Cesare Pavese

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Cesare Pavese - Vita e opere

 

 

Spesso è la fine la prima cosa a essere ricordata di Cesare Pavese, il grande poeta morto suicida poco più che quarantenne, scrittore geniale e inquieto, uomo sensibile, dagli amori infelici. Un finale così tragico aggiunge un significato ulteriore ai suoi romanzi, alle sue poesie, al suo pensiero. Pavese nacque a Santo Stefano Belbo, un piccolo paese della provincia di Cuneo, il 9 settembre del 1908. È considerato uno dei massimi esponenti della letteratura italiana del Novecento. Grazie alle sue traduzioni dall'inglese e all'attività di critico, introdusse, per la prima volta in Italia, una serie di autori contemporanei e non, americani, contribuendo a creare il "mito dell'America". 

 

Introduzione

Pavese è autore di opere famosissime come La luna e i falò, Il mestiere di vivere, Lavorare stanca, La casa in collina e Vincitore del Premio Strega nel 1950 con La bella estate. Amatissimo negli anni '70  del 1900 scrisse meravigliosamente di tematiche esistenziali, di inquietudine, solitudine e incomunicabilità, del contrasto interiore tra il desiderio di stare da solo e il bisogno degli altri.  Temi intramontabili. Fu amato soprattutto dalla generazione degli anni ’70 per quella sua consapevolezza tormentata della fragilità della vita. Fece parte del movimento del Neorealismo, fu scrittore, poeta, traduttore, critico, redattore, sceneggiatore e molto altro. Era cresciuto con ideali liberali, aderì nel 1933 al partito fascista sotto pressione dei familiari per superare le difficoltà economiche e lavorative, in seguito aderì al partito comunista ma non fu mai attivista politico. Chi è interessato al rapporto di Pavese con la politica può approfondire e riconsiderare le sue posizioni alla luce dei suoi scritti, in particolare interessante è in tal senso il volume "Cesare Pavese in Calabria? di Giuseppe Neri. Ebbe una vita sentimentale travagliata, costellata da amori non corrisposti. S'interessò alla letteratura internazionale, soprattutto alla letteratura statunitense e grazie alle sue traduzioni, fece conoscere tanti autori stranieri di grande spessore in Italia.

La famiglia, le origini

Cesare Pavese da giovanePavese nacque nel territorio delle langhe cuneesi, da una famiglia piccolo borghese e rimase sempre molto attaccato e attento alla realtà popolare. Passò un’infanzia tranquilla dal punto di vista economico ma segnata dalle preoccupazioni famigliari e da tragici eventi: il padre Eugenio Pavese (cancelliere presso il Palazzo di Giustizia di Torino) morì di un tumore al cervello e quando il piccolo Cesare aveva solo cinque anni; altri due fratelli e una sorella erano morti prematuramente prima della sua nascita e la madre, Consolina Mestrurini (figlia di una famiglia di ricchi commercianti) soffrì molto di queste perdite. Viene ricordata come una donna di salute cagionevole e di carattere severo. Impossibilitata a prendersi cura del figlio, lo affidò sin dalla nascita, prima  ad una balia del paese di Montecucco e poi, quando lo riprese con sé a Torino, a un'altra balia, Vittoria Scaglione. La madre dovette allevare i due figli (Maria e Cesare) da sola e impartì loro un'educazione rigorosa che contribuì, assieme alle tragedie familiari, ad accentuare il carattere già introverso e instabile di Pavese.

Le sue origini campagnole gli rimasero sempre nel cuore, aspre come la terra in autunno, "terra concimata, di vigne così care alla mia vita" come Pavese stesso amava dire. Trascorse da piccolo le estati con la famiglia nelle langhe del cuneese, immerso nella natura e nel silenzio. La sorella Maria si ammalò di tifo nel 1914 e la famiglia rimase nella casa di Santo Stefano Belbo, così che Cesare frequentò nel paese la prima elementare. L'anno successivo la famiglia si spostò a Torino. Era ancora piccolo quando a seguito della morte del padre, la casa delle Langhe fu venduta. Pavese rimase affezionato alla campagna,  un legame profondo e fecondo nella sua immaginazione, ma visse quasi tutta la sua vita a Torino. Del vivere cittadino scrisse: "La campagna sarà buona per un riposo momentaneo dello spirito, buona per il paesaggio, vederlo e scappar via rapido in un treno elettrico, ma la vita, la vita vera moderna, come la sogno e la temo io è una grande città, piena di frastuono, di fabbriche, di palazzi enormi, di folle e di belle donne (ma tanto non le so avvicinare)".

