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Alfredo
Panzini - Biografia e opere
Di Massimo
Serra
La vita e
l'opera di Alfredo Panzini si collocano a cavallo di
due secoli l’’800 e il ‘900; tuttavia, pur avendo raggiunto
la maturità nel XX secolo, egli rimane ideologicamente e
culturalmente legato alla "fin de siecle", la fine dell’800.
Borghese di nascita, lo fu anche suo lavoro; con rispetto
alla sua formazione e al suo contesto, nonché al suo
orientamento per la bella scrittura, fu un classicista.
Venerò i classici, si ispirò ad essi e cercò di mantenere (e
sporadicamente migliorare) la tradizione di cui era il
prodotto. Nacque a Senigallia, nelle Marche, nel 1863. Suo
padre era un medico e un moderato proprietario terriero che
perse il suo piccolo patrimonio al tavolo da gioco. Compiuti
gli studi secondari nella città natale, Alfredo ottenne una
borsa di studio presso il collegio veneziano Foscarini,
grazie all'intervento personale di un funzionario della
Prefettura di Senigallia. Dopo il diploma si iscrisse
all'Università di Bologna, dove studiò con uno dei più
prestigiosi poeti e letterati italiani, Giosuè Carducci. Nel
1886 Panzini si laureò con una tesi sulla poesia
maccheronica, un particolare tipo di poesia che si distingue
per il suo linguaggio umoristico, la cui struttura e
sintassi è latina ma le parole sono sia latine che italiane,
con terminazioni latine! Vinse poi un concorso nazionale per
l'insegnamento e fu assegnato prima a Castellamare di Stabia,
vicino a Napoli, e in seguito a Napoli, quindi a Imola e
poi, grazie all'interessamento del suo mentore Carducci, a
Milano, dove rimase fino al 1917. In quel periodo, incapace
di sopportare il dolore per la perdita dell'unico figlio
Umbertino, morto nel 1910, si trasferì a Roma. Nel 1928 si
ritirò; un anno dopo fu nominato membro dell'Accademia
d'Italia, appena riattivata da Mussolini. Scrisse
praticamente fino al giorno della sua morte avvenuto
nell’aprile 1939.
Lo schema
della traiettoria di Panzini è fin troppo familiare,
soprattutto per quanto riguarda la sua formazione. Ciò che è
insolito è il fatto che la sua attrazione per l'insegnamento
sembra essere dovuta non tanto a ragioni vocazionali quanto
a ragioni pratiche. Formato da un grande classicista, è
naturale che già durante gli studi universitari Panzini
abbia sviluppato una grande sensibilità per la letteratura
classica, latina e italiana: la sua venerazione per Omero,
Catullo, Esiodo, Virgilio, Boiardo e Ariosto (per citare
alcuni dei suoi autori preferiti) si riflette pagina dopo
pagina nei numerosi libri che scrisse durante una vita
intensa; libri pieni di descrizioni della natura e della
vita rurale. Il suo stile, spesso lavorato con la
proverbiale lima dell'artista, è stato accuratamente
cesellato per tradurre in letteratura il mondo idilliaco e
pastorale che desiderava. Le parole che usava, i temi che
ricorrono nella sua produzione letteraria, la scena e gli
stati d'animo che riusciva a creare sulla pagina stampata,
suggeriscono il sapore unico del paesaggio romagnolo che
amava profondamente. Certo, le sue fatiche non sono sempre
riuscite: a volte si avverte una sorta di tecnica pedante,
eccessivamente sforzata, che distrugge la sensazione di
spontaneità che egli cercava di trasmettere. Ma c'è di più:
i suoi libri mettono in luce una tendenza a fuggire dalle
"città invivibili", una marcata preferenza per la pace e la
calma della campagna. Panzini si identifica ovviamente con
un'epoca meno caotica e più saldamente strutturata. La sua
profonda preoccupazione per quella che doveva sembrare
un'erosione dei valori tradizionali si riflette più volte
nella sua concezione di una società strettamente organizzata
intorno alla famiglia. Allo stesso modo, il suo rispetto per
la nazione, il suo desiderio di vederla ristabilita in una
posizione di grandezza, indicano il carattere di un uomo i
cui valori erano quelli della classe media istruita,
purtroppo incapace di accettare le aspirazioni meno
egoistiche e più nobili dei gruppi liberali e di sinistra.
L'amore di Panzini per la famiglia, per Dio e per il paese
prova il suo senso di meraviglia verso la natura, il suo
solido rispetto per le funzioni vitali della donna sono
lodevoli e ammirevoli, se non fosse che, così come sono
presentati nella sua opera, glorificano la vita della
borghesia, impegnata nell'ordine e nella conservazione delle
istituzioni sociali e politiche, particolarmente gelosa del
proprio potere e delle proprie prerogative. Non c’era niente
di male in questo, ognuno puntava a segmenti di lettori ed
era giusto così. In più Panzini era, come vedremo, un figlio
del periodo risorgimentale italiano, di cui insieme ad altri
raccolse il testimone senza preoccuparsi molto delle spinte
ideologiche a cavallo di ‘800 e ‘900.
Dietro questa
facciata di rispettabilità, come spesso accade, c'era
un'altra vista meno attraente che la sensibilità di Panzini
riconosceva ma che non era in grado di affrontare: lo
sfruttamento della classe operaia, le politiche repressive
in patria e l'imperialismo in politica estera,
l'intellettualismo e la corruzione che avrebbero portato
alla nascita e alla vittoria del fascismo negli anni Venti.
Aveva tanti critici che elogiavano il suo operato, come
Sibilla Aleramo, Massimo Bontempelli, Federico Tozzi,
Eugenio Montale, Curzio Malaparte, Luigi Russo, Ernesto
Giacomo Parodi, Attilio Momigliano, Pietro Pancrazi, Adriano
Tilgher, Giacomo Debenedetti, Goffredo Bellonci. Ma tra
tutti prevalsero, soprattutto nel giudizio sull’autore dopo
il secondo conflitto mondiale, alcuni giudizi critici
negativi, di peso. Come quelli di Croce e Gramsci.
Egli "non
riesce a dare forma e a comunicare le sue emozioni e le sue
immagini poetiche", secondo le parole di Benedetto
Croce. "... se non attraverso una maschera. Ha messo sui
suoi volti la maschera di chi non capisce la frode che è la
vita, e la ragione per cui gli uomini e le donne sono quello
che sono, e, poiché dichiara di non capire, si sente
superiore a chi crede di capire".
L'immagine
che emerge dai libri che Panzini scrisse non è tanto quella
di un romanziere quanto di un perenne "turista" nel senso
migliore del termine, un commentatore appassionato della
vita: da qui i suoi numerosi viaggi in bicicletta sulla
costa orientale e adriatica dell'Italia, in città e borghi
che le sue letture classiche gli avevano insegnato ad amare.
Le sue escursioni gli fornirono ampi spunti per i suoi
racconti e saggi, mentre il suo amore per il passato diede
ulteriore impulso alla sua propensione a scrivere favole, la
più evasiva delle attività letterarie. I personaggi che creò
per i suoi libri sono tutti, in larga misura, proiezioni di
se stesso: razionali, premurosi, dignitosi, inclini allo
scetticismo, persone né eccessivamente inventive né
profonde, che si ritrovarono di fronte all'alba di una nuova
era, incapaci di reagire ad essa, impreparati ad affrontare
le sfide dei nuovi tempi e i cambiamenti di costumi e valori
che inevitabilmente accompagnano tali tempi. "Se
scrutiamo le opinioni del Panzini", osservava acutamente
Benedetto Croce, "i suoi giudizi contraddittori, i suoi
sentimenti contrastanti, temo che non si possa trovare altro
che una grande paura di un mondo in movimento, e
un'inquietudine che può derivare da questo movimento alla
propria tranquillità e al proprio benessere".
Panzini
sceglie l'unica via d'uscita possibile dalla sua situazione
filtrando la sua esperienza attraverso lenti
autobiografiche, dando così consistenza e credibilità alle
sue idee sul mondo. "L'interesse dell'autore",
osservava uno dei suoi primi e più perspicaci, anche se
troppo generosi critici, Renato Serra, "non è nei
[suoi] personaggi, di cui gli capita di raccontare la
storia; è nella storia del suo stesso cuore; la sua
narrazione è soprattutto un lungo e meditato soliloquio, di
tanto in tanto variato da personaggi leggeri".
Panzini
scrisse un numero straordinario di libri e la versatilità fu
il suo marchio di fabbrica: saggi, racconti, opere
pseudostoriche, romanzi e un avvincente Dizionario
moderno attraverso il quale cercò di arricchire il suo
linguaggio, raccogliendo e spiegando le molte parole che,
attinte da altre lingue e dialetti, erano entrate a far
parte dell'italiano colloquiale. Solo verso gli ultimi anni
della sua vita alcune delle opere di Panzini ottennero un
grande successo presso il grande pubblico, anche se i suoi
scritti erano apparsi regolarmente su riviste borghesi come
L'Illustrazione italiana e La Nuova Antologia.
Per quanto riguarda la critica, la storia è un'altra. Dai
critici ricevette un'attenzione costante, anche se alcuni,
come Luigi Russo e Benedetto Croce, non potevano essere
sempre annoverati tra i suoi ammiratori. Negli anni Venti un
critico come Luigi Tonelli, nel suo Alla ricerca della
personalità, nominava Panzini insieme a Grazia Deledda e
Luigi Pirandello come "scrittore più degnamente celebrato".
Croce, d'altra parte, lamentava in un saggio pungente che
per circa vent'anni Panzini aveva cercato di allargare il
suo pubblico sacrificando la qualità, e lo accusava di
lavorare "meccanicamente" e di "crescente frivolezza e
vacuità". L'autore stesso non ignorava i pericoli di
un'eccessiva dispersione e di un'eccessiva attività: tra il
suo regolare incarico di insegnante, il corso extra tenuto
al Politecnico di Milano e le lezioni private per aumentare
il suo magro stipendio, si lamentava, in una lettera al suo
buon amico e collega scrittore Marino Moretti, nel 1919:
"Sono stanco di lavorare. Nessun lavoratore ha lavorato più
di me. Lavoro inutile, forse; ma pur sempre lavoro".
Come altri scrittori prima e dopo di lui (Balzac e
Dostoevskij, per citarne solo due), Panzini scoprì il
terrore di trasformarsi in una specie di automa che scriveva
continuamente per stare al passo con i suoi impegni
editoriali.
