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Cesare
Pavese - Vita e opere
Spesso è la fine
la prima cosa a essere ricordata di Cesare Pavese,
il grande poeta morto suicida poco più che
quarantenne, scrittore geniale e inquieto, uomo
sensibile, dagli amori infelici. Un finale così
tragico aggiunge un significato ulteriore ai suoi
romanzi, alle sue poesie, al suo pensiero.
Pavese
nacque a Santo Stefano Belbo, un piccolo paese della
provincia di
Cuneo,
il 9 settembre del 1908. È considerato uno dei massimi esponenti della
letteratura italiana del Novecento. Grazie alle sue traduzioni
dall'inglese e all'attività di critico, introdusse, per la
prima volta in Italia, una serie di autori contemporanei e non,
americani, contribuendo a creare il "mito
dell'America".
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Introduzione
Pavese è autore di opere famosissime come
La luna e i falò, Il mestiere di vivere,
Lavorare stanca, La casa in collina
e Vincitore del Premio Strega nel 1950
con La bella estate. Amatissimo negli
anni '70 del 1900 scrisse meravigliosamente di tematiche
esistenziali, di inquietudine, solitudine e incomunicabilità,
del contrasto interiore tra il desiderio di stare da solo e il
bisogno degli altri. Temi intramontabili.
Fu amato soprattutto dalla generazione degli anni ’70 per
quella sua consapevolezza tormentata della fragilità della vita.
Fece parte del movimento del
Neorealismo, fu scrittore, poeta,
traduttore, critico, redattore, sceneggiatore e molto altro. Era
cresciuto
con ideali liberali, aderì nel 1933 al partito fascista sotto
pressione dei familiari per superare le difficoltà economiche e
lavorative, in seguito aderì al partito comunista ma non fu mai
attivista politico. Chi è interessato al rapporto di Pavese con
la politica può approfondire e riconsiderare le sue posizioni
alla luce dei suoi scritti, in particolare interessante è in tal
senso il volume "Cesare Pavese in Calabria? di Giuseppe Neri.
Ebbe una vita sentimentale travagliata, costellata da amori non
corrisposti. S'interessò alla letteratura internazionale,
soprattutto alla letteratura statunitense e grazie alle sue
traduzioni, fece conoscere tanti autori stranieri di grande
spessore in Italia.
La
famiglia, le origini
Pavese nacque nel territorio delle
langhe cuneesi, da una famiglia piccolo borghese e rimase
sempre molto attaccato e attento alla realtà popolare. Passò un’infanzia
tranquilla dal punto di vista economico ma segnata dalle preoccupazioni famigliari e
da tragici eventi: il padre Eugenio Pavese
(cancelliere presso il Palazzo di Giustizia di Torino) morì di
un tumore al cervello e quando il piccolo Cesare aveva solo cinque
anni; altri due fratelli e una sorella erano morti prematuramente
prima della sua nascita e la madre, Consolina Mestrurini (figlia di una famiglia di ricchi commercianti)
soffrì molto di queste perdite. Viene ricordata come una donna di salute cagionevole e
di carattere severo. Impossibilitata a prendersi cura del figlio,
lo affidò sin
dalla nascita, prima ad una balia del paese di Montecucco
e poi, quando lo riprese con sé a Torino, a un'altra balia,
Vittoria Scaglione. La madre dovette allevare i due figli (Maria
e Cesare) da sola e impartì loro un'educazione rigorosa che
contribuì, assieme alle tragedie familiari, ad accentuare il
carattere già introverso e instabile di Pavese.
Le sue origini campagnole gli rimasero sempre nel cuore, aspre come la terra in autunno, "terra
concimata, di vigne così care alla mia vita" come
Pavese
stesso amava dire. Trascorse da piccolo le estati con la famiglia nelle langhe del cuneese,
immerso nella natura e nel silenzio. La sorella Maria si ammalò
di tifo nel 1914 e la famiglia rimase nella casa di Santo
Stefano Belbo, così che Cesare frequentò nel paese la prima
elementare. L'anno successivo la famiglia si spostò a Torino.