La vita e gli studi a Torino

A Torino, Pavese scoprì la realtà del mondo operaio e maturò l'impressione che chi lavora sia oppresso da un incubo. Proseguì gli studi a Torino, alle medie presso un istituto di Gesuiti e quindi al liceo classico, dapprima all’istituto Cavour e quindi al Massimo d'Azeglio dal 1923, dove ebbe come professore Augusto Monti, antifascista, scrittore ed educatore che fu figura molto importante per Cesare. Al liceo si appassionò di autori come Guido da Verona, Gabriele D’Annunzio, Alfieri. Nello stesso periodo iniziò a frequentare la biblioteca civica, dove ebbe modo di intrattenersi per scrivere i primi versi.  Sempre mentre frequentava il "D'Azeglio" al giovane Pavese furono presentati Leone Ginzburg e Norberto Bobbio, che presto divennero suoi amici.

La giovinezza fu scossa da due avvenimenti importanti: il primo fu il sentimento provato per una giovane ballerina (Carolina Mignone, detta Milly), per la quale si prese anche una pleurite per averla aspettata sotto la pioggia per oltre sei ore, nel vano tentativo di poterla incontrare; il secondo, l’anno seguente, fu il suicidio di un suo compagno di classe, Elico Baraldi. Tre giorni dopo il suicidio di Baraldi, Pavese, preso dallo sconforto, decise di salire sulla collina e suicidarsi a sua volta. Ma la volontà di vivere era ancora forte e rinunciò. Da questo momento lo spettro del suicidio non lo abbandonerà più.

Negli stessi anni, strinse diverse profonde amicizie, tra cui quella con Tullio Pinelli (che diventerà artista e ceramista) e Mario Sturani (diventato noto scrittore e drammaturgo). A diciotto anni, dopo la maturità, inviò senza successo alcune liriche ad una rivista di poesie. 

L'Università e la passione per la letteratura americana

La sua passione per la letteratura e la scrittura continuò oltre gli studi liceali, e durante gli studi universitari (Facoltà di lettere di Torino), dove iniziò ad entusiasmarsi per la lingua inglese. In quel periodo iniziò a nutrire interesse in particolare per la letteratura americana. L’incontro con quel mondo lontano nacque grazie ai film americani e ai corsi di Letteratura Inglese e di Letterature Comparate, ma anche grazie alla corrispondenza con un giovane musicista italo-americano, Antonio Chiuminatto, conosciuto a Torino. A questo andò ad aggiungersi la sua grande curiosità per quei romanzi che raccontavano vite diverse in slang, la "lingua di tutti i giorni, parlata da tutti, in contrasto con l'inglese colto insegnato nelle istituzioni scolastiche". Pavese divenne traduttore, con i limiti della sua epoca, nella quale non ebbe difatti modo di soggiornare né in America, né tanto meno in Inghilterra (e fare quindi una vera e propria esperienza linguistica diretta). Non c'era solo la letteratura americana ad appassionarlo (Sherwood Anderson, Sinclair Lewis e soprattutto Walt Whitman), di quel mondo tutto lo incuriosiva: il jazz e il cinema, soprattutto quando dal muto iniziò l'esperimento del sonoro. Gli venne rifiutata una borsa di studio alla Columbia di New York.

Conseguì la laurea in lettere nel 1930 con 108/110, con una tesi – mai pubblicata – intitolata Interpretazione della poesia di Walt Whitman, che preparò con il professor Ferdinando Neri (francesista), dopo essere stato rifiutato come laureando da Federico Olivero (specialista di anglistica), il quale definì la sua tesi scandalosamente liberale per l'età fascista. Nel 1931 morì la madre. Da allora condivise la casa materna con la sola sorella Maria. Erano tempi difficili, Pavese non si era iscritto al partito fascista e la sua condizione lavorativa divenne molto precaria.

Pavese traduttore

Nel 1931 uscì una sua traduzione del romanzo di Sinclair Lewis, primo premio Nobel americano, "Il nostro signor Wrenn". Grazie alle sue traduzioni introdusse, per la prima volta in Italia, una serie di autori contemporanei e non, americani. Intanto l'attività sistematica di traduttore si alternava all’insegnamento della lingua inglese. Scrisse per "La Cultura", un articolo sull'Antologia di Spoon River, uno su Melville e uno su O. Henry.  Scrisse in questo periodo la sua prima poesia, inclusa nella raccolta Lavorare stanca, pubblicata successivamente nel 1936.

"Tacere è la nostra virtù./ Qualche nostro antenato dev'essere stato ben solo/ - un grand'uomo tra idioti o un povero folle -/ per insegnare ai suoi tanto silenzio". (da Gli Antenati)

Visse nella casa della sorella Maria, in via Lamarmora a  Torino prima solo con la sorella, poi successivamente negli anni, con lei, il cognato e due nipoti, Cesarina e Maria Luisa, ma era un uomo solitario anche in famiglia. 