Ma che dire
dei critici che lo ammiravano: cosa vedevano nei suoi
scritti che suscitava il loro rispetto e la loro stima? La
domanda può trovare una risposta se si tiene presente che,
in un'epoca che cominciava a reagire sia alla scrittura
"essenziale" dei post-veristi sia alla prosa dorata di
d'Annunzio, i lettori dovevano trovare un certo conforto in
un letterato che affondava le sue radici nella tradizione
classica, che aveva un senso dello stile e che teneva al suo
mestiere. In un'epoca di retorica dannunziana, che aveva
seguito un tipo di romanzo che non molti avrebbero trovato
gradevole per la sua frequente crudezza e il suo brutale
candore, deve essere sembrato confortante leggere uno
scrittore che sapesse essere spiritoso e affascinante senza
essere roboante o offensivo.
Che tipo di
scrittore era Panzini? A giudicare dai suoi racconti, si può
dire che fosse, per dirla in parole povere, un favolista
senza complicazioni, un narratore malinconico che sapeva
rappresentare il pathos della vita, ma non la sua tragedia,
che sapeva presentare in modo drammatico la sua infelicità
nei confronti del presente, ma che non riusciva ad
appassionarsi alle indignazioni che producevano miseria; che
sapeva rivolgersi in modo delicato e convincente alla
meravigliosa qualità della vita di un tempo, senza capire
che il passato ci appare bello solo perché la nostra
prospettiva storica ci fa dimenticare i suoi giorni bui e
piovosi. Nel racconto Le Ostriche di San Damiano, ad
esempio, racconta di un insegnante che si reca in un
ristorante di lusso, di quelli che non può davvero
permettersi, e viene più o meno costretto dal cameriere a
ordinare un pasto al di sopra delle sue possibilità, anche
se il piatto è di qualità. Le ostriche che gli vengono
servite sono "offerte dalla casa" per celebrare il santo
patrono. Il proprietario, scopriamo presto, era uno degli ex
studenti del professore, da lui bocciato in latino e
italiano. Il professore è comprensibilmente imbarazzato: il
ristoratore, invece, è molto grato al suo ex insegnante. Il
voto negativo ricevuto a scuola è stato l'evento che ha
finalmente convinto il padre della mancanza di interesse del
figlio per gli studi accademici. Di conseguenza, è stato
mandato in una nota scuola di formazione in Svizzera, dove
ha acquisito le competenze che hanno reso possibile il suo
successo imprenditoriale.
La storia,
narrata in modo leggero e senza pretese, è in un certo senso
tipica della spensieratezza, dell'umorismo e della
semplicità di Panzini. Un altro racconto Padre e figlio,
pubblicato nel volume Fiabe della Virtù, narra della
profonda discordia tra due generazioni, un tema i cui
risvolti sono quanto di più contemporaneo si possa trovare.
Domenico è un agricoltore di grande successo, rinomato in
tutta la regione per l'abilità e gli ottimi risultati
ottenuti con il suo metodo di allevamento delle mucche e di
lavorazione della terra. Il suo matrimonio è stato un
disastro e, poco dopo la nascita del figlio Marco, si separa
dalla moglie, che muore poco dopo. Marco viene iscritto in
un bel collegio dove diventa uno studente eccezionale, la
cui mente incredibile gli permette di memorizzare interi
passaggi dei libri che legge.
Tutti
prevedono per il giovane un futuro brillante, opinione
confermata dalla sua eccellenza nella facoltà di legge a cui
è stato ammesso e in cui si è laureato. Con grande
disappunto del padre, però, Marco sceglie di non aprire uno
studio legale, ma di diventare scrittore. La gente del paese
ammira la sua dedizione alla vocazione scelta; il padre,
invece, si risente del fatto che l'impegno del figlio nella
scrittura gli impedisca di prendere in mano l'attività di
successo della famiglia. Col passare del tempo, Marco va a
trovare il padre sempre meno regolarmente, tranne quando è
pronto (come si lamenta il padre) "a dare alla luce il suo
libro". Un giorno Marco, ormai quarantenne, torna a casa, si
ammala e muore. La sua morte si trasforma in una esperienza
traumatica per Domenico, che inizia a disfarsi della sua
proprietà, donandola a organizzazioni benefiche e
progettando di trasformare la sua casa, e in particolare lo
studio del figlio scomparso, in una sorta di mausoleo.
"Poi", conclude Panzini, "il tempo passò e la gente non
parlò più di Marco, l'eroe, del monumento e del cipresso".
Padre e figlio è una storia commovente, pervasa di
pathos, strettamente costruita intorno al conflitto tra
valori materiali e non materiali, all'incomprensione tra
vecchie e nuove generazioni, all'insensibilità di chi vede
solo nell'accumulo di ricchezze il fine ultimo dell'uomo, la
sua ragion d’essere.
La
consapevolezza di quello che oggi si suole chiamare "divario
generazionale" è un leitmotiv di gran parte della produzione
letteraria di Panzini. Già nel 1893, nel suo Il libro dei
Morti, uno dei personaggi, Giacomo, confessa il suo
senso di alienazione dicendo: "Sono fuori posto in questa
società. Sono perso in essa". Questo sentimento è
essenzialmente ciò che spinge Panzini a insistere nel
guardare al passato per trovare le proprie radici ma anche,
ahimè, come unico modo per evitare le sgradevolezze e le
difficoltà del presente. Lo ritroviamo nei suoi racconti e
lo ritroviamo nella maggior parte, se non in tutte, le opere
più lunghe (generalmente ibridi di narrativa, storia,
commenti di viaggio, reminiscenze personali, erudizione e
così via) come Lanterna di Diogene (1907) e
Viaggio di un povero letterato (1918).
Tra i molti
romanzi (il termine è qui usato in mancanza di uno migliore)
scritti da Panzini, La Madonna di Mamà sembra essere
il più vicino alla concezione tradizionale del genere (con
dedica al critico letterario Renato Serra). Del resto,
l'autore stesso aveva un occhio di riguardo per quest'opera,
come dimostrano le accurate revisioni a cui la sottopose
quando la preparò per le edizioni successive.
Tradizionale
in tutti i sensi, il libro ha un tema semplice, caro a
Panzini perché tratto dalla sua stessa esperienza: la lotta
e il dolore di un giovane che lascia il suo paese natale per
la città, dove si libererà dei suoi atteggiamenti e delle
sue idee provinciali e guadagnerà la sua virilità. Il
romanzo rappresenta uno degli sforzi di Panzini per
comprendere il presente, con tutte le sue complessità, senza
rifugiarsi nel passato. Alla fine Panzini affronta con
decisione lo smarrimento provocato dalla Prima guerra
mondiale (tipico di molti scrittori dell’epoca, come ad
esempio Matilde Serao in Mors Tua) e, per estensione,
da tutte le guerre, seguendo contemporaneamente il tentativo
del giovane protagonista di essere assorbito, accettato e
integrato nella società urbana.
Il
protagonista della storia è Aquilino che, dopo aver
conseguito il diploma, accetta un incarico presso una ricca
famiglia aristocratica come insegnante privato del loro
brillante, viziato, ma coinvolgente bambino Bobby. I primi
mesi nella nuova posizione sono particolarmente difficili
per Aquilino, che cerca di orientarsi in un ambiente
totalmente nuovo, misterioso e persino estraneo e di
stabilire un rapporto produttivo con il suo assistito.
Fortunatamente, Bobby non solo è estremamente intelligente,
ma anche astuto e abile nel polemizzare con il suo tutore,
di cui riesce a sfruttare a suo vantaggio le debolezze e le
contraddizioni, rendendo il loro rapporto vivace e pieno di
sorprese. Alla fine i due diventano buoni amici e imparano
ad andare molto d'accordo. Aquilino stesso si dimostra un
insegnante onesto e paziente, che riscuote la simpatia dei
suoi datori di lavoro, il marchese Ippolito e sua moglie
donna Barberina, che per un po' diventa la sua amante, fino
ai mesi inquieti che precedono lo scoppio della Prima guerra
mondiale e la crisi politica in Italia, che porta alla
spaccatura in due fazioni, una favorevole e l'altra
violentemente contraria alla guerra e alla partecipazione
dell'Italia al conflitto. La posizione di Aquilino non è
tanto legata alle sue convinzioni politiche quanto all'amore
per Edith, una governante inglese alle dipendenze della
stessa famiglia. Entrambi vengono infatti coinvolti nel
movimento pro-guerra. Un giorno si trovano in una
manifestazione contro la guerra; fortunatamente riescono a
sfuggire alla furia della folla e si rifugiano in un albergo
vicino. Lì la loro relazione, che era stata di tipo formale,
sboccia in una relazione carnale. Alla fine del libro,
Aquilino si congeda da Edith e parte per il servizio
militare.
La Madonna
di Mamà, come è
evidente anche dalla sinossi, non è un libro molto
emozionante. Eppure, è tipico della migliore arte di Panzini
come qualsiasi altro romanzo da lui scritto. C'è, per
esempio, un'intrusione rilevabile da parte dell’autore nel
romanzo stesso, attraverso una dolce ironia e un umorismo
che pervade la storia. Finalmente abbiamo la sensazione che
qualcosa stia accadendo, cambiando ed evolvendo, una qualità
rara nell'opera altrimenti statica di Panzini; sentiamo
anche qualcosa dei cambiamenti nelle relazioni personali dei
vari personaggi: Bobby, Aquilino, donna Barberina, Edith.
Percepiamo anche una piccola parte dei cambiamenti storici
che l'Italia ha vissuto nei difficili mesi precedenti la
prima guerra mondiale, soprattutto per quanto riguarda la
politica di estrema destra e di e sinistra.
Ma ci sono
molti aspetti inquietanti che tendono a privare il romanzo
dell'emozione che dovrebbe avere: i personaggi sono
disegnati senza molto spessore; gli eventi sono in gran
parte rappresentati con troppa disinvoltura. Panzini sembra
essere un artista più a suo agio con gli acquerelli che con
gli oli, con una tela piccola piuttosto che una grande; con
situazioni comuni e facilmente definibili. Non c'è da
stupirsi che Pietro Pancrazi abbia osservato che "I
personaggi di Panzini possono far pensare alle suole [di una
scarpa]: c'è un lato e c'è l'altro, ma non si vede mai
nessuno dei due".
Strutturalmente, il romanzo è rivelatore e tipico,
soprattutto per quanto riguarda la capacità dell'autore di
comporre una narrazione sostenuta. La Madonna di Mamà
è divisa in ventisei capitoli abbastanza brevi, la maggior
parte dei quali porta un titolo: sia per il trattamento che
per la lunghezza, sembrano essere unità quasi autonome che
potrebbero essere lette e godute spesso indipendentemente
dall'insieme. Altri elementi tipici di Panzini che si
ritrovano ne La Madonna di Mamà sono una garbata
ironia e una modesta, ma persistente moralizzazione di tipo
manzoniano. Così, ad esempio, dopo aver parlato con il
marchese don Ippolito di Torrechiara, Aquilino, confida
l'autore, non è dispiaciuto delle sue osservazioni, "perché
quando l'uomo si trova in qualche grave difficoltà, è
contento se altri gli dimostrano che la perfezione non
esiste né in terra né in cielo". Oppure, dopo un'altra
conversazione con il marchese, l'autore commenta: 'Vedete!