Era ancora piccolo quando a seguito della morte del padre, la
casa delle Langhe fu venduta. Pavese rimase affezionato alla
campagna, un legame profondo e fecondo nella sua
immaginazione, ma visse quasi tutta la sua vita a
Torino.
Del vivere
cittadino scrisse: "La campagna sarà
buona per un riposo momentaneo dello spirito, buona per il
paesaggio, vederlo e scappar via rapido in un treno elettrico,
ma la vita, la vita vera moderna, come la sogno e la temo io è
una grande città, piena di frastuono, di fabbriche, di palazzi
enormi, di folle e di belle donne (ma tanto non le so
avvicinare)".
La vita e gli studi a
Torino
A Torino, Pavese scoprì la realtà del mondo operaio e maturò
l'impressione che chi lavora sia oppresso da un incubo. Proseguì
gli studi a Torino, alle medie
presso un istituto di Gesuiti e quindi al liceo classico,
dapprima all’istituto Cavour e quindi al Massimo d'Azeglio
dal 1923, dove
ebbe come professore Augusto Monti, antifascista,
scrittore ed educatore che fu figura molto importante per Cesare. Al liceo si appassionò di autori come
Guido da Verona, Gabriele D’Annunzio, Alfieri.
Nello stesso periodo iniziò a frequentare la biblioteca civica,
dove ebbe modo di intrattenersi per scrivere i primi versi.
Sempre mentre frequentava il "D'Azeglio" al giovane Pavese
furono presentati Leone Ginzburg e Norberto Bobbio, che presto
divennero suoi amici.
La giovinezza fu scossa da due avvenimenti importanti: il primo fu il
sentimento provato per una giovane ballerina (Carolina
Mignone, detta Milly), per la quale si prese anche una
pleurite per averla aspettata sotto la pioggia per oltre sei
ore, nel vano tentativo di poterla incontrare; il secondo,
l’anno seguente, fu il suicidio di un suo compagno di classe,
Elico Baraldi. Tre giorni dopo il suicidio di Baraldi,
Pavese, preso dallo sconforto, decise di salire sulla collina e
suicidarsi a sua volta. Ma la volontà di vivere era ancora forte
e rinunciò. Da questo momento lo spettro del suicidio non lo
abbandonerà più.
Negli stessi anni, strinse diverse profonde
amicizie, tra cui quella con Tullio Pinelli (che
diventerà artista e ceramista) e Mario Sturani (diventato
noto scrittore e drammaturgo). A diciotto anni, dopo la
maturità, inviò senza successo alcune liriche ad una rivista di
poesie.
L'Università e la passione per la letteratura americana
La sua passione per la
letteratura e la scrittura continuò oltre gli studi liceali, e
durante gli studi universitari (Facoltà di lettere di Torino),
dove iniziò ad entusiasmarsi per la lingua inglese. In quel
periodo iniziò a nutrire interesse in particolare per la
letteratura americana. L’incontro con quel mondo lontano
nacque grazie ai film americani e ai corsi di Letteratura
Inglese e di Letterature Comparate, ma anche grazie alla
corrispondenza con un giovane musicista italo-americano,
Antonio Chiuminatto, conosciuto a Torino. A questo andò ad
aggiungersi la sua grande curiosità per quei romanzi che
raccontavano vite diverse in slang, la "lingua di tutti i
giorni, parlata da tutti, in contrasto con l'inglese colto
insegnato nelle istituzioni scolastiche". Pavese divenne
traduttore, con i limiti della sua epoca, nella quale non ebbe
difatti modo
di soggiornare né in America, né tanto meno in Inghilterra (e
fare quindi una vera e propria esperienza linguistica diretta).