Fece diverse supplenze nelle scuole di Bra, Vercelli e Saluzzo e incominciò a dare lezioni private e a insegnare nelle scuole serali. Coltivò il suo profondo interesse per i romanzi di Ernest Hemingway, Herman Melville, Lee Master, Faulkner, Defoe, Dickens, Joyce, soprattutto amava quel linguaggio “antiletterario e popolare" usato da questi autori. La sua passione per tali autori, lo portò a collaborare con importanti editori, come Mondadori, Einaudi e Bompiani. Nel 1932, tradusse Moby Dick di Melville con il titolo Moby Dick o la Balena: la prima edizione è del 1932, ripubblicata poi nel 1941 con leggere varianti. Nella prefazione di questa seconda edizione, scrisse su Melville, "...morì a New York nel 1891, dopo essere passato anche per gli impieghi statali, immiserito, sconosciuto e sdegnoso. Ma queste sue infelicità non ci toccano. È la solita sorte dei grandi, su cui piace ai posteri spargere eloquenza…". Parole che col senno di poi, da lì a dieci anni, suoneranno come un presagio che lo riguardava direttamente.

Pavese tradusse anche Riso nero di Sherwood Anderson e diversi altre opere di autori come Dos Passos, Steinbeck, Gertrud Stein. Erano tutte traduzioni intraprese per "per puro piacere", come disse soprattutto per il romanzo Melville, "non ho bisogno di uno stipendio. Non devo mantenere nessuno. Per me, mi basta un piatto di minestra".

Nel 1933, per poter insegnare nelle scuole pubbliche si arrese alle insistenze della sorella Maria e di suo marito e si iscrisse al partito nazionale fascista, cosa mai perdonata a se stesso e alla sorella a cui scrisse: "A seguire i vostri consigli, e l'avvenire e la carriera e la pace ecc., ho fatto una prima cosa contro la mia coscienza".
Nel 1933 tradusse Il 42º parallelo di John Dos Passos e Ritratto dell'artista da giovane di James Joyce. Ebbe inizio in questo periodo un tormentato rapporto sentimentale con Tina Pizzardo, la "donna dalla voce rauca", alla quale sono dedicati i versi di Incontro. Tina gli spezzerà il cuore, sposandosi con un altro e trattandolo malamente.

Pavese alla Einaudi, l'arresto, il confino, il ritorno

Durante gli studi conobbe diversi intellettuali, tra cui Norberto Bobbio e Leone Ginzburg al liceo e Massimo Mila e Giulio Einaudi successivamente. Einaudi fondò la sua casa editrice e Ginzburg fu messo a dirigerla. Nel 1934 Pavese prese il posto di Ginzburg alla direzione della rivista La Cultura, dove già collaborava, in seguito dell’arresto di quest’ultimo da parte della polizia fascista. La collaborazione con la casa editrice Einaudi, durò un anno e fu  interrotta perché venne egli stesso arrestato dal regime (per un errore). L'accusa era quella di avere rapporti con i militanti del gruppo Giustizia e Libertà. In realtà Pavese subì una perquisizione a casa sua, dove venne rinvenuta una lettera di un giovane, Altiero Spinelli, detenuto per motivi politici in un carcere romano (Spinelli, come è noto, diventò poi un importante fautore della politica comunitaria europea, tanto da essere considerato uno dei padri fondatori della Comunità europea). In realtà le lettere di Spinelli erano per Tina Pizzardo, la donna amata da Pavese, alla quale Pavese permetteva di ricevere al suo indirizzo la corrispondenza. Fatto sta che Pavese venne condannato. Nel 1935, dopo essere stato in carcere a Torino e a Roma, accusato di antifascismo, venne confinato a Brancaleone Calabro, dove iniziò a scrivere il suo diario “Il mestiere di vivere", edito postumo nel 1952. In Calabria conobbe il medico e scrittore Vincenzo de Angelis.

Le delusioni d'amore, Tina e Fernanda

Un anno dopo, alla fine del 1936, ritornò a Torino (l'Italia concesse difatti il condono ai condannati politici), lavorando per Giulio Einaudi come redattore e traduttore (non poteva più lavorare nella scuola a causa del suo presunto passato politico). Nel 1936 vedono poi la pubblicazione, grazie alle edizioni della prestigiosa rivista "Solaria", le poesie di Lavorare stanca. L'opera fu praticamente ignorata. Nello stesso anno, la donna di cui era innamorato, Battistina (detta Tina) Pizzardo annunciò il matrimonio con un altro uomo, e questa notizia – unita alla consapevolezza che i suoi scritti venivano ignorati, generò un periodo di profonda delusione. La sua vita cadde dominata da un profondo senso di solitudine e vuoto. Per guadagnarsi da vivere, continuò l'attività di traduttore, sicuramente più redditizia del cimentarsi in proprio nella scrittura.