Quando ero bambino, mia madre - che sia benedetta la sua
anima - era solita dire: L'erba che voglio non cresce da
nessuna parte se non nel giardino del Papa. È ovvio
che non cresce più nemmeno lì". Episodico, scettico,
lievemente ironico, perennemente pessimista ma contenuto,
Panzini amava il passato più del presente e costruì gran
parte della sua opera letteraria intorno al tema del
passato. Era uno scrittore gentile, mai perseguitato dalla
sua immaginazione, sempre desideroso di raggiungere il
grande pubblico, che sapeva essere poco preparato ai libri
difficili. I suoi atteggiamenti e la sua concezione di
quello che doveva essere il suo compito rendevano
inevitabilmente impossibile o al massimo incerta una
scrittura di un certo spessore. Per questo motivo Panzini
raramente scontentò i suoi lettori e non sfidò mai veramente
i suoi critici. E va bene così. Ci sono sempre stati i
generi. Tuttavia Panzini ha accompagnato per un paio di
generazioni i lettori italiani facendo in qualche modo parte
delle loro vite. Egli appartiene a un'epoca di
crepuscolarismo, un periodo di luci soffuse e di visioni
umili. Nel migliore dei casi è un narratore piacevole, nel
peggiore un moralizzatore semplicistico: era, come ha detto
giustamente un critico, uno scrittore nato non "per
creare fatti e personaggi, ma per nascondersi dietro di essi".
"Il suo obiettivo", continua Claudio Marabini, "non
cambia: cercherà sempre un uomo, una piccola virtù,
un'anima. Non smette mai di spegnere quello sguardo
indagatore, pronto a chiedere a chi incontra: "Cosa c'è
dentro di te, nell'ombra più nascosta? E tu, cosa stai
cercando?" . . . Questo è il motivo per cui non è mai
riuscito a scrivere né la storia né i romanzi col classico
schema del romanzo, che richiedono un ideale fermo".
È insomma un
vero peccato che tra gli scrittori del Novecento si parli
veramente poco, e a volte per nulla, di Alfredo Panzini: o,
se se ne parla, è per lo più frettolosamente e con giudizi
genericamente negativi, che sembrano derivati dalle severe
parole di Gramsci, che collocò Panzini fra i nipotini di
padre Bresciani o ancora di quelle per nulla tenere di
Benedetto Croce. Come società con una cultura
prevalentemente di sinistra, per gran parte del dopo guerra
(non diamo una accezione negativa o positiva alla cosa)
molti degli autori che avevano sottoscritto il manifesto
degli intellettuali fascisti redatto da Gentile, fatta
eccezione dei premi Nobel come Luigi Pirandello o Grazia
Deledda, sono stati completamente dimenticati. Erano forse
inferiori di qualità, ma non meritavano l'oblio totale.
Opere, in
effetti, enormi e spesso frutto di una facilità di scrittura
che si distende libera e solerte per pagine e pagine di
romanzi, prose, meditazioni, memorie, viaggi, senza quasi
mai uno scatto, ma con molte intrusioni di citazione dotte,
di professorali erudizioni, di battute di spirito che
vorrebbero essere maliziose e graffianti, ma che ormai
risentono della polvere del tempo e dei mutati costumi.
Ai danni di
Panzini hanno, poi congiurato anche i suoi lodatori ed
estimatori dei primi decenni del secolo, che indicarono
oltre in La Lanterna di Diogene, ovvero Un viaggio
in bicicletta da Milano a Bellaria il suo capolavoro.
Piacque, allora, l’unione di ironia e di pretesa profondità
di meditazione e di pensiero, di cultura e di capacità
descrittiva, di simbolicità e di realismo: e il giudizio
finì con il collocare Panzini fra i prosatori raffinati e
arguti, pieno (si disse) di estri e di umori.
Il successo
critico de Lanterna di Diogene influenzò lo stesso
Panzini, che lo ripeté con Viaggio di un povero letterato,
questa volta effettuato in treno, poi finì con l’inserire
viaggi in Italia o nel tempo fra Greci e Romani in tante
altre opere più determinanti narrative, con alterni
risultati.
Eppure
Panzini ebbe sicure virtù di narratore, ma proprio nella
direzione opposta rispetto alla prosa leccata ed elegante,
piuttosto in quella del romanzo di ambiente romagnolo e
bolognese, rigoglioso, ma soprattutto sollecitato da uno
spirito rabbiosamente conservatore.
Tra i
critici, come accennato fu Antonio Gramsci a parlare della
reazionarietà di Panzini; ma il giudizio non può essere una
semplice etichetta negativa di carattere
politico-ideologico. In realtà la reazionarietà di Panzini
fu molto vitale per una rappresentazione acida e cruda di un
mutare del mondo e della storia che lo trova osservatore
lucido e attento di chi vede e teme l’irrimediabilità della
trasformazione e si arrovella ugualmente su di essa,
cercando di irriderla, di mostrare il carattere di volgarità
e di brutalità, di denunciare il mondo capovolto e insensato
che, secondo lui, ne viene fuori.
Ci sono altri
romanzi di Panzini che riguardo questi temi: La pulcella
senza il pulcellaggio e Il padrone sono me. Certo
l’autore è un narratore slegato, per episodi, per ritratti:
ma la Bologna godereccia e romantica de La pulcella,
che scompare di fronte agli arrivisti che vengono della
provincia a studiarvi, disposti, si, agli amori, ma più
attenti alla carriera, è descritta con sapienza e arguzia e
con la divina malinconia di fronte a ciò che è perduto ormai
nel passato, mentre acidi corrosivi sono versati sul
protagonista diventato deputato socialista, imborghesito a
Roma e arricchitosi anche a spese pubbliche.
Estremamente
lucida poi nel Padrone sono me, è la rappresentazione
della crisi mortale della borghesia per colpa della guerra
che pure ha voluto. Nazionalista, della generazione figlia
del Risorgimento, Panzini non vede nella Prima Guerra
Mondiale che la causa immediata del declino della classe
sociale borghese e del trionfo dei profittatori e dei
demagoghi, mentre la proprietà passa nelle mani dei
contadini, che hanno saputo mettere a frutto la loro astuzia
nell’orgia della retorica, di stoltezza, di illusioni, di
ingenuità in cui sono precipitati i vecchi padroni.
Robertino, il personaggio principale del Padrone sono me,
muore in guerra nella stessa azione da cui esclude, perché
si salvi, Zvani, il coetaneo figlio dei suoi contadini, che
non crede alla guerra e alla patria; il vecchio astronomo,
padre di Robertino e proprietario terriero, impazzisce e dal
suo nuovo status di pazzo dal dolore, grida a tutti quelle
verità sull’assurdità della guerra che nessuno vuole
sentire; l’inquietante e bella Dolly muore anch’essa in un
ospedale di guerra; e alla fine chi resta vincitore e Zvani,
che si è comprato terra e casa dei padroni di un tempo. Non
aveva chissà quali ideali, ma voleva semplicemente vivere e
lavorare nella sua terra.
La fine di un
mondo, quello dell’Italia borghese nata dal Risorgimento,
non poteva essere descritta con più acre amarezza e ferocia.
Qui Panzini, proprio perché assume il punto di vista del
grande conservatore (e chi mai può seriamente sostenere la
sciocchezza che un conservatore [o come direbbe Gramsci un
reazionario] non possa essere un grande scrittore?),
raggiunge un risultato narrativo di esemplare forza e
lucidità.
Alfredo
Panzini nasce a Senigallia il 31 dicembre 1863, come afferma
lui stesso nell’ "Antologia" "d’essere venuto al mondo poco
prima che scoccasse l’ultimo dì dell’anno". La madre,
Filomena era marchigiana, nonostante l’origine romagnola,
mentre Emilio, il padre, era di Rimini a tutti gli effetti,
essendo nato e vissuto nella città che era appartenuta ai
Malatesta.
Panzini nasce
a Senigallia casualmente, essendo la madre andata in visita
ai genitori durante le festività. Nonostante ciò non
attribuirà mai importanza ai propri natali in terra
marchigiana e si sentirà legato unicamente a Rimini, tanto
che già in età giovanile dichiarerà Rimini città natia. Allo
stesso modo in età adulta affermerà di ricordare di essere
nato a Senigallia unicamente quando doveva inserire la
propria nascita nei documenti.
Il rapporto
con la città di Rimini sarà per lo scrittore travagliato,
senza mai una chiara posizione. Nonostante abbia apprezzato
la città fino all’adolescenza, Panzini scrive in età adulta
in modo ondivago, più negativo che positivo. La moglie
affermerà che le sue parole furono "come odio per
l’innamorata, perché egli nel profondo amò la sua città
intensamente".
I motivi per
questo odio sono riconducibili a diversi fattori, come
l’ambiente ritenuto troppo chiuso e la cattiva reputazione
della famiglia per le ingenti perdite del padre Emilio al
gioco e per la sua mancata oculatezza nella gestione del
patrimonio familiare, tanto che sfidò un uomo che aveva
scritto un articoletto diffamatorio, tale Quintino
Quagliati, in un duello all’arma bianca. Il disprezzo per la
città natale aumentò soprattutto con la morte della madre
Filomena, avvenuta nel 1912; solo nella vecchiaia Panzini
tornerà a scrivere parole d’amore per la sua terra.
L’infanzia di
Alfredo non fu tra le peggiori ma nemmeno tra le migliori.
L’ambiente famigliare non era felice, principalmente a causa
della dipendenza dal gioco del padre, che graverà come un
macigno per la sua famiglia. Per tutta la vita coltiverà un
odio morboso per il gioco, e anche la sua carriera
letteraria sarà molto influenzata dalla gioventù, come nel
racconto breve La cagna nera, dove analizzerà dal
punto di vista del figlio la decadenza di una famiglia di
piccola nobiltà e soprattutto le ripercussioni sulla propria
vita.
Frequenta le
scuole elementari a Rimini, poi nel 1875 continua
l’istruzione al ginnasio comunale, per trasferirsi quasi
subito al collegio Foscarini a Venezia. Sebbene durante gli
anni del liceo iniziò a coltivare la passione per la
scrittura, quei sette anni (1875-1882) furono molto
complicati per lui. Essendo d’origini umili ed essendo
entrato in collegio per fortuna ed intercessioni, venne
preso di mira dagli altri ragazzi, tutti altolocati, che
studiavano in collegio. Questi anni trasformeranno il
carattere del giovane, rendendolo pessimista verso uomo e la
natura. Anche il complesso di inferiorità che si porterà
appresso per tutta la vita è dovuto all’esperienza tra i
figli dell’élite, come lo scrittore ricorda in numerosi
scritti autobiografici e non, tra i quali il Trionfo
della penna d’airone e Memorie di scuola. Panzini
definisce quegli anni come quelli in cui la sua giovinezza è
appassita. Ricorda come una presenza luminosa in quel luogo
buio, il professore Giorgio Politeo (coltivatore di anime).