Non c'era solo la letteratura americana ad appassionarlo (Sherwood
Anderson, Sinclair Lewis e soprattutto Walt Whitman), di
quel mondo tutto lo incuriosiva: il jazz e il cinema,
soprattutto quando dal muto iniziò l'esperimento del sonoro. Gli
venne rifiutata una borsa di studio alla Columbia di New York.
Conseguì la laurea in lettere nel 1930 con 108/110, con una
tesi – mai pubblicata – intitolata Interpretazione della
poesia di Walt Whitman, che preparò con il professor Ferdinando Neri
(francesista), dopo essere stato rifiutato come laureando da
Federico Olivero (specialista di anglistica), il quale
definì la sua tesi scandalosamente liberale per l'età
fascista. Nel 1931 morì la madre. Da
allora condivise la casa materna con la sola sorella Maria.
Erano tempi difficili, Pavese non si era iscritto al
partito fascista e la sua condizione lavorativa divenne molto
precaria.
Pavese
traduttore
Nel 1931 uscì una sua
traduzione del romanzo di Sinclair Lewis, primo
premio Nobel americano, "Il nostro signor Wrenn".
Grazie alle sue traduzioni introdusse, per la
prima volta in Italia, una serie di autori contemporanei e non,
americani. Intanto l'attività sistematica di traduttore si
alternava
all’insegnamento della lingua inglese. Scrisse per "La Cultura",
un articolo sull'Antologia di Spoon River, uno su Melville e uno
su O. Henry. Scrisse in questo periodo la sua prima
poesia, inclusa nella raccolta Lavorare stanca,
pubblicata successivamente nel 1936.
"Tacere è la nostra virtù./ Qualche nostro antenato dev'essere
stato ben solo/ - un grand'uomo tra idioti o un povero folle -/
per insegnare ai suoi tanto silenzio". (da Gli Antenati)
Visse nella casa della sorella Maria, in via Lamarmora a
Torino prima solo con la sorella, poi successivamente negli
anni, con lei, il cognato e due nipoti, Cesarina e Maria Luisa,
ma era un uomo solitario anche in famiglia.
Fece diverse supplenze nelle scuole di Bra, Vercelli e Saluzzo e
incominciò a dare lezioni private e a insegnare nelle scuole
serali. Coltivò il suo profondo
interesse per i romanzi di Ernest Hemingway, Herman
Melville, Lee Master, Faulkner, Defoe,
Dickens, Joyce, soprattutto amava quel linguaggio
“antiletterario e popolare" usato da questi autori. La sua
passione per tali autori,
lo portò a collaborare con importanti editori, come Mondadori, Einaudi
e Bompiani. Nel 1932, tradusse Moby
Dick di Melville con il titolo Moby Dick o la Balena:
la prima edizione è del 1932, ripubblicata poi nel 1941 con
leggere varianti. Nella prefazione di questa seconda edizione,
scrisse su Melville, "...morì a New York nel 1891, dopo
essere passato anche per gli impieghi statali, immiserito,
sconosciuto e sdegnoso. Ma queste sue infelicità non ci toccano.
È la solita sorte dei grandi, su cui piace ai posteri spargere
eloquenza…". Parole che col senno di poi, da lì a dieci
anni, suoneranno come un presagio che lo riguardava direttamente.
Pavese tradusse anche
Riso nero di Sherwood Anderson e diversi altre
opere di autori come Dos Passos, Steinbeck,
Gertrud Stein. Erano tutte traduzioni intraprese per
"per puro piacere", come disse soprattutto per il romanzo
Melville, "non ho bisogno di uno stipendio. Non devo
mantenere nessuno. Per me, mi basta un piatto di minestra".
Nel 1933, per poter insegnare nelle scuole pubbliche si arrese
alle insistenze della sorella Maria e di suo marito e si
iscrisse al partito nazionale fascista, cosa mai perdonata a se
stesso e alla sorella a cui scrisse: "A seguire i vostri
consigli, e l'avvenire e la carriera e la pace ecc., ho fatto
una prima cosa contro la mia coscienza".