La collaborazione con la casa editrice Einaudi si intensificò con le collane "Narratori stranieri tradotti" e "Biblioteca di cultura storica". Tradusse importanti opere, tra cui La storia e le personali esperienze di David Copperfield di Charles Dickens. Nel frattempo, divenne mentore di una giovane ex-allieva, Fernanda Pivano, giovane scrittrice e traduttrice (sua la traduzione della prima edizione italiana della Antologia di Spoon River, di Edgar Lee Master, la cui pubblicazione fu alquanto travagliata, considerando l’ostilità del regime fascista nei confronti della letteratura americana). Anche il rapporto tra Cesare Pavese e Fernanda Pivano fu travagliato: per ben due volte Pavese le propose il matrimonio, il 26 luglio 1940 ed il 10 luglio 1945, ma lei rifiutò. La profonda delusione si trasformò man mano nella consapevolezza di un nuovo fallimento nella vita dello scrittore.

I primi romanzi e la Guerra

Nell’aprile del 1939 completò la stesura di un suo primo romanzo breve, intitolato Memorie di due stagioni, poi cambiato in Il carcere (tratto dalle sue esperienze dirette negli anni 1935-36, il testo indaga il contrasto tra la solitudine del prigioniero e il mondo esterno) e pubblicato nel 1949. Nello stesso anno, scrisse anche Paesi tuoi, pubblicato nel 1941, che raccontava della vita contadina attraverso le vicende di ex galeotti. Nel frattempo, con il ritorno dal confinamento di Leone Ginzburg, andava intensificandosi la sua partecipazione agli incontri del gruppo di "Giustizia e libertà" e di altri gruppi di stampo comunista, riunioni tutte rigorosamente clandestine. In una di queste riunioni conobbe il giornalista di origine sarda Giaime Pintor, che fu anche traduttore e scrittore, nonché fervente antifascista. Nel frattempo, il 10 giugno 1940 l’Italia, a fianco della Germania, dichiarò guerra alla Francia e alla Gran Bretagna. Intanto, Pavese scriveva alcuni dei suoi primi romanzi, La tenda (successivamente intitolato con il nome di La bella estate) pubblicato nel 1949, La spiaggia, pubblicato nel 1942. Nel 1941 pubblicò Paesi tuoi oggi ben conosciuto.

Nel 1943 si trasferì a Roma, per curare alcuni affari editoriali (l’anno prima fu assunto stabilmente da Einaudi) e fu chiamato nell'esercito fascista per svolgere attività militare ma non fu arruolato per problemi di salute. A causa dell'asma trascorse sei mesi in un ospedale, fu riformato, e rientrò poi a Torino, già occupata dai tedeschi. In città non trovò più i suoi amici, erano partiti per combattere come partigiani. Alla fina clandestina dei partigiani preferì la fuga. Fuggì, sulle colline intorno a Serralunga di Crea, vicino a Casale Monferrato, accolto dalla sorella Maria. Il ricordo di questo periodo è descritto ne "La casa in collina". Intanto, la casa editrice per cui lavorava veniva occupata da un commissariato del regime della Repubblica di Salò

Per due anni, fino al 1945, si tenne occupato insegnando presso il Convitto dei padri somaschi a Casale Monferrato, dove aveva precedentemente trovato ospitalità per sfuggire ad una retata. Nel 1944, all’età di 34 anni, morì Leone Ginzburg, ucciso sotto tortura dai tedeschi nel carcere romano di Regina Coeli. Non fu l’unico amico a morire in guerra, la stessa sorte capitò anche a Luigi Capriolo, Giaime Pintor, Gaspare Pajetta, un ex allievo di soli 18 anni.

Finita la guerra, tormentato dal rimorso per non aver partecipato in modo attivo, come gli amici morti, nel lottare contro il fascismo, aderì al Partito Comunista Italiano, collaborando al giornale del partito, L'Unità. In questo periodo conobbe Italo Calvino, con cui collaborò in Einaudi. Fu questo un periodo molto prolifero per lo scrittore, iniziò a scrivere Il compagno e nel 1945 si trasferì nuovamente a Roma per istituire una sede dell'Einaudi nella Capitale. Lasciare l'ambiente torinese, gli amici e soprattutto la nuova attività politica, lo fece ricadere nella malinconia.

Nel 1990 il critico letterario e scrittore Lorenzo Mondo porto alla luce i taccuini segreti di Pavese (Taccuino 1942-43) da cui trasparivano apprezzamenti nei confronti del fascismo, ma anche del nazismo. Fu uno scandalo e gran parte della cultura comunista insorse. Il giornalista del quotidiano l'Unità Davide Lajolo, dopo la morte dello scrittore riporto che Pavese gli aveva riferito, forse in modo scherzoso che per lui era troppo difficile fare il comunista: "Sono un tipo poco socievole per essere un buon comunista; devo diventare un uomo collettivo non solo seguire collettivamente."

Roma, Bianca Garufi e la psicoanalisi

A Roma conobbe Bianca Garufi, collaboratrice nella casa editrice, di cui si innamorò, non corrisposto; tra la Garufi, Pavese e Natalia Ginzburg, moglie del defunto Leone, si instaurò un sodalizio intellettuale, spinto soprattutto dalla curiosità di Pavese per la psicoanalisi, materia che la Garufi aveva iniziato a studiare. Seguirono le sue opere di maggior successo.

