soprattutto con la morte della madre Filomena, avvenuta nel 1912; solo nella vecchiaia Panzini tornerà a scrivere parole d’amore per la sua terra.

L’infanzia di Alfredo non fu tra le peggiori ma nemmeno tra le migliori. L’ambiente famigliare non era felice, principalmente a causa della dipendenza dal gioco del padre, che graverà come un macigno per la sua famiglia. Per tutta la vita coltiverà un odio morboso per il gioco, e anche la sua carriera letteraria sarà molto influenzata dalla gioventù, come nel racconto breve La cagna nera, dove analizzerà dal punto di vista del figlio la decadenza di una famiglia di piccola nobiltà e soprattutto le ripercussioni sulla propria vita.

Frequenta le scuole elementari a Rimini, poi nel 1875 continua l’istruzione al ginnasio comunale, per trasferirsi quasi subito al collegio Foscarini a Venezia. Sebbene durante gli anni del liceo iniziò a coltivare la passione per la scrittura, quei sette anni (1875-1882) furono molto complicati per lui. Essendo d’origini umili ed essendo entrato in collegio per fortuna ed intercessioni, venne preso di mira dagli altri ragazzi, tutti altolocati, che studiavano in collegio. Questi anni trasformeranno il carattere del giovane, rendendolo pessimista verso uomo e la natura. Anche il complesso di inferiorità che si porterà appresso per tutta la vita è dovuto all’esperienza tra i figli dell’élite, come lo scrittore ricorda in numerosi scritti autobiografici e non, tra i quali il Trionfo della penna d’airone e Memorie di scuola. Panzini definisce quegli anni come quelli in cui la sua giovinezza è appassita. Ricorda come una presenza luminosa in quel luogo buio, il professore Giorgio Politeo (coltivatore di anime).

Finalmente, venendo promosso "ad honorem", nel 1882 lascia Venezia. Si reca a Roma, quasi subito, per partecipare ad un concorso letterario per neodiplomati, preseduto da Giosuè Carducci. Fallisce questa opportunità, venendo giudicato da Carducci e dalla commissione prolisso.

Nonostante la bocciatura di Carducci, Panzini continuerà a prendere come figura ispiratrice il poeta, che sarà il suo professore e mentore per tutta la sua permanenza a Bologna; si ispirerà all’uomo tanto da definirlo "l’ultimo dei classici" ed addirittura scriverà su di lui il saggio divulgativo "l’evoluzione di Giosuè Carducci", una difesa del nativo di Valdicastello contro chi lo accusava di appoggiare la causa monarchica.

Oltre a Carducci, durante i suoi anni a Bologna incontrerà altre personalità di rilievo. Come insegnante avrà anche Francesco Acri, il filosofo studioso di Aristotele, Conoscerà anche Giovanni Pascoli, che gli dedicherà La bicicletta di Ninì (1902) "dovuta all’ingegno schiettissimo di un giovane" e che lo definirà successivamente "un romagnolo bravo sul serio".

Quando Panzini arrivò a Bologna nel 1882 per iniziare i suoi studi all'Università, trovò una città prospera e in crescita. Il corpo studentesco vi occupava da secoli una posizione piuttosto privilegiata e non era difficile godersi la vita a fondo anche per un giovane di mezzi limitati come Panzini. Lo stesso ci ha fornito un quadro affascinante e vivido della vita studentesca di allora, nel suo libro La pulcella senza pulcellaggio, che ha come sfondo la Bologna di quei tempi e come atmosfera gli ambienti studenteschi come lui stesso doveva averli conosciuti. A parte la libertà appena acquisita, che ora era illimitata come lo era stata la sua mancanza ai tempi della scuola veneziana, la più grande fonte di soddisfazione per Panzini era senza dubbio l'indipendenza finanziaria che la borsa di studio gli consentiva. Ne era orgoglioso e continuò ad esserlo per tutta la vita: "A vent'anni non essere più a carico di papà, questa era una bella soddisfazione secondo la morale del vecchio Ottocento".

Aveva a disposizione 75 lire al mese. Non era una fortuna, ma la libertà, il nuovo ambiente, la vita universitaria contribuivano a rendergli la vita dolce. Anche i ricordi spiacevoli degli anni a Venezia si erano affievoliti e Panzini sembrava, dopo qualche mese, essersi scrollato di dosso il suo costante senso di pessimismo e cominciava anzi a considerare la vita con un atteggiamento più benevolo. Ma questa parentesi di felicità non durò a lungo, e il destino richiese un tributo ancora maggiore di dolore e di lacrime per la breve tregua concessa. Nel 1883, mentre frequentava il secondo anno di università, il padre morì all'improvviso. Fu un colpo terribile per il giovane, che era molto legato al genitore, e gli sembrò doppiamente doloroso perché il padre aveva solo 52 anni e non c'era stata alcuna malattia che facesse pensare a una morte così prematura. Inoltre, a parte il suo dolore personale, le condizioni della famiglia divennero peggiori di quanto non fossero mai state, e Panzini dovette risparmiare sulla sua misera borsa di studio per aiutare la madre. Furono mesi neri sia mentalmente e che fisicamente, e non fu insolito per il futuro scrittore dover andare avanti con due o addirittura un solo pasto al giorno.

A complicare ulteriormente le cose, Panzini scelse proprio questo momento inopportuno per innamorarsi. Non si trattava di una fantasia passeggera, ma di un sentimento radicato, e nonostante le sue condizioni precarie Panzini voleva sposarsi: ''Pensare tanti anni fa, quando io avevo vent'anni! Io ero orfano di babbo, e vivevo così poveramente che spesso era necessario saltare la colazione; la mia povera mamma, i miei fratellini piccini . . . Ebbene, io volevo sposarla, Mimi, sposarla col sindaco, col prete, col codice."

Panzini era davvero determinato e se Mimì avesse condiviso la sua impazienza probabilmente avrebbe portato avanti i suoi piani nonostante il rifiuto categorico della madre di approvare un simile progetto.

Mimì era una sarta: "Ella era allora, una piccola pallida sartina, precoce, venuta al mondo con due enormi tondi occhi colmi di curiosità, un nasetto impertinente, belle labbra sane a cuore, e gusti eccezionali".

Nonostante gli eminentissimi dotti del tempo dell’università, la persona più importante dei suoi anni accademici sarà propria Emma Scazzari, Mimì, appunto, come viene soprannominata dal Panzini, è una costumista ed un’attrice teatrale. Alfredo si innamorò follemente di lei, un amore fin troppo impulsivo visto che nei primi mesi di conoscenza, come abbiamo visto, le chiede più volte di sposarlo, senza successo. Mimì non fu solo un amore giovanile, ma anche un personaggio che ritroviamo spesso negli scritti di Panzini, quello della donna emancipata e moderna, dai pari diritti e contro gli antichi costumi.