Nel 1933 tradusse Il 42º parallelo di John Dos
Passos e Ritratto dell'artista da giovane di James
Joyce. Ebbe inizio in questo periodo un tormentato rapporto
sentimentale con Tina Pizzardo, la "donna dalla voce rauca",
alla quale sono dedicati i versi di Incontro. Tina gli
spezzerà il cuore, sposandosi con un altro e trattandolo
malamente.
Pavese alla Einaudi,
l'arresto, il confino, il ritorno
Durante gli studi
conobbe diversi intellettuali, tra cui Norberto Bobbio e
Leone Ginzburg al liceo e Massimo Mila e Giulio Einaudi
successivamente.
Einaudi fondò la sua casa editrice e Ginzburg fu messo a
dirigerla. Nel 1934 Pavese prese il posto
di Ginzburg alla direzione della rivista La Cultura,
dove già collaborava, in seguito dell’arresto
di quest’ultimo da parte della polizia fascista. La
collaborazione con la casa editrice Einaudi, durò un anno
e fu interrotta perché venne egli stesso arrestato dal regime
(per un errore). L'accusa era quella di avere rapporti con i
militanti del gruppo Giustizia e Libertà. In realtà
Pavese subì
una perquisizione a casa sua, dove venne rinvenuta una lettera
di un giovane, Altiero Spinelli, detenuto per motivi
politici in un carcere romano (Spinelli, come è noto, diventò
poi un importante fautore della politica comunitaria europea,
tanto da essere considerato uno dei padri fondatori della
Comunità europea). In realtà le lettere di Spinelli erano per
Tina Pizzardo, la donna amata da Pavese, alla quale Pavese
permetteva di ricevere al suo indirizzo la corrispondenza. Fatto
sta che Pavese venne condannato. Nel 1935, dopo essere stato in carcere a
Torino e a Roma, accusato di antifascismo, venne confinato a Brancaleone Calabro,
dove iniziò a scrivere il suo diario “Il mestiere di vivere",
edito postumo nel 1952. In Calabria
conobbe il medico e scrittore Vincenzo de Angelis.
Le
delusioni d'amore, Tina e Fernanda
Un
anno dopo, alla fine del 1936, ritornò a Torino (l'Italia
concesse difatti il condono ai condannati politici), lavorando per Giulio Einaudi
come redattore e traduttore (non poteva più lavorare nella
scuola a causa del suo presunto passato politico). Nel 1936
vedono poi la pubblicazione, grazie alle edizioni della
prestigiosa rivista "Solaria", le poesie di Lavorare
stanca. L'opera fu praticamente ignorata. Nello stesso anno, la donna di cui
era innamorato, Battistina (detta Tina) Pizzardo annunciò il matrimonio con
un altro uomo, e questa notizia – unita alla consapevolezza che i suoi
scritti venivano ignorati, generò un periodo di profonda
delusione. La sua vita cadde dominata da un profondo senso di
solitudine e vuoto. Per guadagnarsi da vivere,
continuò l'attività di traduttore, sicuramente più
redditizia del cimentarsi in proprio nella scrittura.
La collaborazione con la casa editrice Einaudi si
intensificò con le collane "Narratori stranieri tradotti"
e "Biblioteca di cultura storica". Tradusse
importanti opere, tra cui La storia e le personali esperienze
di David Copperfield di Charles Dickens. Nel frattempo,
divenne mentore di una giovane ex-allieva, Fernanda Pivano,
giovane scrittrice e traduttrice (sua la traduzione della prima
edizione italiana della Antologia di Spoon River, di
Edgar Lee Master, la cui pubblicazione fu alquanto
travagliata, considerando l’ostilità del regime fascista nei
confronti della letteratura americana). Anche il rapporto tra
Cesare Pavese e Fernanda Pivano fu travagliato: per ben due
volte Pavese le propose il matrimonio, il 26 luglio 1940 ed il
10 luglio 1945, ma lei rifiutò. La
profonda delusione si trasformò man mano nella consapevolezza di
un nuovo fallimento nella vita dello scrittore.