Nel 1946 scrisse Fuoco grande, romanzo incompiuto. Nel 1947 iniziò I dialoghi con Leucò e Il compagno. Nello stesso anno diede avvio alla Collezione di studi religiosi, etnologici e psicologici, detta anche "Collana viola", edita da Einaudi fino al 1956, curata da Pavese insieme ad Ernesto de Martino (una serie di 29 opere, tra cui L’io e l’Inconscio 1948, di Carl Gustav Jung e Il ramo d'oro. Studio sulla magia e la religione dell'antropologo James Frazer).

Nel 1948 scrisse La casa in collina, che racconta di un professore di Torino rifugiatosi nella sua casa in collina alla ricerca di solitudine, sullo sfondo delle attività di un gruppo di partigiani, nei mesi drammatici degli scontri, fino alla caduta di Mussolini, con i tedeschi, mentre le forze anglo-americane bombardano la penisola. Un romanzo autobiografico, che pone in evidenza il conflitto interiore di Pavese, sospeso tra il ritiro in solitudine e la responsabilità individuale all'interno della società contro le ingiustizie.

"Ora che ho visto cos'è la guerra, cos'è la guerra civile, so che tutti, se un giorno finisse, dovrebbero chiedersi: - E dei caduti che facciamo? Perché sono morti? - Io non saprei cosa rispondere. Non adesso, almeno. Né mi pare che gli altri lo sappiano. Forse lo sanno unicamente i morti, e soltanto per loro la guerra è finita davvero."

I romanzi, i premi, Constance

Nell'estate del 1948, gli venne assegnato un premio letterario, premio Salento, ma egli chiese esplicitamente di essere dispensato da qualsiasi premio, anche futuro. Nello stesso anno uscì Prima che il gallo canti. Seguirono nel 1949, Il diavolo sulle colline, che racconta di tre amici torinesi e dell’incontro con un personaggio dedito ad una vita fatta di esperienze distruttive, e Tra donne sole, una storia di donne alle prese con la modernità dell’epoca post-bellica. Seguirà, nel 1950 La luna e i falò, probabilmente la sua opera più celebre, che nuovamente affronta il tema dell’attivismo partigiano e la distruzione portata dalla guerra. Fu la sua ultima opera, tradotta in inglese nel 1952 con il nome di The Moon and the Bonfires da Louise Sinclair.

Nell’inverno a cavallo tra il 1949 ed il 1950 conobbe a Roma Constance Dowiling, e se ne innamorò, nuovamente non ricambiato. La donna lo frequentò solo a titolo di amicizia, in quanto innamorata a sua volta dell’attore Andrea Checchi. Poi ripartì per l’America, in cerca di fortuna come attrice. Amareggiato e infelice, per l’ennesimo fallimento sentimentale, per la disillusione politica e consapevole della caducità della vita, scrisse alcune delle sue liriche più famose, come la celebre Verrà la morte e avrà i tuoi occhi (pubblicata postuma nel 1951 dove amore e morte convivono e la morte ha gli occhi della donna che il poeta ha amato senza essere corrisposto).

Nel giugno del 1950 ricevette il Premio Strega per La bella estate, accompagnato da Doris, la sorella di Costance. Nell’estate dello stesso anno, ebbe una breve relazione con la giovanissima Romilda Bollati, sorella dell’editore Giulio, durante una villeggiatura in Liguria.

Gli amori sfortunati

Il primo sentimento frustrato fu quello che il diciassettenne Pavese provò per la la giovane ballerina Carolina Mignone, detta Milly, per la quale si prese anche una pleurite, dopo averla aspettata invano a un appuntamento, restando sotto la pioggia per oltre sei ore.  La canzone “Alice? di Francesco de Gregori fa un riferimento abbastanza esplicito allo scrittore, quanto recita: “… e Cesare perduto nella pioggia sta aspettando da sei ore il suo amore ballerina, e rimane lì a bagnarsi ancora un po’, e il tram di mezzanotte se ne va, ma tutto questo Alice non lo sa…?.

Tina Pizzardo, passando poi per Fernanda Pivano (alla quale Pavese dedicò alcune poesie come  Mattino, Estate e Notturno) a cui chiederà due volte, invano, di sposarsi, e arrivando infine a Constance, il rapporto di Cesare Pavese con le donne è la storia di un amore non corrisposto. Per sfuggire a questo dolore, a questa maledizione, Pavese si rifugiò nel mito, nel ritorno alle origini.  Romilda Bollati, detta Pierina, fu l’ultima storia d’amore dello scrittore, aveva 18 anni e iniziò la frequentazione di Pavese mentre era in vacanza a Bocca di Magra.

Per lei, per Pierina, furono questi tristi pensieri: "Posso dirti, amore, che non mi sono mai svegliato con una donna mia al fianco, che chi ho amato non mi ha mai preso sul serio, e che ignoro lo sguardo di riconoscenza che una donna rivolge a un uomo".