Finalmente,
venendo promosso "ad honorem", nel 1882 lascia Venezia. Si
reca a Roma, quasi subito, per partecipare ad un concorso
letterario per neodiplomati, preseduto da Giosuè Carducci.
Fallisce questa opportunità, venendo giudicato da Carducci e
dalla commissione prolisso.
Nonostante la
bocciatura di Carducci, Panzini continuerà a prendere come
figura ispiratrice il poeta, che sarà il suo professore e
mentore per tutta la sua permanenza a Bologna; si ispirerà
all’uomo tanto da definirlo "l’ultimo dei classici"
ed addirittura scriverà su di lui il saggio divulgativo "l’evoluzione
di Giosuè Carducci", una difesa del nativo di
Valdicastello contro chi lo accusava di appoggiare la causa
monarchica.
Oltre a
Carducci, durante i suoi anni a Bologna incontrerà altre
personalità di rilievo. Come insegnante avrà anche Francesco
Acri, il filosofo studioso di Aristotele, Conoscerà anche
Giovanni Pascoli, che gli dedicherà La bicicletta di Ninì
(1902) "dovuta all’ingegno schiettissimo di un giovane"
e che lo definirà successivamente "un romagnolo bravo sul
serio".
Quando
Panzini arrivò a Bologna nel 1882 per iniziare i suoi studi
all'Università, trovò una città prospera e in crescita. Il
corpo studentesco vi occupava da secoli una posizione
piuttosto privilegiata e non era difficile godersi la vita a
fondo anche per un giovane di mezzi limitati come Panzini.
Lo stesso ci ha fornito un quadro affascinante e vivido
della vita studentesca di allora, nel suo libro La
pulcella senza pulcellaggio, che ha come sfondo la
Bologna di quei tempi e come atmosfera gli ambienti
studenteschi come lui stesso doveva averli conosciuti. A
parte la libertà appena acquisita, che ora era illimitata
come lo era stata la sua mancanza ai tempi della scuola
veneziana, la più grande fonte di soddisfazione per Panzini
era senza dubbio l'indipendenza finanziaria che la borsa di
studio gli consentiva. Ne era orgoglioso e continuò ad
esserlo per tutta la vita: "A vent'anni non essere più a
carico di papà, questa era una bella soddisfazione secondo
la morale del vecchio Ottocento".
Aveva a
disposizione 75 lire al mese. Non era una fortuna, ma la
libertà, il nuovo ambiente, la vita universitaria
contribuivano a rendergli la vita dolce. Anche i ricordi
spiacevoli degli anni a Venezia si erano affievoliti e
Panzini sembrava, dopo qualche mese, essersi scrollato di
dosso il suo costante senso di pessimismo e cominciava anzi
a considerare la vita con un atteggiamento più benevolo. Ma
questa parentesi di felicità non durò a lungo, e il destino
richiese un tributo ancora maggiore di dolore e di lacrime
per la breve tregua concessa. Nel 1883, mentre frequentava
il secondo anno di università, il padre morì all'improvviso.
Fu un colpo terribile per il giovane, che era molto legato
al genitore, e gli sembrò doppiamente doloroso perché il
padre aveva solo 52 anni e non c'era stata alcuna malattia
che facesse pensare a una morte così prematura. Inoltre, a
parte il suo dolore personale, le condizioni della famiglia
divennero peggiori di quanto non fossero mai state, e
Panzini dovette risparmiare sulla sua misera borsa di studio
per aiutare la madre. Furono mesi neri sia mentalmente e che
fisicamente, e non fu insolito per il futuro scrittore dover
andare avanti con due o addirittura un solo pasto al giorno.
A complicare
ulteriormente le cose, Panzini scelse proprio questo momento
inopportuno per innamorarsi. Non si trattava di una fantasia
passeggera, ma di un sentimento radicato, e nonostante le
sue condizioni precarie Panzini voleva sposarsi: ''Pensare
tanti anni fa, quando io avevo vent'anni! Io ero orfano di
babbo, e vivevo così poveramente che spesso era necessario
saltare la colazione; la mia povera mamma, i miei fratellini
piccini . . . Ebbene, io volevo sposarla, Mimi, sposarla col
sindaco, col prete, col codice."
Panzini era
davvero determinato e se Mimì avesse condiviso la sua
impazienza probabilmente avrebbe portato avanti i suoi piani
nonostante il rifiuto categorico della madre di approvare un
simile progetto.
Mimì era una
sarta: "Ella era allora, una piccola pallida sartina,
precoce, venuta al mondo con due enormi tondi occhi colmi di
curiosità, un nasetto impertinente, belle labbra sane a
cuore, e gusti eccezionali".
Nonostante
gli eminentissimi dotti del tempo dell’università, la
persona più importante dei suoi anni accademici sarà propria
Emma Scazzari, Mimì, appunto, come viene soprannominata dal
Panzini, è una costumista ed un’attrice teatrale. Alfredo si
innamorò follemente di lei, un amore fin troppo impulsivo
visto che nei primi mesi di conoscenza, come abbiamo visto,
le chiede più volte di sposarlo, senza successo. Mimì non fu
solo un amore giovanile, ma anche un personaggio che
ritroviamo spesso negli scritti di Panzini, quello della
donna emancipata e moderna, dai pari diritti e contro gli
antichi costumi.
Per Mimì il
lavoro di sartina era solo un'occupazione temporanea, perché
voleva diventare attrice, come poi fece. In ogni caso,
rifiutò costantemente le proposte di Panzini e, dopo che
quest'ultimo lasciò Bologna e l'università, i due si
separarono e non si videro per più di 30 anni,
rincontrandosi solo quando Panzini era ormai uno scrittore
di fama e un rispettabile pater familias, mentre Mimì aveva
realizzato la sua ambizione di diventare attrice, anche se
non aveva mai ottenuto un grande successo. Panzini,
tuttavia, non dimenticò mai del tutto questo attaccamento
giovanile, il cui ricordo si ritrova in molte sue opere e in
particolare ne La pulcella senza pulcellaggio, dove
l'antico amore rivive nei ricordi che aveva e, ingentiliti
dal tempo e dall'età, trovano un'espressione poetica in quel
misto di ingredienti umoristici e tristi, così tipici
dell'ultimo Panzini. Anche ne il Viaggio di un povero
letterato si narra di questa complicata storia d’amore.
Poco dopo
l'inizio delle tribolazioni amorose di Panzini, la tragedia
colpì nuovamente la sua famiglia con la morte della sorella
Matilde, all'epoca di 7 anni. Non è difficile immaginare
quale dovesse essere il suo stato d’animo durante i restanti
due anni di università; era sparito quel senso di
spensieratezza e di gioia di vivere e ancora una volta era
sceso su di lui quell'ineluttabile senso di amarezza e di
pessimismo. L'unico punto luminoso della sua vita fu lo
studio, al quale si applicò con devozione quasi religiosa, e
l'ispirazione che trasse da due dei suoi insegnanti:
Francesco Acri e Giosué Carducci, i due uomini che
esercitarono su di lui un'influenza particolarmente forte e
che lasciarono tracce indelebili sulla sua personalità e sul
suo orientamento intellettuale.
Carducci e
Acri non avrebbero potuto essere più distanti dal punto di
vista temperamentale e spirituale. Questo fatto assume una
grande importanza se visto attraverso le qualità dello
stesso Panzini, perché non c'è dubbio che la disparità tra i
due maestri deve aver contribuito a far emergere quel
dualismo che vediamo continuamente riapparire nelle opere di
Panzini come la motivazione unica più forte della sua arte.
Lo stesso Panzini, giustamente, vedeva la differenza tra i
due letterati soprattutto dal punto di vista della
religione:
"Per mio
conto, nello studio di Bologna, mi capitò di conoscere altri
due uomini molto virtuosi, benché l'uno fosse cattolico e
l'altro pagano. Il primo si chiamava Francesco Acri, e il
secondo Giosué Carducci."
La fede di
Acri e la mancanza di fede di Carducci spiegano in gran
parte la divergenza che esisteva nelle rispettive concezioni
di vita. Da Acri Panzini ereditò un'avversione fortemente
radicata per il sistema filosofico noto come "positivismo",
che era allora e rimase per un certo tempo una tendenza di
pensiero di primo piano. Questo modo di pensare conservava
come principio fondamentale l'insistenza sulla verità basata
sull'esperienza e si estendeva a tutte le fasi dell'attività
umana. Acri vi si opponeva per motivi religiosi, perché
negava proprio quelle convinzioni che erano alla base della
sua fede. In Panzini, questo antagonismo verso il
positivismo sembra derivare più dal temperamento dello
scrittore che da una deliberata riflessione. Attacchi palesi
e nascosti contro questo sistema sono disseminati in molti
suoi scritti, in particolare nei primi, e in ogni caso
l'atteggiamento di Panzini è di istintiva ripugnanza nei
suoi confronti. Egli sentiva che il positivismo distruggeva
tutte quelle sfumature e emozioni dell'uomo, tutte quelle
illusioni di umanità, che rendono la vita molto più ricca
anche se scientificamente meno accurata. Acri infonde in
Panzini anche un grande rispetto per la religione, cioè un
senso di religiosità. Panzini non era un uomo religioso nel
senso nel senso di praticante scrupoloso, ma possedeva un
forte rispetto per le credenze religiose, in parte come
residuo sentimentale della sua prima giovinezza e in parte
perché sentiva che un mondo senza il messaggio di speranza
cristiano sarebbe stato un luogo desolante. Nel suo libro
Viaggio con la giovane ebrea, scritto nei suoi ultimi
anni di vita, conclude la conversazione con Rossana con una
domanda breve ma così piena di significato:
"Sentite
Rossana io dissi, ... Il signor Freud fa un totem, un tabù
anche di Cristo; ma questo sogno, questa visione, ho tanto
desiderato che il fantasma si sia mutato in realtà. E, cara
figliuola, se mi togliete Gesù che cosa mi resta? Mi resta
poco".
Infine, Acri
fu in qualche misura responsabile dello sviluppo dello stile
letterario di Panzini, perché nel suo insegnamento dava
grande importanza agli scrittori ascetici del XIV secolo e
insisteva affinché i suoi studenti li usassero come modelli
nei loro scritti. Per quanto grande sia stata l'influenza di
Acri su Panzini, essa rimase sempre venata da una sorta di
distacco accademico. Acri era Acri, era un uomo difficile da
avvicinare e da conoscere intimamente; di carattere schivo e
riservato, molto raramente partecipava alla vita pubblica e
anche quegli studenti che gli erano molto vicini lo erano
solo in classe.