I primi romanzi e la
Guerra
Nell’aprile del 1939 completò la
stesura di un suo primo romanzo breve, intitolato Memorie
di due stagioni, poi cambiato in Il carcere
(tratto dalle sue esperienze dirette negli anni 1935-36, il
testo indaga
il contrasto tra la solitudine del prigioniero e il mondo
esterno) e pubblicato nel 1949. Nello stesso anno, scrisse anche
Paesi tuoi, pubblicato nel 1941, che raccontava
della vita contadina attraverso le vicende di ex galeotti. Nel
frattempo, con il ritorno dal confinamento di Leone Ginzburg,
andava intensificandosi la sua partecipazione agli incontri del
gruppo di "Giustizia e libertà" e di altri gruppi di stampo comunista,
riunioni tutte rigorosamente clandestine. In una di queste
riunioni conobbe il giornalista di origine sarda Giaime
Pintor, che fu anche traduttore e scrittore, nonché fervente
antifascista. Nel frattempo, il 10 giugno 1940 l’Italia,
a fianco della Germania, dichiarò guerra alla Francia e
alla Gran Bretagna. Intanto, Pavese scriveva alcuni dei
suoi primi romanzi, La tenda (successivamente
intitolato con il nome di La bella estate)
pubblicato nel 1949, La spiaggia, pubblicato nel 1942.
Nel 1941 pubblicò Paesi tuoi oggi ben conosciuto.
Nel 1943 si trasferì a
Roma,
per curare alcuni affari editoriali (l’anno prima fu assunto
stabilmente da Einaudi) e fu chiamato nell'esercito
fascista per svolgere attività militare ma non fu arruolato per
problemi di salute. A causa dell'asma
trascorse sei mesi in un ospedale, fu riformato, e rientrò poi a Torino,
già occupata dai tedeschi. In città non trovò più i suoi amici,
erano partiti per combattere come partigiani. Alla fina
clandestina dei partigiani preferì la fuga. Fuggì, sulle colline intorno a Serralunga di Crea, vicino
a Casale Monferrato, accolto dalla sorella Maria. Il
ricordo di questo periodo è descritto ne "La casa in collina". Intanto, la casa editrice
per cui lavorava veniva occupata da un
commissariato del regime della Repubblica di Salò.
Per due anni, fino al 1945, si
tenne occupato insegnando presso il Convitto dei padri
somaschi a Casale Monferrato, dove aveva precedentemente
trovato ospitalità per sfuggire ad una retata. Nel 1944, all’età
di 34 anni, morì Leone Ginzburg, ucciso sotto tortura dai
tedeschi nel carcere romano di Regina Coeli. Non fu l’unico
amico a morire in guerra, la stessa sorte capitò anche a Luigi Capriolo, Giaime
Pintor, Gaspare Pajetta, un ex allievo di
soli 18 anni.
Finita la guerra, tormentato dal
rimorso per non aver partecipato in modo attivo, come gli
amici morti, nel lottare contro il fascismo, aderì al Partito
Comunista Italiano, collaborando al giornale del partito,
L'Unità. In questo periodo conobbe Italo Calvino, con
cui collaborò in Einaudi. Fu questo un periodo molto prolifero
per lo scrittore, iniziò a scrivere Il compagno e
nel 1945 si trasferì nuovamente a Roma per istituire una sede
dell'Einaudi nella Capitale. Lasciare l'ambiente torinese,
gli amici e soprattutto la nuova attività politica, lo fece
ricadere nella malinconia.
Nel 1990 il critico letterario e scrittore Lorenzo Mondo porto
alla luce i taccuini segreti di Pavese (Taccuino 1942-43)
da cui trasparivano apprezzamenti nei confronti del fascismo, ma
anche del nazismo. Fu uno scandalo e gran parte della cultura
comunista insorse. Il giornalista del quotidiano l'Unità Davide
Lajolo, dopo la morte dello scrittore riporto che Pavese gli
aveva riferito, forse in modo scherzoso che per lui era troppo
difficile fare il comunista: "Sono un tipo poco socievole per
essere un buon comunista; devo diventare un uomo collettivo non
solo seguire collettivamente."