Per Mimì il lavoro di sartina era solo un'occupazione temporanea, perché voleva diventare attrice, come poi fece. In ogni caso, rifiutò costantemente le proposte di Panzini e, dopo che quest'ultimo lasciò Bologna e l'università, i due si separarono e non si videro per più di 30 anni, rincontrandosi solo quando Panzini era ormai uno scrittore di fama e un rispettabile pater familias, mentre Mimì aveva realizzato la sua ambizione di diventare attrice, anche se non aveva mai ottenuto un grande successo. Panzini, tuttavia, non dimenticò mai del tutto questo attaccamento giovanile, il cui ricordo si ritrova in molte sue opere e in particolare ne La pulcella senza pulcellaggio, dove l'antico amore rivive nei ricordi che aveva e, ingentiliti dal tempo e dall'età, trovano un'espressione poetica in quel misto di ingredienti umoristici e tristi, così tipici dell'ultimo Panzini. Anche ne il Viaggio di un povero letterato si narra di questa complicata storia d’amore.

Poco dopo l'inizio delle tribolazioni amorose di Panzini, la tragedia colpì nuovamente la sua famiglia con la morte della sorella Matilde, all'epoca di 7 anni. Non è difficile immaginare quale dovesse essere il suo stato d’animo durante i restanti due anni di università; era sparito quel senso di spensieratezza e di gioia di vivere e ancora una volta era sceso su di lui quell'ineluttabile senso di amarezza e di pessimismo. L'unico punto luminoso della sua vita fu lo studio, al quale si applicò con devozione quasi religiosa, e l'ispirazione che trasse da due dei suoi insegnanti: Francesco Acri e Giosué Carducci, i due uomini che esercitarono su di lui un'influenza particolarmente forte e che lasciarono tracce indelebili sulla sua personalità e sul suo orientamento intellettuale.

Carducci e Acri non avrebbero potuto essere più distanti dal punto di vista temperamentale e spirituale. Questo fatto assume una grande importanza se visto attraverso le qualità dello stesso Panzini, perché non c'è dubbio che la disparità tra i due maestri deve aver contribuito a far emergere quel dualismo che vediamo continuamente riapparire nelle opere di Panzini come la motivazione unica più forte della sua arte. Lo stesso Panzini, giustamente, vedeva la differenza tra i due letterati soprattutto dal punto di vista della religione:

"Per mio conto, nello studio di Bologna, mi capitò di conoscere altri due uomini molto virtuosi, benché l'uno fosse cattolico e l'altro pagano. Il primo si chiamava Francesco Acri, e il secondo Giosué Carducci."

La fede di Acri e la mancanza di fede di Carducci spiegano in gran parte la divergenza che esisteva nelle rispettive concezioni di vita. Da Acri Panzini ereditò un'avversione fortemente radicata per il sistema filosofico noto come "positivismo", che era allora e rimase per un certo tempo una tendenza di pensiero di primo piano. Questo modo di pensare conservava come principio fondamentale l'insistenza sulla verità basata sull'esperienza e si estendeva a tutte le fasi dell'attività umana. Acri vi si opponeva per motivi religiosi, perché negava proprio quelle convinzioni che erano alla base della sua fede. In Panzini, questo antagonismo verso il positivismo sembra derivare più dal temperamento dello scrittore che da una deliberata riflessione. Attacchi palesi e nascosti contro questo sistema sono disseminati in molti suoi scritti, in particolare nei primi, e in ogni caso l'atteggiamento di Panzini è di istintiva ripugnanza nei suoi confronti. Egli sentiva che il positivismo distruggeva tutte quelle sfumature e emozioni dell'uomo, tutte quelle illusioni di umanità, che rendono la vita molto più ricca anche se scientificamente meno accurata. Acri infonde in Panzini anche un grande rispetto per la religione, cioè un senso di religiosità. Panzini non era un uomo religioso nel senso nel senso di praticante scrupoloso, ma possedeva un forte rispetto per le credenze religiose, in parte come residuo sentimentale della sua prima giovinezza e in parte perché sentiva che un mondo senza il messaggio di speranza cristiano sarebbe stato un luogo desolante. Nel suo libro Viaggio con la giovane ebrea, scritto nei suoi ultimi anni di vita, conclude la conversazione con Rossana con una domanda breve ma così piena di significato:

"Sentite Rossana io dissi, ... Il signor Freud fa un totem, un tabù anche di Cristo; ma questo sogno, questa visione, ho tanto desiderato che il fantasma si sia mutato in realtà. E, cara figliuola, se mi togliete Gesù che cosa mi resta? Mi resta poco".

Infine, Acri fu in qualche misura responsabile dello sviluppo dello stile letterario di Panzini, perché nel suo insegnamento dava grande importanza agli scrittori ascetici del XIV secolo e insisteva affinché i suoi studenti li usassero come modelli nei loro scritti. Per quanto grande sia stata l'influenza di Acri su Panzini, essa rimase sempre venata da una sorta di distacco accademico. Acri era Acri, era un uomo difficile da avvicinare e da conoscere intimamente; di carattere schivo e riservato, molto raramente partecipava alla vita pubblica e anche quegli studenti che gli erano molto vicini lo erano solo in classe.

Carducci, naturalmente, era diametralmente opposto ad Acri, soprattutto sotto quest'ultimo aspetto. Il suo carattere forte e aperto lo rendeva facilmente accessibile ai suoi studenti a cui non faceva mai mancare un consiglio sincero e benevolo anche se, a volte, era dato con parole dure e sembrava a tratti crudele. Gli studenti, a loro volta, lo ammiravano: era il loro idolo in classe, quando la sua parola ispirata rendeva la letteratura un fatto di vita; era il loro idolo quando leggevano la sua ultima poesia; era il loro idolo quando, con il suo piglio deciso e inconfondibile, si pronunciava su qualche problema politico o civile. L'esperienza carducciana negli anni della formazione di Panzini fu fondamentale. Il suo inesauribile amore e la sua profonda comprensione dei classici dell'antichità e dell'Italia possono essere ricondotti quasi direttamente a Carducci. Anche lo scetticismo religioso del maestro fu trasmesso all'allievo, sebbene in modo molto attenuato e diluito; infatti, come abbiamo visto, Panzini conservò sempre, se non la fede, almeno un atteggiamento di simpatia verso le credenze religiose, verso la civiltà cristiana in cui era nato e cresciuto. Ma l'influenza di Carducci si manifestò soprattutto in due aspetti: nello stile letterario e in quelle qualità civili che furono fondamentali per rafforzare ancora di più il patriottismo del suo allievo. Per quanto riguarda lo stile di Panzini si è già accennato all'insegnamento di Acri come fattore determinante in questo senso, ma si trattò al massimo di un'influenza parziale e non fondamentale come quella di Carducci.