Carducci,
naturalmente, era diametralmente opposto ad Acri,
soprattutto sotto quest'ultimo aspetto. Il suo carattere
forte e aperto lo rendeva facilmente accessibile ai suoi
studenti a cui non faceva mai mancare un consiglio sincero e
benevolo anche se, a volte, era dato con parole dure e
sembrava a tratti crudele. Gli studenti, a loro volta, lo
ammiravano: era il loro idolo in classe, quando la sua
parola ispirata rendeva la letteratura un fatto di vita; era
il loro idolo quando leggevano la sua ultima poesia; era il
loro idolo quando, con il suo piglio deciso e
inconfondibile, si pronunciava su qualche problema politico
o civile. L'esperienza carducciana negli anni della
formazione di Panzini fu fondamentale. Il suo inesauribile
amore e la sua profonda comprensione dei classici
dell'antichità e dell'Italia possono essere ricondotti quasi
direttamente a Carducci. Anche lo scetticismo religioso del
maestro fu trasmesso all'allievo, sebbene in modo molto
attenuato e diluito; infatti, come abbiamo visto, Panzini
conservò sempre, se non la fede, almeno un atteggiamento di
simpatia verso le credenze religiose, verso la civiltà
cristiana in cui era nato e cresciuto. Ma l'influenza di
Carducci si manifestò soprattutto in due aspetti: nello
stile letterario e in quelle qualità civili che furono
fondamentali per rafforzare ancora di più il patriottismo
del suo allievo. Per quanto riguarda lo stile di Panzini si
è già accennato all'insegnamento di Acri come fattore
determinante in questo senso, ma si trattò al massimo di
un'influenza parziale e non fondamentale come quella di
Carducci.
La prosa
classica di quest'ultimo, il suo approccio diretto e
conciso, la sua fluida semplicità di parole, l'esposizione
uniforme e priva di ostacoli di idee e argomenti racchiusi
in frasi armoniosamente equilibrate, così insistentemente
evocative dei primi scrittori italiani; tutte queste qualità
si possono ben ritrovare alla base dello stile di Panzini.
Naturalmente si presentano in una veste nuova, con
l'impronta particolare della personalità artistica di
Panzini, ma il rapporto è inconfondibile. Nel caso del
patriottismo di Panzini si è già evidenziato il ruolo dei
suoi antenati nella lotta per l'indipendenza italiana;
questo retroterra era servito a far nascere in lui un
intenso sentimento di devozione verso la patria, che sotto
l'insegnamento di Carducci si è notevolmente ampliato e ha
acquisito, accanto all'originaria base emotiva, anche una
base culturale e intellettuale. In un'analisi delle opere di
Panzini sarebbe necessario trattare più dettagliatamente
l'influenza di Carducci; qui è sufficiente averla segnalata.
Negli ultimi anni di università Panzini conobbe due
scrittori che, pur non avendo dato un'impronta definitiva
alla sua opera, gli furono molto cari per alcune affinità
con il suo carattere e la sua arte, e i loro nomi si trovano
abbastanza frequentemente nelle sue opere: l’irlandese
Laurence Sterne e il tedesco Heinrich Heine. Anche il Don
Chisciotte di Cervantes divenne uno dei preferiti di
Panzini in questo periodo e rimase per tutta la vita una
delle sue opere letterarie più amate. Questi particolari
autori stranieri sono degni di nota perché sono i più
importanti tra i pochissimi che Panzini conobbe
direttamente. Mentre la sua conoscenza della letteratura
greca, romana e italiana era ampia e profonda, la sua
conoscenza della letteratura straniera, in particolare
moderna, era poco approfondita.
Si laureò
nella primavera del 1886 con lode. La sua tesi, scritta
sotto la diretta supervisione di Carducci, si intitolava:
Saggio critico sulla poesia maccheronica. Fu la prima e
unica opera di Panzini di carattere strettamente erudito. In
campo erudito, così come in molti altri aspetti, Panzini non
era in sintonia con il suo tempo. Il metodo storico era
allora prevalente e Panzini non si sentiva a suo agio in
esso. Per lui non era che un'altra manifestazione di quello
stesso positivismo che tanto gli dispiaceva, perché cercava
di fare della letteratura una disciplina precisa e
scientifica, un'idea che egli ha sempre ridicolizzato e che
a volte attaccava con sarcasmo al vetriolo.
Pochi mesi
dopo la laurea, nell'autunno del 1886, Panzini iniziò la sua
carriera di insegnante. Aveva ormai 23 anni, era un po'
indurito dalle avversità, incline al pessimismo, ma
conservava ancora abbastanza entusiasmo giovanile da fargli
sperare nella realizzazione dei suoi ideali
nell'insegnamento. Quali fossero questi ideali, come
andassero in questo primo anno, ce lo racconta lui stesso
qualche anno dopo ne La cagna nera. Nessun altro
libro di Panzini, forse, possiede l'intensità di sentimento
di questo, e anche se macchinoso nello stile e nella
struttura colpisce il lettore per la sua sincerità.
L'esperienza dell'autore durante questo anno è riassunta in
queste parole:
''Egli si
è voluto attentare inerme e nudo contro l'immane battaglia
della vita, ed è montato in buona fede su la nave della
virtù. Ora è in mezzo al mare, ed il vascello dei fantasmi
veleggia, ed egli ha paura perché si è trovato solo.
Credevate forse di trovare degli uomini veri per compagni?
Erano fantasmi quelli che apparivano. La nave della virtù
non ha viandanti, non ha porto che la ricetti. Solo l'isola
della Utopia la raccoglie qualche volta nel suo eterno
errore."
Queste parole
sono pronunciate in una conversazione immaginaria tra le
onde del mare e il protagonista di Cagna nera. Le prime lo
deridono per aver riposto tanta fiducia nella virtù e nella
bontà. Il protagonista è un giovane insegnante animato da
grande zelo e fede nella sua missione, che ha appena
iniziato la sua carriera in un piccolo paese del golfo di
Sorrento. Il sottile velo della finzione nasconde a malapena
le esperienze vissute da Panzini come vero sfondo del libro.
Il suo primo incarico fu quello di insegnante nel Ginnasio
Governativo di Castellamare di Stabia, una cittadina sul
Golfo di Sorrento, e fu qui che Panzini imparò per la prima
volta quanto sia difficile trasformare le visioni in realtà.
Quella che aveva sognato come una vita dedicata agli ideali
di virtù e bontà realizzati attraverso il suo insegnamento,
si rivelò una sordida esperienza in un'atmosfera di
sentimenti meschini ed espedienti egoistici:
''Duro
tirocinio quel suo primo anno di insegnamento, pieno di
delusioni, di attriti, di sacrificate aspirazioni e ideali
che avevano origine dal suo indomito temperamento a anche,
per contrasto, dall'arida mentalità e pedanteria di parecchi
professori d'allora".
Alla fine
dell'anno scolastico chiese e ottenne il trasferimento e fu
nominato al Ginnasio Governativo di Imola, anch'essa una
piccola città, ma in Romagna. Nonostante il fatto che si
trovasse nella sua regione natale e molto più vicino alla
madre che risiedeva a Rimini, Panzini non era ancora
contento. Il cambiamento da Castellamare di Stabia era stato
solo paesaggistico, le condizioni erano più o meno le stesse
e l'atmosfera di questi piccoli centri di provincia era per
lui soffocante. Poco sappiamo dei suoi trascorsi a
Castellamare e ad Imola, l’anno successivo, se non che in
questi luoghi nacque il progetto della Cagna nera.
Alla fine di questo secondo anno Panzini era deciso ad
abbandonare l'insegnamento se non fosse stato trasferito in
una grande città e fu allora che, secondo Mormino, si
rivolse a Carducci, suo ex insegnante e persona molto
influente negli ambienti educativi, con il seguente
ultimatum: "O mi fa insegnare in una grande città o
cambio mestiere". La sua minaccia fu apparentemente
efficace, dato che l'anno successivo, il 1888, lo troviamo
al Ginnasio Giuseppe Parini di Milano.
Il Ginnasio
Giuseppe Parini, all'epoca, era annesso all'Istituto
Militare Longone e fu qui che Panzini incontrò Costantino
Brighenti, che sarebbe stato il suo unico vero amico.
Brighenti era un tenente dell'esercito ed era istruttore
presso l'Istituto Longone. La conoscenza tra i due giovani
si trasformò rapidamente in un'amicizia profonda e devota
che il tempo rese sempre più intima. Solo la morte prematura
di Brighenti, nel 1915, vi pose fine, ma Panzini ne conservò
il ricordo con grande attaccamento per tutta la vita.
Secondo la signora Panzini questa fu infatti l'unica vera
amicizia che Panzini abbia mai stretto:
''Il
Brighenti fu l'amico intimo di Alfredo e mantenne con lui
per anni affettuosa corrispondenza improntata ad alte e
nobili idealità e a grande amor di patria. Panzini non aveva
altri amici intimi. Brighenti fu il solo che conquistò il
suo animo e si amarono con stima e ammirazione reciproca".
Il punto
d'incontro tra i due giovani era innanzitutto l'amore per
l'Italia. L'intenso patriottismo di Panzini trovò un
sentimento corrispondente nell'amico; entrambi erano
insoddisfatti del corso politico che gli eventi avevano
preso dopo l'unificazione del Paese, ed entrambi sentivano
che i sogni dei loro antenati di un'Italia più grande e più
gloriosa erano stati abbandonati dalla loro generazione.
Questa insofferenza del giovane Panzini nei confronti dei
leader politici italiani derivava in parte da un
atteggiamento simile a quello del suo maestro Carducci, che
per molti anni aveva tuonato contro l'apparente incapacità
dell'Italia di elevarsi immediatamente agli alti ideali
formulati durante il Risorgimento. Molti dei primi scritti
di Panzini riflettono questo atteggiamento e la sua
insoddisfazione è chiaramente illustrata dal seguente
passaggio:
"Perdo un
poco di dignità, un poco di memoria, almeno! Sono trent'anni
che vi accapigliate sull'esercito o non esercito; sulla
flotta o non flotta; sulla repubblica o sulla monarchia;
sull'unità o sulla federazione. Ma decidetevi una buona
volta! Mettetevi d'accordo se è possibile! Che cosa curiosa,
mentre tutto è un disputare di metafisica sociale e
politica, mentre fate alta accademia sulle più gravi
questioni, nessuno ha il coraggio di prendere un caso
pratico e di dire; Qui v'è del guasto! Affidiamo il coltello
anatomico e curiamo il maschio visibile! No! Nessuno...".
Nel racconto
queste parole di amara delusione sono pronunciate da un
giovane di origine italiana, giunto dall'Egitto traboccante
di amore e riverenza per la terra dei suoi antenati e
intenzionato a stabilirvisi. Quando si rende conto della
situazione, cambia subito idea e Panzini non può far altro
che dargli ragione.