Roma,
Bianca Garufi e la psicoanalisi
A Roma conobbe Bianca
Garufi, collaboratrice nella casa editrice, di cui si
innamorò, non corrisposto; tra la Garufi, Pavese e Natalia
Ginzburg, moglie del defunto Leone, si instaurò un
sodalizio intellettuale, spinto soprattutto dalla curiosità di
Pavese per la psicoanalisi, materia che la Garufi aveva
iniziato a studiare. Seguirono le sue opere di
maggior successo.
Nel 1946 scrisse Fuoco grande,
romanzo incompiuto. Nel 1947 iniziò I dialoghi con Leucò
e Il compagno. Nello stesso anno diede avvio alla
Collezione di studi religiosi, etnologici e psicologici,
detta anche "Collana viola", edita da Einaudi fino al
1956, curata da Pavese insieme ad Ernesto de Martino (una
serie di 29 opere, tra cui L’io e l’Inconscio
1948, di Carl Gustav Jung e Il ramo d'oro. Studio
sulla magia e la religione dell'antropologo James
Frazer).
Nel 1948 scrisse La casa in
collina, che racconta di un professore di Torino
rifugiatosi nella sua casa in collina alla ricerca di
solitudine, sullo sfondo delle attività di un gruppo di
partigiani, nei mesi drammatici degli scontri, fino alla caduta di Mussolini, con
i tedeschi, mentre le forze
anglo-americane bombardano la penisola. Un romanzo
autobiografico, che pone in evidenza il conflitto interiore di Pavese,
sospeso tra il ritiro in solitudine e la responsabilità individuale
all'interno della società contro le ingiustizie.
"Ora che ho visto cos'è la
guerra, cos'è la guerra civile, so che tutti, se un giorno
finisse, dovrebbero chiedersi: - E dei caduti che facciamo?
Perché sono morti? - Io non saprei cosa rispondere. Non adesso,
almeno. Né mi pare che gli altri lo sappiano. Forse lo sanno
unicamente i morti, e soltanto per loro la guerra è finita
davvero."
I romanzi, i premi,
Constance
Nell'estate del 1948, gli venne
assegnato un premio letterario, premio Salento, ma egli chiese
esplicitamente di essere dispensato da qualsiasi premio, anche futuro.
Nello stesso anno uscì Prima che il gallo canti. Seguirono nel 1949, Il diavolo sulle colline, che
racconta di tre amici torinesi e dell’incontro con un
personaggio dedito ad una vita fatta di esperienze distruttive,
e Tra donne sole, una storia di donne alle prese
con la modernità dell’epoca post-bellica. Seguirà, nel 1950
La luna e i falò, probabilmente la sua opera più
celebre, che nuovamente affronta il tema dell’attivismo
partigiano e la distruzione portata dalla guerra. Fu la sua
ultima opera, tradotta in inglese nel 1952 con il nome di
The Moon and the Bonfires da Louise Sinclair.
Nell’inverno a cavallo tra il
1949 ed il 1950 conobbe a Roma Constance Dowiling, e se
ne innamorò, nuovamente non ricambiato. La donna lo frequentò
solo a titolo di amicizia, in quanto innamorata a sua volta
dell’attore Andrea Checchi. Poi ripartì per l’America, in
cerca di fortuna come attrice. Amareggiato e infelice, per
l’ennesimo fallimento sentimentale, per la disillusione politica
e consapevole della caducità della vita, scrisse alcune delle
sue liriche più famose, come la celebre Verrà la morte e
avrà i tuoi occhi (pubblicata postuma nel 1951 dove
amore e morte convivono e la morte ha gli occhi della donna che
il poeta ha amato senza essere corrisposto).