La prosa classica di quest'ultimo, il suo approccio diretto e conciso, la sua fluida semplicità di parole, l'esposizione uniforme e priva di ostacoli di idee e argomenti racchiusi in frasi armoniosamente equilibrate, così insistentemente evocative dei primi scrittori italiani; tutte queste qualità si possono ben ritrovare alla base dello stile di Panzini. Naturalmente si presentano in una veste nuova, con l'impronta particolare della personalità artistica di Panzini, ma il rapporto è inconfondibile. Nel caso del patriottismo di Panzini si è già evidenziato il ruolo dei suoi antenati nella lotta per l'indipendenza italiana; questo retroterra era servito a far nascere in lui un intenso sentimento di devozione verso la patria, che sotto l'insegnamento di Carducci si è notevolmente ampliato e ha acquisito, accanto all'originaria base emotiva, anche una base culturale e intellettuale. In un'analisi delle opere di Panzini sarebbe necessario trattare più dettagliatamente l'influenza di Carducci; qui è sufficiente averla segnalata. Negli ultimi anni di università Panzini conobbe due scrittori che, pur non avendo dato un'impronta definitiva alla sua opera, gli furono molto cari per alcune affinità con il suo carattere e la sua arte, e i loro nomi si trovano abbastanza frequentemente nelle sue opere: l’irlandese Laurence Sterne e il tedesco Heinrich Heine. Anche il Don Chisciotte di Cervantes divenne uno dei preferiti di Panzini in questo periodo e rimase per tutta la vita una delle sue opere letterarie più amate. Questi particolari autori stranieri sono degni di nota perché sono i più importanti tra i pochissimi che Panzini conobbe direttamente. Mentre la sua conoscenza della letteratura greca, romana e italiana era ampia e profonda, la sua conoscenza della letteratura straniera, in particolare moderna, era poco approfondita.

Si laureò nella primavera del 1886 con lode. La sua tesi, scritta sotto la diretta supervisione di Carducci, si intitolava: Saggio critico sulla poesia maccheronica. Fu la prima e unica opera di Panzini di carattere strettamente erudito. In campo erudito, così come in molti altri aspetti, Panzini non era in sintonia con il suo tempo. Il metodo storico era allora prevalente e Panzini non si sentiva a suo agio in esso. Per lui non era che un'altra manifestazione di quello stesso positivismo che tanto gli dispiaceva, perché cercava di fare della letteratura una disciplina precisa e scientifica, un'idea che egli ha sempre ridicolizzato e che a volte attaccava con sarcasmo al vetriolo.

Pochi mesi dopo la laurea, nell'autunno del 1886, Panzini iniziò la sua carriera di insegnante. Aveva ormai 23 anni, era un po' indurito dalle avversità, incline al pessimismo, ma conservava ancora abbastanza entusiasmo giovanile da fargli sperare nella realizzazione dei suoi ideali nell'insegnamento. Quali fossero questi ideali, come andassero in questo primo anno, ce lo racconta lui stesso qualche anno dopo ne La cagna nera. Nessun altro libro di Panzini, forse, possiede l'intensità di sentimento di questo, e anche se macchinoso nello stile e nella struttura colpisce il lettore per la sua sincerità. L'esperienza dell'autore durante questo anno è riassunta in queste parole:

''Egli si è voluto attentare inerme e nudo contro l'immane battaglia della vita, ed è montato in buona fede su la nave della virtù. Ora è in mezzo al mare, ed il vascello dei fantasmi veleggia, ed egli ha paura perché si è trovato solo. Credevate forse di trovare degli uomini veri per compagni? Erano fantasmi quelli che apparivano. La nave della virtù non ha viandanti, non ha porto che la ricetti. Solo l'isola della Utopia la raccoglie qualche volta nel suo eterno errore."

Queste parole sono pronunciate in una conversazione immaginaria tra le onde del mare e il protagonista di Cagna nera. Le prime lo deridono per aver riposto tanta fiducia nella virtù e nella bontà. Il protagonista è un giovane insegnante animato da grande zelo e fede nella sua missione, che ha appena iniziato la sua carriera in un piccolo paese del golfo di Sorrento. Il sottile velo della finzione nasconde a malapena le esperienze vissute da Panzini come vero sfondo del libro. Il suo primo incarico fu quello di insegnante nel Ginnasio Governativo di Castellamare di Stabia, una cittadina sul Golfo di Sorrento, e fu qui che Panzini imparò per la prima volta quanto sia difficile trasformare le visioni in realtà. Quella che aveva sognato come una vita dedicata agli ideali di virtù e bontà realizzati attraverso il suo insegnamento, si rivelò una sordida esperienza in un'atmosfera di sentimenti meschini ed espedienti egoistici:

''Duro tirocinio quel suo primo anno di insegnamento, pieno di delusioni, di attriti, di sacrificate aspirazioni e ideali che avevano origine dal suo indomito temperamento a anche, per contrasto, dall'arida mentalità e pedanteria di parecchi professori d'allora".

Alla fine dell'anno scolastico chiese e ottenne il trasferimento e fu nominato al Ginnasio Governativo di Imola, anch'essa una piccola città, ma in Romagna. Nonostante il fatto che si trovasse nella sua regione natale e molto più vicino alla madre che risiedeva a Rimini, Panzini non era ancora contento. Il cambiamento da Castellamare di Stabia era stato solo paesaggistico, le condizioni erano più o meno le stesse e l'atmosfera di questi piccoli centri di provincia era per lui soffocante. Poco sappiamo dei suoi trascorsi a Castellamare e ad Imola, l’anno successivo, se non che in questi luoghi nacque il progetto della Cagna nera. Alla fine di questo secondo anno Panzini era deciso ad abbandonare l'insegnamento se non fosse stato trasferito in una grande città e fu allora che, secondo Mormino, si rivolse a Carducci, suo ex insegnante e persona molto influente negli ambienti educativi, con il seguente ultimatum: "O mi fa insegnare in una grande città o cambio mestiere". La sua minaccia fu apparentemente efficace, dato che l'anno successivo, il 1888, lo troviamo al Ginnasio Giuseppe Parini di Milano.