Per due anni
Panzini vive a Milano da scapolo, tornando a Rimini per
visitare la madre ogni volta che può. Nonostante il fatto
che ora vivesse in una grande città, in un ambiente
notevolmente migliorato, e nonostante la stretta amicizia
con Brighenti, persisteva in lui quel vecchio sentimento di
insoddisfazione per la vita. Si tenne occupato
nell'insegnamento e nella preparazione di vari libri di
testo, ma era un uomo molto solo e disilluso. Il suo stato
d'animo di questo periodo emerge chiaramente nel racconto
Il cuore del passero, in cui descrive una visita alla
madre a Rimini. Un pessimismo totale e a volte senza
speranza sembra essere diventato normale per il giovane. Il
suo mondo ideale è caduto e giace in mille frammenti ai suoi
piedi e non ha trovato alcun sostituto. Questo è in realtà
il dramma di tutta la vita di Panzini: il contrasto tra un
mondo ideale irrimediabilmente perduto a contatto con la
realtà e l'incapacità di trovare in questa realtà le basi
per un nuovo inizio. Questo è il suo tema continuo, che
riesce a presentare in tante forme e modalità vagliate dalla
sua personalità ricca di umanità. All'epoca dei primi anni
milanesi, egli si trovava nella prima fase di questa
evoluzione spirituale, quella di maggiore disillusione
dovuta all'impatto iniziale e caratterizzata dal fatto che
questo scrittore, che in seguito diventerà famoso
soprattutto come umorista, non è in grado a questo punto di
regalarci nemmeno il più tenue sorriso.
I suoi primi
libri, artisticamente molto mediocri, colpiscono per la loro
sostenuta e ininterrotta cupezza e per la serietà
dell'autore. Le successive esperienze di vita avrebbero
addolcito e ammorbidito questo atteggiamento, risolvendolo
infine in quella vena di umorismo personale che diventa il
suo normale modo di esprimersi. Non ultimo tra questi
influssi mitigatori fu il matrimonio di Panzini con
Clelia Gabrielli nel 1890, con cui rimarrà per tutto il
resto della vita. La moglie era una collega che insegnava
disegno. La coppia avrà quattro figli, Umberto (che
purtroppo morirà nel 1910 a soli 10 anni, di difterite e a
lui Panzini dedicherà la raccolta di Fiabe della virtù),
Emilio, come il nonno, Pietro (anche se veniva chiamato
Piero da tutti) e Matilde. Nel 1890 pubblicherà degli
Agnolo Fiorenzuola. Scritti scelti e annotati, seguiti
da alcune traduzioni dal latino, prima Tibullo, poi Orazio
ed infine un’edizione delle Bucoliche di Virgilio.
Il suo
matrimonio fu lungo una vita, ma fu affatto un matrimonio
perfetto o molto felice e la stessa signora Panzini lo
descrisse così: ''Fu vita coniugale felice? Vita
tormentosa e poco serena si, molti sprazzi di luce e di
amore; ma felice no", ma fu sufficiente a portare nella
sua vita una nuova prospettiva, un rinnovato senso di
energia e ambizione. Infatti, con il momento del matrimonio
coincide con l'inizio di un periodo di estrema attività, sia
per quanto riguarda l'insegnamento sia per quanto riguarda
la scrittura, che durò fino all'inizio della prima guerra
mondiale.
Da un lato,
le nuove responsabilità familiari lo spronano a scoprire
nuovi modi e mezzi per aumentare il suo magro stipendio. Lo
fece soprattutto intensificando la preparazione dei testi
scolastici e ricorrendo alla via crucis di tutti gli
insegnanti italiani, ovvero le ripetizioni private. D'altra
parte, le sue ambizioni e inclinazioni di scrittore creativo
si fanno sempre più pressanti ed è infatti in questo periodo
che cominciano a comparire i suoi libri. Furono anni molto
impegnativi e forse i più stabili della sua vita, come lo
stesso Panzini avrebbe poi osservato. Le molte ore di
insegnamento, la scrittura e la famiglia non gli lasciavano
quasi mai il tempo di dormire. Tuttavia, questa vita piena
di impegni aveva un senso di appagamento che più che
compensava le preoccupazioni e gli affanni quotidiani, in
particolare quelli di natura finanziaria. La moglie parla
così di questi primi anni di matrimonio: "Visse in quei
primi tempi, oscuro e modesto fra i suoi studi, la scuola e
la famiglia; né mai desiderò onorificenze, o posti
elevati.''.
Nel 1897,
mentre insegnava ancora al Ginnasio Parini e continuava a
dare lezioni private, ebbe la fortuna di essere chiamato dal
senatore Francesco Brioschi a insegnare letteratura italiana
nella scuola preparatoria annessa al Politecnico di Milano.
Si trattava, per così dire, di una spinta in territorio
nemico. Il Politecnico era allora, ed è rimasto fino ad
oggi, la roccaforte del sapere tecnico italiano. Gli studi
umanistici non erano tenuti in grande considerazione e la
letteratura era tollerata nella scuola preparatoria
dell'Istituto solo grazie alle insistenze di Brioschi. Il
corpo studentesco, ovviamente, condivideva questo punto di
vista e Panzini dovette esercitare ogni risorsa a sua
disposizione per conquistarlo. Ma ci riuscì; infatti, in
breve tempo divenne l'insegnante preferito e il suo corso
molto popolare. Il suo segreto era ovvio: faceva della
letteratura qualcosa di vivo e reale piuttosto che piuttosto
che un affare pedante e soffocantemente erudito. Le letture
in classe di Panzini dei classici italiani, divennero presto
parte della tradizione della scuola.
Nel 1907
aggiunse un ulteriore obbligo formale di insegnamento a
quelli già svolti al Parini e al Politecnico. Questa volta
si trattava di un corso serale presso il Circolo Filologico.
Insegnava l'italiano a stranieri, in genere uomini d'affari
e soprattutto tedeschi. Doveva essere un corso molto pratico
e Panzini aveva un metodo molto pratico. Si presentava in
classe con le tasche piene di una grande varietà di oggetti.
Depositava la merce sulla scrivania e poi, tenendo in mano
un oggetto alla volta, procedeva con la lezione in modo
diretto. Dopo la lezione, che terminava alle nove, Panzini
andava subito a casa e a letto. Si alzava poi verso le
cinque del mattino e dedicava due o tre ore alla scrittura
creativa prima di ricominciare il suo intenso lavoro di
insegnante. La maggior parte delle opere di Panzini furono
scritte nelle prime ore del mattino e questa abitudine
divenne così radicata nella routine quotidiana dell'autore
che la mantenne per tutta la vita.
Abbiamo visto
che la carriera vera e propria di scrittore di Panzini
iniziò poco dopo il suo matrimonio e possiamo aggiungere che
continuò senza grandi interruzioni fino alla prima guerra
mondiale. Il suo primo libro, scritto durante il primo anno
di matrimonio, era apparso nel 1893 e rifletteva quello
spirito di ininterrotta cupezza a cui si è accennato prima.
A questo libro ne seguirono rapidamente altri dello stesso
tenore. È solo con l'apparizione di Lepida et tristia,
un volume di racconti, nel 1901, che notiamo un cambiamento.
Panzini sembra aver accettato la realtà o almeno sembra
essersi riconciliato con essa in una certa misura. La novità
è che in questa accettazione della vita, così lontana dal
suo mondo ideale, sembra aver trovato una soluzione
all'inevitabile contrasto in una sottile e a volte
impercettibile vena di umorismo ben nascosta sotto una finta
ingenuità. Questa tendenza diventa sempre più forte e
culmina nella sua espressione più perfetta: La Lanterna
di Diogene. Si tratta di un diario autobiografico che
narra del viaggio compiuto a luglio che l’autore compie in
bicicletta da Milano, fino a Bellaria, la città dove passa
gran parte dell’estate e da dove la narrazione proseguirà.
Da questo volume fuoriescono molti dei tratti caratteristici
dello scrittore. Dal suo pessimismo, che coltiva fin
dall’adolescenza e per il quale si sente già vecchio,
passato, nonostante abbia solo 40 anni, alla fede in Dio o
al patriottismo.
Molti di
questi primi libri di Panzini furono pubblicati a sue spese.
Solo nel 1901 trovò un editore nella persona di Emilio
Treves, allora decano degli editori italiani. Ma anche con
un editore rimase senza lettori. Si racconta infatti che
Treves accettò di pubblicare i suoi libri perché gli
piacevano personalmente e perché sosteneva che con essi
stava imparando la lingua italiana, e non perché qualcuno li
comprasse. Treves, dirigeva la rivista L’illustrazione
Italiana, per la quale Panzini inizierà a lavorare per
più di venti anni. Oltre alla suddetta rivista collaborerà
anche con La Nuova Antologia, che pubblicherà i suoi
lavori a puntate.
Ci fu poi
però un'opera di Panzini, sempre di questi primi anni
milanesi, che riscosse un immediato successo e per il quale
ancora oggi è forse ancora ricordato: il suo Dizionario
moderno. Concepito originariamente come una raccolta di
mostri e mostricini, cioè di parole e frasi nuove e
inaccettabili che dovevano essere evitate da chi desiderava
scrivere in italiano puro, divenne ben presto un dizionario
di neologismi o di parole che non si trovavano in nessun
dizionario rispettabile. Fin dall'inizio fu un lavoro
ponderoso e dispendioso in termini di tempo, e con il
passare degli anni lo divenne sempre di più. Ma oltre alla
sua utilità, essendo l'unica opera del genere esistente,
traeva un fascino particolare dalle riflessioni personali di
Panzini che quasi sempre accompagnavano la spiegazione di
ogni voce. Il Dizionario moderno, era una ventata
d’aria fresca di un antimodernista; infatti Panzini rende il
dizionario interessante arricchendo ogni parola con
aneddoti, battute e modi di dire. La sua particolarità più
grande riguarda il fatto che era stato ideato come una
raccolta di neologismi e termini stranieri di cui l’Italia
si era appropriata con il tempo, anche se finì per divenire
una solida base dei nuovi dizionari Italiani. Il dizionario
accompagnerà Panzini fino agli ultimi anni, con
accorgimenti, rinnovamenti e nuove edizioni.
Panzini aveva
la convinzione che la lingua italiana fosse entrata, ormai
da vari decenni, in una fase di "rapidissima evoluzione", la
quale rispecchiava il processo di modernizzazione a cui lo
Stato e la società stavano andando incontro:
"Ma perché
la parola segue la vita, come l‟ombra la materia, era
naturale che in questo trapasso il popolo italiano dovesse
rinnovare i suoi vocaboli; plasmarne di nuovi; adattarne di
antichi; e come tolse molte forme della sua nuova vita dalle
nazioni che in questo moto lo precedettero e con le quali
venne in diretto contatto, così – vera legge del minimo
sforzo – ne togliesse anche le parole [...]"