Nel giugno del
1950 ricevette il Premio Strega per La bella estate, accompagnato
da Doris, la sorella di Costance. Nell’estate dello stesso anno,
ebbe una breve relazione con la giovanissima Romilda Bollati,
sorella dell’editore Giulio, durante una villeggiatura in
Liguria.
Gli amori sfortunati
Il primo sentimento frustrato fu quello che il diciassettenne
Pavese provò per la la giovane ballerina Carolina
Mignone, detta Milly, per la quale si prese anche una
pleurite, dopo averla aspettata invano a un appuntamento,
restando sotto la pioggia per oltre sei ore. La canzone
“Alice? di Francesco de Gregori fa un riferimento abbastanza
esplicito allo scrittore, quanto recita: “… e Cesare perduto
nella pioggia sta aspettando da sei ore il suo amore ballerina,
e rimane lì a bagnarsi ancora un po’, e il tram di mezzanotte se
ne va, ma tutto questo Alice non lo sa…?.
Tina Pizzardo, passando poi per Fernanda Pivano
(alla quale Pavese dedicò alcune poesie come Mattino,
Estate e Notturno) a cui chiederà due volte, invano, di
sposarsi, e arrivando infine a Constance, il rapporto di
Cesare Pavese con le donne è la storia di un amore non
corrisposto. Per sfuggire a questo dolore, a questa maledizione,
Pavese si rifugiò nel mito, nel ritorno alle origini.
Romilda Bollati, detta Pierina, fu l’ultima storia d’amore
dello scrittore, aveva 18 anni e iniziò la frequentazione di
Pavese mentre era in vacanza a Bocca di Magra.
Per lei, per Pierina, furono questi tristi pensieri: "Posso
dirti, amore, che non mi sono mai svegliato con una donna mia al
fianco, che chi ho amato non mi ha mai preso sul serio, e che
ignoro lo sguardo di riconoscenza che una donna rivolge a un
uomo".
E ancora "(...) Tu sei giovane, incredibilmente giovane, sei
quello che ero io a vent’otto anni quando, risoluto di uccidermi
per non so che delusione, non lo feci – ero curioso
dell’indomani, curioso di me stesso – la vita mi era parsa
orribile ma trovavo ancora interessante me stesso. Ora è
l’inverso: so che la vita è stupenda ma che io ne sono tagliato
fuori, per merito tutto mio, e che questa è una futile tragedia
(...)".
Gli
ultimi tempi
Negli ultimi mesi della sua vita, Pavese
visitò spesso i luoghi delle sue memorie d’infanzia, le Langhe, la zona in
cui era nato e dove continuava a trovare grande conforto.
Logorato dalle frustrazioni amorose e dal rimorso per non aver
partecipato alla Resistenza, sempre più in preda alla
depressione, Pavese si suicidò il 27 agosto 1950, nella stanza
di un albergo a Torino con un'overdose di barbiturici (28
dosi di sonnifero che si era procurato in diverse farmacie). In
quegli ultimi giorni era rimasto solo in città per la breve
lontananza della sorella e delle due nipoti che si erano recate
in campagna, e aveva preferito lasciare la sua casa di Via
Lamarmora 35, che si era fatta deserta, per cercare ospitalità
all'Albero Roma. Sere prima aveva fatto visita ai redattori di
un giornale cittadino e più tardi si era trattenuto con loro e
con altri giornalisti in un locale del centro. Come spesso in
questi casi, senza lasciare trapelare nulla dei suoi funesti
propositi. Fu
un cameriere preoccupato a sfondare la porta della sua stanza e
a trovarlo. Pavese giaceva sul letto, vestito, sul comodino
c'erano sedici bustine aperte di barbiturici. Pochi giorni
prima della sua morte aveva ricevuto un compenso di 30 mila lire
per un suo scritto, e di queste ne mandò 5000 alla sorella
perché ne facesse dono a un prete della località di campagna in
cui si trovava. Una fotografia di Constance Dowling si trovava
dentro il suo portafogli, tra le cose care.