Il Ginnasio Giuseppe Parini, all'epoca, era annesso all'Istituto Militare Longone e fu qui che Panzini incontrò Costantino Brighenti, che sarebbe stato il suo unico vero amico. Brighenti era un tenente dell'esercito ed era istruttore presso l'Istituto Longone. La conoscenza tra i due giovani si trasformò rapidamente in un'amicizia profonda e devota che il tempo rese sempre più intima. Solo la morte prematura di Brighenti, nel 1915, vi pose fine, ma Panzini ne conservò il ricordo con grande attaccamento per tutta la vita. Secondo la signora Panzini questa fu infatti l'unica vera amicizia che Panzini abbia mai stretto:

''Il Brighenti fu l'amico intimo di Alfredo e mantenne con lui per anni affettuosa corrispondenza improntata ad alte e nobili idealità e a grande amor di patria. Panzini non aveva altri amici intimi. Brighenti fu il solo che conquistò il suo animo e si amarono con stima e ammirazione reciproca".

Il punto d'incontro tra i due giovani era innanzitutto l'amore per l'Italia. L'intenso patriottismo di Panzini trovò un sentimento corrispondente nell'amico; entrambi erano insoddisfatti del corso politico che gli eventi avevano preso dopo l'unificazione del Paese, ed entrambi sentivano che i sogni dei loro antenati di un'Italia più grande e più gloriosa erano stati abbandonati dalla loro generazione. Questa insofferenza del giovane Panzini nei confronti dei leader politici italiani derivava in parte da un atteggiamento simile a quello del suo maestro Carducci, che per molti anni aveva tuonato contro l'apparente incapacità dell'Italia di elevarsi immediatamente agli alti ideali formulati durante il Risorgimento. Molti dei primi scritti di Panzini riflettono questo atteggiamento e la sua insoddisfazione è chiaramente illustrata dal seguente passaggio:

"Perdo un poco di dignità, un poco di memoria, almeno! Sono trent'anni che vi accapigliate sull'esercito o non esercito; sulla flotta o non flotta; sulla repubblica o sulla monarchia; sull'unità o sulla federazione. Ma decidetevi una buona volta! Mettetevi d'accordo se è possibile! Che cosa curiosa, mentre tutto è un disputare di metafisica sociale e politica, mentre fate alta accademia sulle più gravi questioni, nessuno ha il coraggio di prendere un caso pratico e di dire; Qui v'è del guasto! Affidiamo il coltello anatomico e curiamo il maschio visibile! No! Nessuno...".

Nel racconto queste parole di amara delusione sono pronunciate da un giovane di origine italiana, giunto dall'Egitto traboccante di amore e riverenza per la terra dei suoi antenati e intenzionato a stabilirvisi. Quando si rende conto della situazione, cambia subito idea e Panzini non può far altro che dargli ragione.

Per due anni Panzini vive a Milano da scapolo, tornando a Rimini per visitare la madre ogni volta che può. Nonostante il fatto che ora vivesse in una grande città, in un ambiente notevolmente migliorato, e nonostante la stretta amicizia con Brighenti, persisteva in lui quel vecchio sentimento di insoddisfazione per la vita. Si tenne occupato nell'insegnamento e nella preparazione di vari libri di testo, ma era un uomo molto solo e disilluso. Il suo stato d'animo di questo periodo emerge chiaramente nel racconto Il cuore del passero, in cui descrive una visita alla madre a Rimini. Un pessimismo totale e a volte senza speranza sembra essere diventato normale per il giovane. Il suo mondo ideale è caduto e giace in mille frammenti ai suoi piedi e non ha trovato alcun sostituto. Questo è in realtà il dramma di tutta la vita di Panzini: il contrasto tra un mondo ideale irrimediabilmente perduto a contatto con la realtà e l'incapacità di trovare in questa realtà le basi per un nuovo inizio. Questo è il suo tema continuo, che riesce a presentare in tante forme e modalità vagliate dalla sua personalità ricca di umanità. All'epoca dei primi anni milanesi, egli si trovava nella prima fase di questa evoluzione spirituale, quella di maggiore disillusione dovuta all'impatto iniziale e caratterizzata dal fatto che questo scrittore, che in seguito diventerà famoso soprattutto come umorista, non è in grado a questo punto di regalarci nemmeno il più tenue sorriso.

I suoi primi libri, artisticamente molto mediocri, colpiscono per la loro sostenuta e ininterrotta cupezza e per la serietà dell'autore. Le successive esperienze di vita avrebbero addolcito e ammorbidito questo atteggiamento, risolvendolo infine in quella vena di umorismo personale che diventa il suo normale modo di esprimersi. Non ultimo tra questi influssi mitigatori fu il matrimonio di Panzini con Clelia Gabrielli nel 1890, con cui rimarrà per tutto il resto della vita. La moglie era una collega che insegnava disegno. La coppia avrà quattro figli, Umberto (che purtroppo morirà nel 1910 a soli 10 anni, di difterite e a lui Panzini dedicherà la raccolta di Fiabe della virtù), Emilio, come il nonno, Pietro (anche se veniva chiamato Piero da tutti) e Matilde. Nel 1890 pubblicherà degli Agnolo Fiorenzuola. Scritti scelti e annotati, seguiti da alcune traduzioni dal latino, prima Tibullo, poi Orazio ed infine un’edizione delle Bucoliche di Virgilio.

Il suo matrimonio fu lungo una vita, ma fu affatto un matrimonio perfetto o molto felice e la stessa signora Panzini lo descrisse così: ''Fu vita coniugale felice? Vita tormentosa e poco serena si, molti sprazzi di luce e di amore; ma felice no", ma fu sufficiente a portare nella sua vita una nuova prospettiva, un rinnovato senso di energia e ambizione. Infatti, con il momento del matrimonio coincide con l'inizio di un periodo di estrema attività, sia per quanto riguarda l'insegnamento sia per quanto riguarda la scrittura, che durò fino all'inizio della prima guerra mondiale.

Da un lato, le nuove responsabilità familiari lo spronano a scoprire nuovi modi e mezzi per aumentare il suo magro stipendio. Lo fece soprattutto intensificando la preparazione dei testi scolastici e ricorrendo alla via crucis di tutti gli insegnanti italiani, ovvero le ripetizioni private. D'altra parte, le sue ambizioni e inclinazioni di scrittore creativo si fanno sempre più pressanti ed è infatti in questo periodo che cominciano a comparire i suoi libri. Furono anni molto impegnativi e forse i più stabili della sua vita, come lo stesso Panzini avrebbe poi osservato. Le molte ore di insegnamento, la scrittura e la famiglia non gli lasciavano quasi mai il tempo di dormire. Tuttavia, questa vita piena di impegni aveva un senso di appagamento che più che compensava le preoccupazioni e gli affanni quotidiani, in particolare quelli di natura finanziaria. La moglie parla così di questi primi anni di matrimonio: "Visse in quei primi tempi, oscuro e modesto fra i suoi studi, la scuola e la famiglia; né mai desiderò onorificenze, o posti elevati.''.