Il
Dizionario moderno intrattiene, anticipandone alcune
caratteristiche, una stretta relazione con le grammatiche di
cui fu autore Panzini, a partire dalle Semplici nozioni
di grammatica italiana pubblicate per l’editore
Trevisini nel 1914 e poi per Bemporad nel 1929. Si tratta di
un’opera rivolta a un pubblico scolastico, che abbina alla
spiegazione una serie di esercizi. Dopo la Prefazione, in
cui l’autore illustra le ragioni che lo hanno indotto a
pubblicare una grammatica, che pubblicata negli anni ’80 del
900 da Sellerie riscosse un incredibile successo. Panzini
riconosce che la vitalità della lingua, nella sua varietà e
irregolarità, si sottrae a una descrizione troppo rigida: "Immaginate
le lingue come un gran fiume e la Grammatica come la
regolatrice di questo fiume. Il fiume è quello che è, quello
che la natura fece. La Grammatica lo segue, cerca che non
straripi, che non si impaludi, che non precipiti. La
grammatica ci dà le ragioni di questo gran fiume vivo, e
perciò è uno studio che, fatto bene, può essere anche
dilettevole (Panzini, 1937)". E forse la ragione del
successo, anche a distanza di decenni risiede in questo: "A
differenza di molte grammatiche, credo bene (specialmente in
questa parte) di attenermi alla più benevola semplicità. Si
tratta, in fondo, di filosofia e di ragioni d'arte!
Le strade maestre sono abbastanza visibili e facili anche
per un giovinetto; ma se ci perdiamo pei viottoli, con
definizioni un po’ troppo assolute e sottili, allora è un
labirinto! (Panzini,
1937)".
Per dare un
esempio del tono colloquiale del volume:
"…Quando
si dà del tu, del voi, del lei?: Noi italiani difficilmente
sbagliamo in questo uso dei pronomi, però sarà bene qualche
riflessione. Il vero pronome di seconda persona è tu al
singolare, e, naturalmente, voi al plurale. I Greci ed i
Romani davano del tu a tutti, anche ai loro re; i bambini
danno del tu a tutti; in molti dialetti dell’Italia
meridionale non si conosce che il tu. Quando rivolgiamo il
pensiero a Dio, diciamo, tu e non lei, Signore. E allora
perché si dà del voi parlando ad una persona sola, e del
lei, che è terza persona e femminile, parlando anche ad un
uomo? (Panzini, 1937)."
Un piccolo
aneddoto a proposito di Antonio Gramsci, non certo molto
indulgente nei confronti di Panzini. Nel luogo dove era
detenuto dal regime, aveva messo insieme una piccola
biblioteca di 700 libri e 400 riviste. Fra i titoli che il
leader comunista consultava, e di cui ha lasciato cospicua
traccia dialettica nei Quaderni, c'era la Guida alla
grammatica italiana di Alfredo Panzini. Non fu indulgente
nemmeno stavolta, non risparmiando feroci critiche e
tacciandolo, tra le altre cose, di imbecillità e
inettitudine. Forse il suo giudizio andava oltre al
grammatico e finiva nel giudizio stesso di un uomo
risorgimentale, finito per sfinimento nelle grinfie
dell’ideologia fascista.
Tutta questa
intensa attività non rimase del tutto priva di frutti e
Panzini riuscì, con qualche sacrificio in più, a realizzare
un sogno che coltivava da anni. Dal 1900 trascorreva le
estati a Bellaria, un'incantevole e, all'epoca, quasi
sconosciuta località dell'Adriatico, vicino a Rimini. La
famiglia affittava una casetta di pescatori e vi rimaneva il
più possibile durante l'estate. Nel 1906 i Panzini furono in
grado finalmente di costruire una casetta tutta per loro, la
prova tangibile delle tante ore di insegnamento extra, di
ripetizioni extra, di lavoro extra sui testi scolastici e
dei primi magri frutti della sua scrittura. Bellaria divenne
la residenza preferita di Panzini, dove da allora in poi
trascorse tutte le vacanze e il tempo libero e dove scrisse
la maggior parte delle sue opere successive.
Il
miglioramento delle condizioni economiche permise a Panzini
di rinunciare ad alcuni dei suoi numerosi obblighi di
insegnamento e nel 1907, dopo 19 anni, lasciò il Parini. La
ragione più importante che lo spinse a questo trasferimento
fu il desiderio di dedicare più tempo alla scrittura, che
stava lentamente ma inesorabilmente emergendo come sua
attività principale. La vita, nel frattempo, si era
stabilizzata in una routine: le estati a Bellaria dedicate
quasi interamente alla scrittura e al riposo; il resto
dell'anno a Milano dove si divideva tra insegnamento e
scrittura. Gli amici erano pochi e Panzini si manteneva ben
saldo nell'orbita della scuola e della famiglia, rimanendo
sulla soglia di quella società che considerava con fastidio
e talvolta con antipatia, ma che tuttavia lo attraeva con
uno strano fascino. Panzini si risentiva profondamente di
alcune azioni e delle idee dei suoi compagni, ma non perse
mai l'interesse per questi ultimi.
D'altra
parte, i suoi concittadini cominciavano a sentire parlare di
Panzini. È vero che a questo punto la loro conoscenza di lui
era limitata a una ristretta cerchia di letterati, ma in
questo ristretto ambito il suo nome continuava a comparire
sempre più spesso. Gaetano Negri, allora critico di spicco,
aveva scritto una recensione molto favorevole del primo
libro di Panzini: Il libro dei morti, già nel 1893.
Un’opera di carattere anti progressista e che non ottenne il
successo sperato, uscendo probabilmente in uno fra i momenti
di maggiori vedute progressiste di tutto il secolo e con i
libri positivisti che andavano per la maggiore.
In seguito
scrisse una prefazione altrettanto favorevole a Lepida et
tristia. Come lo stesso Panzini ebbe a sottolineare in
seguito, questi commenti, anche se non gli aprirono
effettivamente le porte del paradiso, fecero sì che San
Pietro lo guardasse a lungo. Ma solo nel 1910 Panzini tornò
alla ribalta grazie a un articolo di Renato Serra.
Quest’ultimo nel 1900 si era iscritto all'Università di
Bologna presso la Facoltà di Lettere e Filosofia, ed ebbe
tra i suoi insegnanti gli stessi Giosuè Carducci (con il
quale discusse anche la sua tesi sullo "Stile dei Trionfi
del Petrarca") e Francesco Acri.
Il giudizio
di Serra, che definirà Panzini "della famiglia dei grandi"
fu poi confermato da recensioni altrettanto favorevoli di
Emilio Cecchi e Giuseppe Antonio Borgese, tanto che
all'inizio della prima guerra mondiale Panzini era diventato
uno dei più noti nuovi arrivati nel mondo delle lettere
italiane. Lo scrittore nato a Senigallia aveva già
cinquant'anni e aveva aspettato a lungo e pazientemente
atteso il meritato riconoscimento.
Lo stesso
1910 che, come abbiamo visto, segnò l'inizio dell'ascesa
delle sue fortune letterarie, fu un anno ricco di
avvenimenti sotto altri aspetti. Per cominciare, fu in
questo stesso anno che Panzini ottenne la libera docenza
dall'Università di Bologna. Considerata la sua età, si
trattava più di una questione di soddisfazione personale e
di prestigio che di un passo dettato da finalità pratiche.
Nello stesso anno il terzo figlio di Panzini, Umbertino, di
dieci anni, morì di difterite. Quanto profondo fosse il
dolore del padre è espresso con toccante semplicità nella
dedica di una delle sue opere successive alla memoria del
ragazzo: "Sum, es, est, dicevi ridendo; adesso più nulla
dici.". Pochi mesi dopo Panzini conobbe personalmente
Renato Serra, con il quale era in contatto epistolare
dall'anno precedente. Nessun'altra amicizia, fatta eccezione
per quella precedente con Brighenti, fu così radicata come
quella che strinse con Serra. Quest'ultimo era più giovane
di Panzini di 19 anni, ma nonostante la disparità di età tra
i due uomini c'erano certe affinità spirituali che rendevano
possibile un'amicizia duratura. Non si trattava, come nel
caso di Costantino Brighenti, di un'amicizia intima e quasi
fraterna. Con Serra era soprattutto un legame intellettuale
a tenere uniti i due uomini. Non è quindi un caso che Serra
sia stato uno dei migliori critici di Panzini e certamente
quello che lo ha capito meglio. La loro amicizia durò fino
alla morte di Serra in guerra, nel 1915.
L’inizio del
secondo decennio del novecento è molto impegnato per Panzini.
Vengono pubblicate nel 1911 il già citato Fiabe della
virtù, dedicato al piccolo scomparso prematuramente, e
nel 1914 Santippe, una pubblicazione meno personale e
più commerciale. Entrambe ottengono un notevole successo.
Nel 1912 morì
la madre di Panzini, Filomena, e questo fu forse un colpo
ancora più pesante della morte del figlio avvenuta due anni
prima. In una lettera a Serra scritta pochi mesi dopo il
lutto, Panzini descrive l'anno 1912 come il peggiore della
sua vita, adducendo come motivo la perdita della madre. In
effetti, l’attaccamento alla figura materna per tutta la
vita dello scrittore era stato estremamente intenso, a volte
quasi al limite del morboso. Questo attaccamento era reso
ancora più forte dal fatto che la madre rappresentava per
Panzini l'ultima testimonianza tangibile di quel passato
amato, di quella concezione della vita che l'autore è
sembrato sempre cercare e rincorrere, ma mai trovare. Il
risultato fu che Panzini si seppellì ancora di più nella
scrittura e continuò a farlo con zelo ininterrotto fino
all'inizio della prima guerra mondiale.
Questo
evento, la guerra, segna un cambiamento definitivo nella
vita e di conseguenza nella scrittura di Panzini. Per un
uomo del suo temperamento, dotato di una tale profondità di
simpatia umana, la guerra rappresentò una catastrofe totale,
l'ultima assurdità di una lunga serie di follie, di azioni
folli da parte di un'umanità apparentemente decisa all'autoaffrancamento.
Il conflitto divenne il punto focale della sua vita e i suoi
scritti vi furono completamente dedicati. Che cosa
rappresentino questi anni di tribolazioni morali nella vita
dell'autore è facilmente intuibile leggendo il suo Diario
sentimentale della guerra, il libro più personale che
abbia mai scritto. Egli stesso spiega così il titolo:
''È detto diario, perché le cose sono quivi scritte quasi
giorno per giorno; è detto sentimentale perché, a differenza
di quelli che scrivono con metodo e con una guida
filosofica, qui non c’è nulla di queste rispettabili cose.