E ancora "(...) Tu sei giovane, incredibilmente giovane, sei quello che ero io a vent’otto anni quando, risoluto di uccidermi per non so che delusione, non lo feci – ero curioso dell’indomani, curioso di me stesso – la vita mi era parsa orribile ma trovavo ancora interessante me stesso. Ora è l’inverso: so che la vita è stupenda ma che io ne sono tagliato fuori, per merito tutto mio, e che questa è una futile tragedia (...)".

Gli ultimi tempi

Cesare Pavese - Vita e opereNegli ultimi mesi della sua vita, Pavese visitò spesso i luoghi delle sue memorie d’infanzia, le Langhe, la zona in cui era nato e dove continuava a trovare grande conforto. Logorato dalle frustrazioni amorose e dal rimorso per non aver partecipato alla Resistenza, sempre più in preda alla depressione, Pavese si suicidò il 27 agosto 1950, nella stanza di un albergo a Torino con un'overdose di barbiturici (28 dosi di sonnifero che si era procurato in diverse farmacie). In quegli ultimi giorni era rimasto solo in città per la breve lontananza della sorella e delle due nipoti che si erano recate in campagna, e aveva preferito lasciare la sua casa di Via Lamarmora 35, che si era fatta deserta, per cercare ospitalità all'Albero Roma. Sere prima aveva fatto visita ai redattori di un giornale cittadino e più tardi si era trattenuto con loro e con altri giornalisti in un locale del centro. Come spesso in questi casi, senza lasciare trapelare nulla dei suoi funesti propositi. Fu un cameriere preoccupato a sfondare la porta della sua stanza e a trovarlo. Pavese giaceva sul letto, vestito, sul comodino c'erano sedici bustine aperte di barbiturici. Pochi giorni prima della sua morte aveva ricevuto un compenso di 30 mila lire per un suo scritto, e di queste ne mandò 5000 alla sorella perché ne facesse dono a un prete della località di campagna in cui si trovava. Una fotografia di Constance Dowling si trovava dentro il suo portafogli, tra le cose care.

Solo un paio di mesi prima Pavese era a Roma dove aveva vinto il Premio Strega con La bella estate, ma neppure la consapevolezza della sua grandezza di scrittore aveva potuto salvarlo. 

Sulla prima pagina di una copia de “I dialoghi con Leucò?, una raccolta di racconti in forma di dialogo tra personaggi della mitologia greca, scrisse: "Perdono a tutti e a tutti chiedo perdono. Va bene? Non fate troppi pettegolezzi" prevedendo il clamore che il suo gesto avrebbe suscitato. È stato sepolto nel cimitero di Santo Stefano Belbo.

Natalia Ginzburg, moglie di Leone, nel 1957 su Radiocorriere, lo ricordava così:

"...misurava la città col suo lungo passo, testardo e solitario; si rintanava nei caffé più appartati e fumosi, si liberava svelto del cappotto e del cappello, ma teneva buttata attorno al collo la sua brutta sciarpetta chiara; si attorcigliava intorno alle dita le lunghe ciocche dei suoi capelli castani, e poi si spettinava all’improvviso con mossa fulminea. Riempiva fogli e fogli della sua calligrafia larga e rapida, cancellando con furia, e in quei fogli, non meno che nei suoi romanzi o nei suoi versi, celebrava il fascino discreto della sua città e del suo testardo mestiere".

Ne Il mestiere di vivere, lo scrittore narra esplicitamente le tappe del suo difficile rapporto con la vita, e soprattutto la sua incapacità d'amare senza un furore autodistruttivo. Nell'annotazione finale scrive "Sembrava facile, a pensarci. Eppure donnette l'hanno fatto. Ci vuole umiltà, non orgoglio. Tutto questo fa schifo. Non parole. Un gesto. Non scriverò più." Insieme con l'annotazione che quasi immediatamente precede: "Nel mio mestiere dunque sono re. In dieci anni ho fatto tutto". Cesare Pavese se ne andò a sol quarantadue anni, quando pensava di aver già dato tutto quel che poteva dare, ovvero molto, moltissimo.
 

Opere

Poesie di Cesare Pavese

Lavorare stanca, Firenze, Solaria, 1936 successivamente ampliata con altre poesie Torino, Einaudi, 1943.

La terra e la morte, in "Le tre Venezie" 1947.

Verrà la morte e avrà i tuoi occhi, Torino, Einaudi, 1951 (poesie inedite oltre a quelle già contenute in La terra e La morte.

Poesie del disamore e altre poesie disperse, Torino, Einaudi, 1962

Poesie edite e inedite, a cura di Italo Calvino, Torino, Einaudi, 1962

8 poesie inedite e quattro lettere a un'amica (1928-1929), Milano, All'insegna del pesce d'oro, 1964.