Nel 1897, mentre insegnava ancora al Ginnasio Parini e continuava a dare lezioni private, ebbe la fortuna di essere chiamato dal senatore Francesco Brioschi a insegnare letteratura italiana nella scuola preparatoria annessa al Politecnico di Milano. Si trattava, per così dire, di una spinta in territorio nemico. Il Politecnico era allora, ed è rimasto fino ad oggi, la roccaforte del sapere tecnico italiano. Gli studi umanistici non erano tenuti in grande considerazione e la letteratura era tollerata nella scuola preparatoria dell'Istituto solo grazie alle insistenze di Brioschi. Il corpo studentesco, ovviamente, condivideva questo punto di vista e Panzini dovette esercitare ogni risorsa a sua disposizione per conquistarlo. Ma ci riuscì; infatti, in breve tempo divenne l'insegnante preferito e il suo corso molto popolare. Il suo segreto era ovvio: faceva della letteratura qualcosa di vivo e reale piuttosto che piuttosto che un affare pedante e soffocantemente erudito. Le letture in classe di Panzini dei classici italiani, divennero presto parte della tradizione della scuola.

Nel 1907 aggiunse un ulteriore obbligo formale di insegnamento a quelli già svolti al Parini e al Politecnico. Questa volta si trattava di un corso serale presso il Circolo Filologico. Insegnava l'italiano a stranieri, in genere uomini d'affari e soprattutto tedeschi. Doveva essere un corso molto pratico e Panzini aveva un metodo molto pratico. Si presentava in classe con le tasche piene di una grande varietà di oggetti. Depositava la merce sulla scrivania e poi, tenendo in mano un oggetto alla volta, procedeva con la lezione in modo diretto. Dopo la lezione, che terminava alle nove, Panzini andava subito a casa e a letto. Si alzava poi verso le cinque del mattino e dedicava due o tre ore alla scrittura creativa prima di ricominciare il suo intenso lavoro di insegnante. La maggior parte delle opere di Panzini furono scritte nelle prime ore del mattino e questa abitudine divenne così radicata nella routine quotidiana dell'autore che la mantenne per tutta la vita.

Abbiamo visto che la carriera vera e propria di scrittore di Panzini iniziò poco dopo il suo matrimonio e possiamo aggiungere che continuò senza grandi interruzioni fino alla prima guerra mondiale. Il suo primo libro, scritto durante il primo anno di matrimonio, era apparso nel 1893 e rifletteva quello spirito di ininterrotta cupezza a cui si è accennato prima. A questo libro ne seguirono rapidamente altri dello stesso tenore. È solo con l'apparizione di Lepida et tristia, un volume di racconti, nel 1901, che notiamo un cambiamento. Panzini sembra aver accettato la realtà o almeno sembra essersi riconciliato con essa in una certa misura. La novità è che in questa accettazione della vita, così lontana dal suo mondo ideale, sembra aver trovato una soluzione all'inevitabile contrasto in una sottile e a volte impercettibile vena di umorismo ben nascosta sotto una finta ingenuità. Questa tendenza diventa sempre più forte e culmina nella sua espressione più perfetta: La Lanterna di Diogene. Si tratta di un diario autobiografico che narra del viaggio compiuto a luglio che l’autore compie in bicicletta da Milano, fino a Bellaria, la città dove passa gran parte dell’estate e da dove la narrazione proseguirà. Da questo volume fuoriescono molti dei tratti caratteristici dello scrittore. Dal suo pessimismo, che coltiva fin dall’adolescenza e per il quale si sente già vecchio, passato, nonostante abbia solo 40 anni, alla fede in Dio o al patriottismo.

Molti di questi primi libri di Panzini furono pubblicati a sue spese. Solo nel 1901 trovò un editore nella persona di Emilio Treves, allora decano degli editori italiani. Ma anche con un editore rimase senza lettori. Si racconta infatti che Treves accettò di pubblicare i suoi libri perché gli piacevano personalmente e perché sosteneva che con essi stava imparando la lingua italiana, e non perché qualcuno li comprasse. Treves, dirigeva la rivista L’illustrazione Italiana, per la quale Panzini inizierà a lavorare per più di venti anni. Oltre alla suddetta rivista collaborerà anche con La Nuova Antologia, che pubblicherà i suoi lavori a puntate.

Ci fu poi però un'opera di Panzini, sempre di questi primi anni milanesi, che riscosse un immediato successo e per il quale ancora oggi è forse ancora ricordato: il suo Dizionario moderno. Concepito originariamente come una raccolta di mostri e mostricini, cioè di parole e frasi nuove e inaccettabili che dovevano essere evitate da chi desiderava scrivere in italiano puro, divenne ben presto un dizionario di neologismi o di parole che non si trovavano in nessun dizionario rispettabile. Fin dall'inizio fu un lavoro ponderoso e dispendioso in termini di tempo, e con il passare degli anni lo divenne sempre di più. Ma oltre alla sua utilità, essendo l'unica opera del genere esistente, traeva un fascino particolare dalle riflessioni personali di Panzini che quasi sempre accompagnavano la spiegazione di ogni voce. Il Dizionario moderno, era una ventata d’aria fresca di un antimodernista; infatti Panzini rende il dizionario interessante arricchendo ogni parola con aneddoti, battute e modi di dire. La sua particolarità più grande riguarda il fatto che era stato ideato come una raccolta di neologismi e termini stranieri di cui l’Italia si era appropriata con il tempo, anche se finì per divenire una solida base dei nuovi dizionari Italiani. Il dizionario accompagnerà Panzini fino agli ultimi anni, con accorgimenti, rinnovamenti e nuove edizioni.

Panzini aveva la convinzione che la lingua italiana fosse entrata, ormai da vari decenni, in una fase di "rapidissima evoluzione", la quale rispecchiava il processo di modernizzazione a cui lo Stato e la società stavano andando incontro:

"Ma perché la parola segue la vita, come l‟ombra la materia, era naturale che in questo trapasso il popolo italiano dovesse rinnovare i suoi vocaboli; plasmarne di nuovi; adattarne di antichi; e come tolse molte forme della sua nuova vita dalle nazioni che in questo moto lo precedettero e con le quali venne in diretto contatto, così – vera legge del minimo sforzo – ne togliesse anche le parole [...]"