Anzi c’è una grande confusione". Il libro è infatti un
resoconto molto soggettivo degli eventi immediatamente
precedenti la guerra e della guerra stessa. Inizia con una
nota di incredulità. La concezione della vita di Panzini,
abbiamo visto, non era esattamente allegra e la sua stima
dei suoi simili e della società moderna non era molto alta.
Tuttavia, si sentiva fiducioso che non avrebbero più fatto
ricorso alla guerra per risolvere le loro differenze e
divergenze. Quando gli eventi gli diedero torto, la sua
reazione fu violenta contro i governanti e i leader delle
varie nazioni, perché riteneva che avrebbero potuto evitare
il conflitto. Quando quest'ultimo diventa realtà, non esita
a schierarsi. Nel periodo precedente all'entrata in guerra
dell'Italia, Panzini è decisamente favorevole agli Alleati e
non nasconde che vorrebbe che l'Italia entrasse con loro. In
effetti, un sospiro di sollievo sembra percorrere il
Diario quando questo diventa un fatto compiuto. Una
volta che il suo Paese è stato coinvolto, il profondo
patriottismo di Panzini viene a galla e il destino
dell'Italia diventa la sua principale preoccupazione.
La guerra lo
colpì personalmente in molti modi. I suoi due figli furono
chiamati alle armi e uno di loro fu ferito. La sua casa di
Bellaria fu requisita per ospitare i profughi del Nord. Ma
Panzini accettò tutto questo con la calma e la serenità di
un uomo sicuro della rettitudine delle proprie convinzioni.
Nel 1915 il
Circolo Filologico fu chiuso a causa della guerra e il corso
di Panzini fu interrotto. Egli continuò a scrivere, ma ormai
viveva da un bollettino di guerra all'altro, da una voce
all'altra. Leggendo il Diario cominciamo a percepire,
con il passare del tempo, che lo scrittore sta diventando
dubbioso sull'esito della guerra. Verso la fine dell'anno
1916 gli eventi giustificano i timori di Panzini. La
rivoluzione russa è l'ultimo colpo e il diario si
interrompe. Lo riprende nel 1918, quando la guerra è quasi
finita e la vittoria degli Alleati è quasi assicurata. Lo
stesso Panzini fornisce una spiegazione almeno parziale con
le sue parole di riapertura:
"L'ultima
nota di questo Diario è del 28 settembre 1916, cioè v'è
un'interruzione di un anno e mezzo. La rivoluzione russa ha
esercitato una specie di paralisi in me. I molteplici
aspetti assunti da questa rivoluzione e le sue ripercussioni
in Italia mi fanno intravedere troppo paurosi fantasmi che
giustamente sono stati derisi; e i miei amici avevano
ragione dicendo: ‘Sopratutto non occupatevi di politica’. Ma
comunque la civiltà europea rimargina le sue ferite, la
rivoluzione russa mi persiste nella mente come il fatto più
saliente nato dalla guerra."
Altri fattori
entrano in quella che sembra essere una grande crisi nella
vita di Panzini. Quando riprende il suo diario, si trova a
Roma per insegnare all'Istituto Leonardo da Vinci, di sua
volontà, poiché l'anno precedente aveva chiesto e ottenuto
il trasferimento. Non fu facile né conveniente per Panzini
lasciare Milano, dove si era ormai stabilito da più di 29
anni. Aveva 54 anni quando decise di cambiare e non fu certo
spinto da ambizioni, visto che il cambiamento non favorì in
alcun modo la sua carriera. Giuseppe Mormino sostiene nel
suo Alfredo Panzini nelle opere e nella vita, uscito
nel 1939 che Panzini fu indotto a compiere questo passo dal
fatto che non riusciva più a conciliare gli eventi della
guerra con la sua missione di insegnante. Se così fosse,
però, sembrerebbe logico che Panzini abbandonasse
completamente l'insegnamento e non chiedesse semplicemente
un trasferimento. La sua posizione a Roma sarebbe stata
esattamente la stessa, sotto questo aspetto, di quella di
Milano. Un'attenta lettura delle ultime pagine del Diario,
prima della sua interruzione nel 1916, dà una chiara
indicazione di quello che potrebbe essere stato il vero
motivo. Una lettura di questo tipo non lascia dubbi sullo
stato di depressione mentale in cui si trovava Panzini. C'è
anche, inespresso, il desiderio di staccarsi dalle
circostanze, di trovare un nuovo inizio trasferendosi a
Roma. Un completo cambiamento di ambiente avrebbe potuto,
sperava, ripristinare almeno in parte la sua serenità.
La vittoria
alleata, naturalmente, cambiò il suo stato d'animo da
disperato a gioioso. Ma la sua gioia fu guastata dallo
spettacolo delle caotiche condizioni politiche che si
crearono in Italia dopo la fine della guerra. La cosiddetta
"Vittoria mutilata" che secondo lo storico Gaetano Salvemini
fu un autentico mito politico, capace di catalizzare
l'immaginario di parte della società e soprattutto dei
reduci della guerra, ponendo le basi culturali e ideologiche
del fascismo. Nella battaglia politica che ne derivò,
Panzini prese una posizione netta e vi gettò tutte le
risorse della sua scrittura, l'unica arma a sua
disposizione. Possiamo quindi considerare gli anni
successivi come dedicati esclusivamente a questo scopo e i
suoi scritti, con solo una o due eccezioni, riflettono
chiaramente questa tendenza. La menzione di una sola opera
di questo periodo, Il padrone sono io, è sufficiente
a illustrare il punto. Conoscendo la formazione e le
inclinazioni di Panzini, non è difficile immaginare la sua
posizione politica. La sua preoccupazione per il destino
dell'Italia, cioè il suo patriottismo, rimane in primo
piano. Cercò quindi un partito politico che facesse del
patriottismo, e persino del nazionalismo, il suo tema
principale. Né il socialismo né il comunismo, i due partiti
più forti dell'immediato dopoguerra, né la miriade di altri
partiti allora esistenti sembravano soddisfare questa
esigenza primaria. Panzini iniziò quindi con l'opposizione a
tutti i partiti politici e solo con l'avvento del fascismo
prese una posizione definitiva. Questa posizione si limitò a
un sostegno, piuttosto che a una partecipazione attiva;
infatti Panzini non divenne mai membro di questo o,
comunque, di nessun altro partito politico.
Escono, in
rapida successione, Il viaggio di un povero letterato
(1919), Il diavolo nella mia libreria, Io cerco
moglie (1920), Il mondo è rotondo, Signorine
(1921) e, Il padrone sono me (1922) che è il suo
romanzo più famoso di cui si già accennato.
Nel 1924
cambia ancora luogo di insegnamento, andando al liceo
Mariani. Sempre nel 1924 tiene un discorso in onore della
memoria di Giovanni Pascoli, e tra i presenti c’era anche il
quarantenne Benito Mussolini.
Nel 1925
Alfredo Panzini è tra coloro che firmano il manifesto degli
intellettuali fascisti che redatto da Giovanni Gentile,
Mussolini era
stato ben visto da Panzini sin dai tempi del suo
allontanamento dal partito socialista, e nel fascismo lo
scrittore vedeva ciò di cui aveva bisogno l’Italia, un
movimento giovane ed innovativo. Una speranza che non fece
in tempo a vedere completamente infranta dagli accadimenti e
le tragedie della guerra. Nel suo Dizionario scriverà
alla voce fascismo "reazione prevalentemente giovanile
contro la demagogia asservita al fanatismo bolscevico e
tendente alla distruzione della patria". Mentre nel 1928
scriverà "Mussolini, l’uomo più moderno che abbiamo in
Italia"
Nel 1928,
dopo 42 anni di insegnamento, Panzini andò in pensione.
Aveva ormai 65 anni, era una figura letteraria ben nota, in
condizioni confortevoli e con un senso di realizzazione
raggiunto. Ma la vena di Panzini era tutt'altro che
esaurita. Gli ultimi anni della sua vita ricordano gli anni
precedenti a Milano per l'intensa attività letteraria. Nella
sua amata Bellaria, dove visse quasi esclusivamente, salvo
qualche breve visita a Roma, Panzini sembrava aver ritrovato
quella serenità spirituale che aveva ispirato i suoi primi e
migliori libri, e almeno uno di questi ultimi, I giorni
del sole e del grano, è forse una delle cose migliori
che Panzini abbia mai scritto. Le sue visite a Roma, poco
frequenti e non volute, erano dovute all'elezione di Panzini
all'Accademia d'Italia nel 1929, un onore di cui era molto
orgoglioso.
Scrive nel
1931 Il Conte di Cavour, primo libro di carattere
storico. Le sue ultime opere sono la sventurata Irminda
(1932), La bella storia d’Orlando innamorato e poi
furioso (1933), Legione Decima, il libro che più
s’avvicina alla propaganda fascista, Viaggio con la
giovane ebrea (1934), Il ritorno di Bertoldo, e
nel 1937 uscirà il suo ultimo scritto, dal poetico nome
Il bacio di Lesbia.
Ma lasciò
sempre con dolore Bellaria perché, oltre alla scrittura, qui
poté realizzare uno dei desideri più cari della sua vita: la
coltivazione di alcuni appezzamenti di terreno. Li aveva
acquistati dopo la pensione, a Canonica e a Ceola Cornale,
due piccoli centri vicino a Bellaria, e con la sua vecchia e
fedele bicicletta andava dall'uno all'altro e ne seguiva
personalmente la coltivazione nei minimi dettagli. I suoi
ultimi libri riflettono l'immensa soddisfazione che questa
attività gli procurava e lasciano presagire l'inevitabile
fine che presto arriverà. Ma questa attesa è calma e serena,
perché Panzini trova la forza di affrontare la morte in
quella stessa qualità che lo ha sostenuto per tutta la vita,
il suo mai venuto meno senso di "umanità".
Morì il 10
aprile del 1939, lunedì di Pasqua di quell’anno, Alfredo
Panzini muore settantacinquenne a Bellaria e fu sepolto, per
sua volontà, a Canonica.
È sconsolante
l’oblio dove è finito Panzini dopo la fine della Seconda
Guerra Mondiale. Ancora di più per uno scrittore che fra le
due guerre poté vantare una bibliografia critica più ricca di
quella che possa vantare qualunque altro scrittore italiano
e che annovera i nomi più noti della cultura del tempo:
Sibilla Aleramo, Massimo Bontempelli, Federico Tozzi,
Eugenio Montale, Curzio Malaparte, Luigi Russo, Ernesto
Giacomo Parodi, Attilio Momigliano, Pietro Pancrazi, Adriano
Tilgher, Giacomo Debenedetti, Goffredo Bellonci. Giudizi
critici senza distinzioni di carattere estetico o
ideologico. Un oblio ingiusto che ha poca ragione di
essere.
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