Poesie giovanili, 1923-30, Torino, Einaudi, 1989.

Romanzi e racconti

Paesi tuoi, Torino, Einaudi, 1941.

Prima che il gallo canti, Torino, Einaudi, 1948 al suo interno i romanzi La Casa in collina e Il Carcere.

La spiaggia, romanzo breve contenuto in "Lettere d'oggi" 1942 e poi in volume pubblicato da Einaudi, 1956

Feria d'agosto, racconti pubblicati da Einaudi, 1946.

Dialoghi con Leucò, Torino, Einaudi, 1947

Il compagno, Torino, Einaudi, 1947

La casa in collina, Torino, Einaudi, 1948. 

La bella estate, Torino, Einaudi, 1949 al suo interno si trovano i romanzi Tra donne sole, La bella estate e Il diavolo sulle colline

La luna e i falò, Torino, Einaudi, 1950.

Notte di festa, Torino, Einaudi, 1953.

Fuoco grande, scritto incompiuto redatto a due mani con l'amata Bianca Garufi, pubblicato postumo da  Einaudi, 1959.

Ciau Masino, Torino, Einaudi, 1968.

Lotte di giovani e altri racconti (1925-1930), Torino, Einaudi, 1993

Saggi e diari

La letteratura americana e altri saggi, Torino, Einaudi, 1951.

Il mestiere di vivere. Diario 1935-1950, Torino, Einaudi, 1952.

Interpretazione della poesia di Walt Whitman. Tesi di laurea, 1930, a cura di Valerio Magrelli, Torino, Einaudi, 2006.

Traduzioni

Traduzioni di Sinclair Lewis, Il nostro signor Wrenn, Herman Melville, Moby Dick o La balena e Benito Cereno, Torino, Sherwood Anderson, Riso nero, James Joyce, Dedalus. Ritratto dell'artista da giovane, John Dos Passos, Il 42º parallelo, Un mucchio di quattrini, John Steinbeck, Uomini e topi, Gertrude Stein, Autobiografia di Alice Toklas e Tre esistenze, Daniel Defoe, Fortune e sfortune della famosa Moll Flanders, Charles Dickens, David Copperfield, Christopher Dawson, La formazione dell'unità europea. Dal secolo V al secolo XI, Torino, Einaudi, 1939, George Macaulay Trevelyan, La rivoluzione inglese del 1688-89, Christopher Morley, Il cavallo di Troia, William Faulkner, Il borgo, Robert Henriques, Capitano Smith, La Teogonia di Esiodo e Tre Inni omerici, Percy Bysshe Shelley, Prometeo slegato, Quinto Orazio Flacco, Le Odi.

 

 

Frasi celebri e aforismi di Cesare Pavese

1. Non è che accadano a ciascuno cose secondo un destino, ma le cose accadute ciascuno le interpreta, se ne ha la forza, disponendole secondo un senso – vale a dire, un destino. (Il mestiere di vivere)


2. Aver coraggio e aver ragione: i due poli della storia. E della vita. L’uno, in genere, nega l’altro. (Il mestiere di vivere)


3. C’è un solo piacere, quello di essere vivi, tutto il resto è miseria. (Il mestiere di vivere)


4. Capii che Nuto aveva davvero ragione quando diceva che vivere in un buco o in un palazzo è lostesso, che il sangue è rosso dappertutto, e tutti vogliono esser ricchi, innamorati, far fortuna. (La Luna e i falò)


5. Certo, avere una donna che ti aspetta, che dormirà con te, è come il tepore di qualcosa che dovrai dire, e ti scalda e t’accompagna e ti fa vivere. (Il mestiere di vivere)


6. È bello girare la collina insieme al cane: mentre si cammina, lui fiuta e riconosce per noi le radici, le tane, le forre, le vite nascoste, e moltiplica in noi il piacere delle scoperte. (La casa in collina)


7. È bello scrivere perché riunisce le due gioie: parlare da solo e parlare a una folla. (Il mestiere di vivere)


8. È bello svegliarsi e non farsi illusioni. Ci si sente liberi e responsabili. Una forza tremenda è in noi, la libertà. Si può toccare l’innocenza. Si è disposti a soffrire. (Il diavolo sulle colline)


9. Guardare certi morti è umiliante. Non sono più faccenda altrui; non ci si sente capitati sul posto per caso. Si ha l’impressione che lo stesso destino che ha messo a terra quei corpi, tenga noialtri inchiodati a vederli, a riempircene gli occhi. Non è paura, non è la solita viltà. Ci si sente umiliati perché si capisce – si tocca con gli occhi – che al posto del morto potremmo essere noi: non ci sarebbe differenza, e se viviamo lo dobbiamo al cadavere imbrattato. Per questo ogni guerra è una guerra civile: ogni caduto somiglia a chi resta, e gliene chiede ragione. (La casa in collina)