Il Dizionario moderno intrattiene, anticipandone alcune caratteristiche, una stretta relazione con le grammatiche di cui fu autore Panzini, a partire dalle Semplici nozioni di grammatica italiana pubblicate per l’editore Trevisini nel 1914 e poi per Bemporad nel 1929. Si tratta di un’opera rivolta a un pubblico scolastico, che abbina alla spiegazione una serie di esercizi. Dopo la Prefazione, in cui l’autore illustra le ragioni che lo hanno indotto a pubblicare una grammatica, che pubblicata negli anni ’80 del 900 da Sellerie riscosse un incredibile successo. Panzini riconosce che la vitalità della lingua, nella sua varietà e irregolarità, si sottrae a una descrizione troppo rigida: "Immaginate le lingue come un gran fiume e la Grammatica come la regolatrice di questo fiume. Il fiume è quello che è, quello che la natura fece. La Grammatica lo segue, cerca che non straripi, che non si impaludi, che non precipiti. La grammatica ci dà le ragioni di questo gran fiume vivo, e perciò è uno studio che, fatto bene, può essere anche dilettevole (Panzini, 1937)". E forse la ragione del successo, anche a distanza di decenni risiede in questo: "A differenza di molte grammatiche, credo bene (specialmente in questa parte) di attenermi alla più benevola semplicità. Si tratta, in fondo, di filosofia e di ragioni d'arte! Le strade maestre sono abbastanza visibili e facili anche per un giovinetto; ma se ci perdiamo pei viottoli, con definizioni un po’ troppo assolute e sottili, allora è un labirinto! (Panzini, 1937)".

Per dare un esempio del tono colloquiale del volume:

"…Quando si dà del tu, del voi, del lei?: Noi italiani difficilmente sbagliamo in questo uso dei pronomi, però sarà bene qualche riflessione. Il vero pronome di seconda persona è tu al singolare, e, naturalmente, voi al plurale. I Greci ed i Romani davano del tu a tutti, anche ai loro re; i bambini danno del tu a tutti; in molti dialetti dell’Italia meridionale non si conosce che il tu. Quando rivolgiamo il pensiero a Dio, diciamo, tu e non lei, Signore. E allora perché si dà del voi parlando ad una persona sola, e del lei, che è terza persona e femminile, parlando anche ad un uomo? (Panzini, 1937)."

Un piccolo aneddoto a proposito di Antonio Gramsci, non certo molto indulgente nei confronti di Panzini. Nel luogo dove era detenuto dal regime, aveva messo insieme una piccola biblioteca di 700 libri e 400 riviste. Fra i titoli che il leader comunista consultava, e di cui ha lasciato cospicua traccia dialettica nei Quaderni, c'era la Guida alla grammatica italiana di Alfredo Panzini. Non fu indulgente nemmeno stavolta, non risparmiando feroci critiche e tacciandolo, tra le altre cose, di imbecillità e inettitudine. Forse il suo giudizio andava oltre al grammatico e finiva nel giudizio stesso di un uomo risorgimentale, finito per sfinimento nelle grinfie dell’ideologia fascista.

Tutta questa intensa attività non rimase del tutto priva di frutti e Panzini riuscì, con qualche sacrificio in più, a realizzare un sogno che coltivava da anni. Dal 1900 trascorreva le estati a Bellaria, un'incantevole e, all'epoca, quasi sconosciuta località dell'Adriatico, vicino a Rimini. La famiglia affittava una casetta di pescatori e vi rimaneva il più possibile durante l'estate. Nel 1906 i Panzini furono in grado finalmente di costruire una casetta tutta per loro, la prova tangibile delle tante ore di insegnamento extra, di ripetizioni extra, di lavoro extra sui testi scolastici e dei primi magri frutti della sua scrittura. Bellaria divenne la residenza preferita di Panzini, dove da allora in poi trascorse tutte le vacanze e il tempo libero e dove scrisse la maggior parte delle sue opere successive.

Il miglioramento delle condizioni economiche permise a Panzini di rinunciare ad alcuni dei suoi numerosi obblighi di insegnamento e nel 1907, dopo 19 anni, lasciò il Parini. La ragione più importante che lo spinse a questo trasferimento fu il desiderio di dedicare più tempo alla scrittura, che stava lentamente ma inesorabilmente emergendo come sua attività principale. La vita, nel frattempo, si era stabilizzata in una routine: le estati a Bellaria dedicate quasi interamente alla scrittura e al riposo; il resto dell'anno a Milano dove si divideva tra insegnamento e scrittura. Gli amici erano pochi e Panzini si manteneva ben saldo nell'orbita della scuola e della famiglia, rimanendo sulla soglia di quella società che considerava con fastidio e talvolta con antipatia, ma che tuttavia lo attraeva con uno strano fascino. Panzini si risentiva profondamente di alcune azioni e delle idee dei suoi compagni, ma non perse mai l'interesse per questi ultimi.

D'altra parte, i suoi concittadini cominciavano a sentire parlare di Panzini. È vero che a questo punto la loro conoscenza di lui era limitata a una ristretta cerchia di letterati, ma in questo ristretto ambito il suo nome continuava a comparire sempre più spesso. Gaetano Negri, allora critico di spicco, aveva scritto una recensione molto favorevole del primo libro di Panzini: Il libro dei morti, già nel 1893. Un’opera di carattere anti progressista e che non ottenne il successo sperato, uscendo probabilmente in uno fra i momenti di maggiori vedute progressiste di tutto il secolo e con i libri positivisti che andavano per la maggiore.

In seguito scrisse una prefazione altrettanto favorevole a Lepida et tristia. Come lo stesso Panzini ebbe a sottolineare in seguito, questi commenti, anche se non gli aprirono effettivamente le porte del paradiso, fecero sì che San Pietro lo guardasse a lungo. Ma solo nel 1910 Panzini tornò alla ribalta grazie a un articolo di Renato Serra. Quest’ultimo nel 1900 si era iscritto all'Università di Bologna presso la Facoltà di Lettere e Filosofia, ed ebbe tra i suoi insegnanti gli stessi Giosuè Carducci (con il quale discusse anche la sua tesi sullo "Stile dei Trionfi del Petrarca") e Francesco Acri.

Il giudizio di Serra, che definirà Panzini "della famiglia dei grandi" fu poi confermato da recensioni altrettanto favorevoli di Emilio Cecchi e Giuseppe Antonio Borgese, tanto che all'inizio della prima guerra mondiale Panzini era diventato uno dei più noti nuovi arrivati nel mondo delle lettere italiane. Lo scrittore nato a Senigallia aveva già cinquant'anni e aveva aspettato a lungo e pazientemente atteso il meritato riconoscimento.

Lo stesso 1910 che, come abbiamo visto, segnò l'inizio dell'ascesa delle sue fortune letterarie, fu un anno ricco di avvenimenti sotto altri aspetti. Per cominciare, fu in questo stesso anno che Panzini ottenne la libera docenza dall'Università di Bologna. Considerata la sua età, si trattava più di una questione di soddisfazione personale e di prestigio che di un passo dettato da finalità pratiche. Nello stesso anno il terzo figlio di Panzini, Umbertino, di dieci anni, morì di difterite. Quanto profondo fosse il dolore del padre è espresso con toccante semplicità nella dedica di una delle sue opere successive alla memoria del ragazzo: "Sum, es, est, dicevi ridendo; adesso più nulla dici.". Pochi mesi dopo Panzini conobbe personalmente Renato Serra, con il quale era in contatto epistolare dall'anno precedente. Nessun'altra amicizia, fatta eccezione per quella precedente con Brighenti, fu così radicata come quella che strinse con Serra. Quest'ultimo era più giovane di Panzini di 19 anni, ma nonostante la disparità di età tra i due uomini c'erano certe affinità spirituali che rendevano possibile un'amicizia duratura. Non si trattava, come nel caso di Costantino Brighenti, di un'amicizia intima e quasi fraterna. Con Serra era soprattutto un legame intellettuale a tenere uniti i due uomini. Non è quindi un caso che Serra sia stato uno dei migliori critici di Panzini e certamente quello che lo ha capito meglio. La loro amicizia durò fino alla morte di Serra in guerra, nel 1915.

L’inizio del secondo decennio del novecento è molto impegnato per Panzini. Vengono pubblicate nel 1911 il già citato Fiabe della virtù, dedicato al piccolo scomparso prematuramente, e nel 1914 Santippe, una pubblicazione meno personale e più commerciale. Entrambe ottengono un notevole successo.

Nel 1912 morì la madre di Panzini, Filomena, e questo fu forse un colpo ancora più pesante della morte del figlio avvenuta due anni prima. In una lettera a Serra scritta pochi mesi dopo il lutto, Panzini descrive l'anno 1912 come il peggiore della sua vita, adducendo come motivo la perdita della madre. In effetti, l’attaccamento alla figura materna per tutta la vita dello scrittore era stato estremamente intenso, a volte quasi al limite del morboso. Questo attaccamento era reso ancora più forte dal fatto che la madre rappresentava per Panzini l'ultima testimonianza tangibile di quel passato amato, di quella concezione della vita che l'autore è sembrato sempre cercare e rincorrere, ma mai trovare. Il risultato fu che Panzini si seppellì ancora di più nella scrittura e continuò a farlo con zelo ininterrotto fino all'inizio della prima guerra mondiale.

Questo evento, la guerra, segna un cambiamento definitivo nella vita e di conseguenza nella scrittura di Panzini. Per un uomo del suo temperamento, dotato di una tale profondità di simpatia umana, la guerra rappresentò una catastrofe totale, l'ultima assurdità di una lunga serie di follie, di azioni folli da parte di un'umanità apparentemente decisa all'autoaffrancamento. Il conflitto divenne il punto focale della sua vita e i suoi scritti vi furono completamente dedicati. Che cosa rappresentino questi anni di tribolazioni morali nella vita dell'autore è facilmente intuibile leggendo il suo Diario sentimentale della guerra, il libro più personale che abbia mai scritto. Egli stesso spiega così il titolo: ''È detto diario, perché le cose sono quivi scritte quasi giorno per giorno; è detto sentimentale perché, a differenza di quelli che scrivono con metodo e con una guida filosofica, qui non c’è nulla di queste rispettabili cose. Anzi c’è una grande confusione". Il libro è infatti un resoconto molto soggettivo degli eventi immediatamente precedenti la guerra e della guerra stessa. Inizia con una nota di incredulità. La concezione della vita di Panzini, abbiamo visto, non era esattamente allegra e la sua stima dei suoi simili e della società moderna non era molto alta. Tuttavia, si sentiva fiducioso che non avrebbero più fatto ricorso alla guerra per risolvere le loro differenze e divergenze. Quando gli eventi gli diedero torto, la sua reazione fu violenta contro i governanti e i leader delle varie nazioni, perché riteneva che avrebbero potuto evitare il conflitto. Quando quest'ultimo diventa realtà, non esita a schierarsi. Nel periodo precedente all'entrata in guerra dell'Italia, Panzini è decisamente favorevole agli Alleati e non nasconde che vorrebbe che l'Italia entrasse con loro. In effetti, un sospiro di sollievo sembra percorrere il Diario quando questo diventa un fatto compiuto. Una volta che il suo Paese è stato coinvolto, il profondo patriottismo di Panzini viene a galla e il destino dell'Italia diventa la sua principale preoccupazione.

La guerra lo colpì personalmente in molti modi. I suoi due figli furono chiamati alle armi e uno di loro fu ferito. La sua casa di Bellaria fu requisita per ospitare i profughi del Nord. Ma Panzini accettò tutto questo con la calma e la serenità di un uomo sicuro della rettitudine delle proprie convinzioni. 

Nel 1915 il Circolo Filologico fu chiuso a causa della guerra e il corso di Panzini fu interrotto. Egli continuò a scrivere, ma ormai viveva da un bollettino di guerra all'altro, da una voce all'altra. Leggendo il Diario cominciamo a percepire, con il passare del tempo, che lo scrittore sta diventando dubbioso sull'esito della guerra. Verso la fine dell'anno 1916 gli eventi giustificano i timori di Panzini. La rivoluzione russa è l'ultimo colpo e il diario si interrompe. Lo riprende nel 1918, quando la guerra è quasi finita e la vittoria degli Alleati è quasi assicurata. Lo stesso Panzini fornisce una spiegazione almeno parziale con le sue parole di riapertura:

"L'ultima nota di questo Diario è del 28 settembre 1916, cioè v'è un'interruzione di un anno e mezzo. La rivoluzione russa ha esercitato una specie di paralisi in me. I molteplici aspetti assunti da questa rivoluzione e le sue ripercussioni in Italia mi fanno intravedere troppo paurosi fantasmi che giustamente sono stati derisi; e i miei amici avevano ragione dicendo: ‘Sopratutto non occupatevi di politica’. Ma comunque la civiltà europea rimargina le sue ferite, la rivoluzione russa mi persiste nella mente come il fatto più saliente nato dalla guerra."

Altri fattori entrano in quella che sembra essere una grande crisi nella vita di Panzini. Quando riprende il suo diario, si trova a Roma per insegnare all'Istituto Leonardo da Vinci, di sua volontà, poiché l'anno precedente aveva chiesto e ottenuto il trasferimento. Non fu facile né conveniente per Panzini lasciare Milano, dove si era ormai stabilito da più di 29 anni. Aveva 54 anni quando decise di cambiare e non fu certo spinto da ambizioni, visto che il cambiamento non favorì in alcun modo la sua carriera. Giuseppe Mormino sostiene nel suo Alfredo Panzini nelle opere e nella vita, uscito nel 1939 che Panzini fu indotto a compiere questo passo dal fatto che non riusciva più a conciliare gli eventi della guerra con la sua missione di insegnante. Se così fosse, però, sembrerebbe logico che Panzini abbandonasse completamente l'insegnamento e non chiedesse semplicemente un trasferimento. La sua posizione a Roma sarebbe stata esattamente la stessa, sotto questo aspetto, di quella di Milano. Un'attenta lettura delle ultime pagine del Diario, prima della sua interruzione nel 1916, dà una chiara indicazione di quello che potrebbe essere stato il vero motivo. Una lettura di questo tipo non lascia dubbi sullo stato di depressione mentale in cui si trovava Panzini. C'è anche, inespresso, il desiderio di staccarsi dalle circostanze, di trovare un nuovo inizio trasferendosi a Roma. Un completo cambiamento di ambiente avrebbe potuto, sperava, ripristinare almeno in parte la sua serenità.