10. Io non credo che possa finire. Ora che ho visto cos’è guerra, cos’è guerra civile, so che tutti, se un giorno finisse, dovrebbero chiedersi: – E dei caduti che facciamo? perché sono morti? – Io non saprei cosa rispondere. Non adesso, almeno. Né mi pare che gli altri lo sappiano. Forse lo sanno unicamente i morti, e soltanto per loro la guerra è finita davvero. (La casa in collina)


11. Immortale è chi accetta l’istante. Chi non conosce più un domani. (Dialoghi con Leucò)


12. In fondo, l’unica ragione perché si pensa sempre al proprio io è che col nostro io dobbiamo stare più continuamente che non chiunque altro. (Il mestiere di vivere)


13. L’amore ha la virtù di denudare non i due amanti l’uno di fronte all’altro, ma ciascuno dei due davanti a sé. (Il mestiere di vivere)


14. L’offesa più atroce che si può fare a un uomo è negargli che soffra. (Il mestiere di vivere)


15. L’unica gioia al mondo è cominciare. È bello vivere perché vivere è cominciare, sempre, ad ogni istante. (Il mestiere di vivere)


16. La fantasia umana è immensamente più povera della realtà. (Il mestiere di vivere)


17. La forza dell’indifferenza! − È quella che ha permesso alle pietre di durare immutate per milioni di anni. (Il mestiere di vivere)


18. La letteratura è una difesa contro le offese della vita. (Il mestiere di vivere)


19. La ricchezza della vita è fatta di ricordi, dimenticati. (Il mestiere di vivere)


20. La vera confidenza è sapere quel che desidera un altro, e quando piacciono le stesse cose una persona non dà più soggezione. (Il diavolo sulle colline)


21. Leggendo non cerchiamo idee nuove, ma pensieri già da noi pensati, che acquistano sulla pagina un suggello di conferma. Ci colpiscono degli altri le parole che risuonano in una zona già nostra – che già viviamo – e facendola vibrare ci permettono di cogliere nuovi spunti dentro di noi. (Il mestiere di vivere)


22. Niente è più inabitabile di un posto dove siamo stati felici. (La spiaggia)


23. Non ci si libera di una cosa evitandola, ma soltanto attraversandola. (Il mestiere di vivere)


24. Aspettare è ancora un’occupazione. È non aspettar niente che è terribile. (Il mestiere di vivere)


25. Non si ricordano i giorni, si ricordano gli attimi. (Il mestiere di vivere)


26. Nuto, che non se n’era mai andato veramente, voleva ancora capire il mondo, cambiare le cose, rompere le stagioni. O forse no, credeva sempre nella luna. Ma io, che non credevo nella luna, sapevo che tutto sommato soltanto le stagioni contano, e le stagioni sono quelle che ti hanno fatto le ossa, che hai mangiato quand’eri ragazzo. (La Luna e i falò)


27. Pensai a quanti luoghi ci sono nel mondo che appartengono così a qualcuno, che qualcuno ha nel sangue e nessun altro li sa. (Il diavolo sulle colline)


28. Per disprezzare il denaro bisogna appunto averne, e molto. (Il mestiere di vivere)


29. Perché – quando si è sbagliato – si dice «un’altra volta saprò come fare», quando si dovrebbe dire «un’altra volta so già come farò»? (Il mestiere di vivere)


30. Quale mondo giaccia al di là di questo mare non so, ma ogni mare ha un’altra riva, e arriverò. (Il mestiere di vivere)


31. Quando le donne parlano ridendo è come un uomo che vi prende da parte per darvi un consiglio. (Paesi tuoi)
32. Queste notti moderne, – disse Pieretto. – Sono vecchie come il mondo. (Il diavolo sulle colline)


33. Sciocco addolorarsi per la perdita di una compagnia: quella persona potevamo non incontrarla mai, quindi possiamo farne a meno. (Il mestiere di vivere)


34. Sei come un ragazzo, un ragazzo superbo. Di quei ragazzi che gli tocca una disgrazia, gli manca qualcosa, ma loro non vogliono che sia detta, che si sappia che soffrono. Per questo fai pena. Quando parli con gli altri sei sempre cattivo, maligno. Tu hai paura, Corrado. (La casa in collina)


35. Sorridere è vivere come un’onda o una foglia, accettando la sorte. È morire a una forma e rinascere a un’altra. È accettare, accettare, se stessi e il destino. (Dialoghi con Leucò)


36. Tutto il problema della vita è dunque questo: come rompere la propria solitudine, come comunicare con altri. (Il mestiere di vivere)


37. Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti. (La luna e i falò)


38. Viene un giorno che per chi ci ha perseguitato proviamo soltanto indifferenza, stanchezza della sua stupidità. Allora perdoniamo. (Il mestiere di vivere)


39. Vivere tra la gente è sentirsi foglia sbattuta. Viene il bisogno d’isolarsi, di sfuggire al determinismo di tutte quelle palle da biliardo. (Il mestiere di vivere)
 

 

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