La vittoria alleata, naturalmente, cambiò il suo stato d'animo da disperato a gioioso. Ma la sua gioia fu guastata dallo spettacolo delle caotiche condizioni politiche che si crearono in Italia dopo la fine della guerra. La cosiddetta "Vittoria mutilata" che secondo lo storico Gaetano Salvemini fu un autentico mito politico, capace di catalizzare l'immaginario di parte della società e soprattutto dei reduci della guerra, ponendo le basi culturali e ideologiche del fascismo. Nella battaglia politica che ne derivò, Panzini prese una posizione netta e vi gettò tutte le risorse della sua scrittura, l'unica arma a sua disposizione. Possiamo quindi considerare gli anni successivi come dedicati esclusivamente a questo scopo e i suoi scritti, con solo una o due eccezioni, riflettono chiaramente questa tendenza. La menzione di una sola opera di questo periodo, Il padrone sono io, è sufficiente a illustrare il punto. Conoscendo la formazione e le inclinazioni di Panzini, non è difficile immaginare la sua posizione politica. La sua preoccupazione per il destino dell'Italia, cioè il suo patriottismo, rimane in primo piano. Cercò quindi un partito politico che facesse del patriottismo, e persino del nazionalismo, il suo tema principale. Né il socialismo né il comunismo, i due partiti più forti dell'immediato dopoguerra, né la miriade di altri partiti allora esistenti sembravano soddisfare questa esigenza primaria. Panzini iniziò quindi con l'opposizione a tutti i partiti politici e solo con l'avvento del fascismo prese una posizione definitiva. Questa posizione si limitò a un sostegno, piuttosto che a una partecipazione attiva; infatti Panzini non divenne mai membro di questo o, comunque, di nessun altro partito politico.

Escono, in rapida successione, Il viaggio di un povero letterato (1919), Il diavolo nella mia libreria, Io cerco moglie (1920), Il mondo è rotondo, Signorine (1921) e, Il padrone sono me (1922) che è il suo romanzo più famoso di cui si già accennato.

Nel 1924 cambia ancora luogo di insegnamento, andando al liceo Mariani. Sempre nel 1924 tiene un discorso in onore della memoria di Giovanni Pascoli, e tra i presenti c’era anche il quarantenne Benito Mussolini.

Nel 1925 Alfredo Panzini è tra coloro che firmano il manifesto degli intellettuali fascisti che redatto da Giovanni Gentile,

Mussolini era stato ben visto da Panzini sin dai tempi del suo allontanamento dal partito socialista, e nel fascismo lo scrittore vedeva ciò di cui aveva bisogno l’Italia, un movimento giovane ed innovativo. Una speranza che non fece in tempo a vedere completamente infranta dagli accadimenti e le tragedie della guerra. Nel suo Dizionario scriverà alla voce fascismo "reazione prevalentemente giovanile contro la demagogia asservita al fanatismo bolscevico e tendente alla distruzione della patria". Mentre nel 1928 scriverà "Mussolini, l’uomo più moderno che abbiamo in Italia"

Nel 1928, dopo 42 anni di insegnamento, Panzini andò in pensione. Aveva ormai 65 anni, era una figura letteraria ben nota, in condizioni confortevoli e con un senso di realizzazione raggiunto. Ma la vena di Panzini era tutt'altro che esaurita. Gli ultimi anni della sua vita ricordano gli anni precedenti a Milano per l'intensa attività letteraria. Nella sua amata Bellaria, dove visse quasi esclusivamente, salvo qualche breve visita a Roma, Panzini sembrava aver ritrovato quella serenità spirituale che aveva ispirato i suoi primi e migliori libri, e almeno uno di questi ultimi, I giorni del sole e del grano, è forse una delle cose migliori che Panzini abbia mai scritto. Le sue visite a Roma, poco frequenti e non volute, erano dovute all'elezione di Panzini all'Accademia d'Italia nel 1929, un onore di cui era molto orgoglioso.

Scrive nel 1931 Il Conte di Cavour, primo libro di carattere storico. Le sue ultime opere sono la sventurata Irminda (1932), La bella storia d’Orlando innamorato e poi furioso (1933), Legione Decima, il libro che più s’avvicina alla propaganda fascista, Viaggio con la giovane ebrea (1934), Il ritorno di Bertoldo, e nel 1937 uscirà il suo ultimo scritto, dal poetico nome Il bacio di Lesbia.

Ma lasciò sempre con dolore Bellaria perché, oltre alla scrittura, qui poté realizzare uno dei desideri più cari della sua vita: la coltivazione di alcuni appezzamenti di terreno. Li aveva acquistati dopo la pensione, a Canonica e a Ceola Cornale, due piccoli centri vicino a Bellaria, e con la sua vecchia e fedele bicicletta andava dall'uno all'altro e ne seguiva personalmente la coltivazione nei minimi dettagli. I suoi ultimi libri riflettono l'immensa soddisfazione che questa attività gli procurava e lasciano presagire l'inevitabile fine che presto arriverà. Ma questa attesa è calma e serena, perché Panzini trova la forza di affrontare la morte in quella stessa qualità che lo ha sostenuto per tutta la vita, il suo mai venuto meno senso di "umanità".

Morì il 10 aprile del 1939, lunedì di Pasqua di quell’anno, Alfredo Panzini muore settantacinquenne a Bellaria e fu sepolto, per sua volontà, a Canonica.

È sconsolante l’oblio dove è finito Panzini dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale. Ancora di più per uno scrittore che fra le due guerre poté vantare una bibliografia critica più ricca di quella che possa vantare qualunque altro scrittore italiano e che annovera i nomi più noti della cultura del tempo: Sibilla Aleramo, Massimo Bontempelli, Federico Tozzi, Eugenio Montale, Curzio Malaparte, Luigi Russo, Ernesto Giacomo Parodi, Attilio Momigliano, Pietro Pancrazi, Adriano Tilgher, Giacomo Debenedetti, Goffredo Bellonci. Giudizi critici senza distinzioni di carattere estetico o ideologico. Un oblio ingiusto che ha poca ragione di essere.

 

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