Solo un paio di mesi prima Pavese era a Roma dove aveva vinto il
Premio Strega con La bella estate, ma neppure la
consapevolezza della sua grandezza di scrittore aveva potuto
salvarlo.
Sulla prima pagina di una copia de “I dialoghi con Leucò?,
una raccolta di racconti in forma di dialogo tra personaggi
della mitologia greca, scrisse: "Perdono a tutti e a tutti
chiedo perdono. Va bene? Non fate troppi pettegolezzi"
prevedendo il clamore che il suo gesto avrebbe suscitato. È
stato sepolto nel cimitero di Santo Stefano Belbo.
Natalia Ginzburg,
moglie di Leone, nel 1957 su Radiocorriere, lo ricordava
così:
"...misurava la città col suo
lungo passo, testardo e solitario; si rintanava nei caffé più
appartati e fumosi, si liberava svelto del cappotto e del
cappello, ma teneva buttata attorno al collo la sua brutta
sciarpetta chiara; si attorcigliava intorno alle dita le lunghe
ciocche dei suoi capelli castani, e poi si spettinava
all’improvviso con mossa fulminea. Riempiva fogli e fogli della
sua calligrafia larga e rapida, cancellando con furia, e in quei
fogli, non meno che nei suoi romanzi o nei suoi versi, celebrava
il fascino discreto della sua città e del suo testardo mestiere".
Ne Il mestiere di vivere, lo scrittore narra
esplicitamente le tappe del suo difficile rapporto con la vita,
e soprattutto la sua incapacità d'amare senza un furore
autodistruttivo. Nell'annotazione finale scrive "Sembrava
facile, a pensarci. Eppure donnette l'hanno fatto. Ci vuole
umiltà, non orgoglio. Tutto questo fa schifo. Non parole. Un
gesto. Non scriverò più." Insieme con l'annotazione che
quasi immediatamente precede: "Nel mio mestiere dunque sono
re. In dieci anni ho fatto tutto". Cesare Pavese se ne andò
a sol quarantadue anni, quando pensava di aver già dato tutto
quel che poteva dare, ovvero molto, moltissimo.
Opere
Poesie
di Cesare Pavese
Lavorare stanca, Firenze, Solaria, 1936 successivamente ampliata
con altre poesie Torino, Einaudi, 1943.
La terra e la morte, in "Le tre Venezie" 1947.
Verrà la morte e avrà i tuoi occhi, Torino, Einaudi, 1951
(poesie inedite oltre a quelle già contenute in La terra e La
morte.
Poesie del disamore e altre poesie disperse, Torino, Einaudi,
1962
Poesie edite e inedite, a cura di Italo Calvino, Torino, Einaudi,
1962
8 poesie inedite e quattro lettere a un'amica (1928-1929),
Milano, All'insegna del pesce d'oro, 1964.
Poesie giovanili, 1923-30, Torino, Einaudi, 1989.
Romanzi e racconti
Paesi tuoi, Torino, Einaudi, 1941.
Prima che il gallo canti, Torino, Einaudi, 1948 al suo interno i
romanzi La Casa in collina e Il Carcere.
La spiaggia, romanzo breve contenuto in "Lettere d'oggi" 1942 e
poi in volume pubblicato da Einaudi, 1956
Feria d'agosto, racconti pubblicati da Einaudi, 1946.
Dialoghi con Leucò, Torino, Einaudi, 1947
Il compagno, Torino, Einaudi, 1947
La casa in collina, Torino, Einaudi, 1948.
La bella estate, Torino, Einaudi, 1949 al suo interno si trovano
i romanzi Tra donne sole, La bella estate e Il diavolo sulle
colline
La luna e i falò, Torino, Einaudi, 1950.
Notte di festa, Torino, Einaudi, 1953.
Fuoco grande, scritto incompiuto redatto a due mani con l'amata
Bianca Garufi, pubblicato postumo da Einaudi, 1959.
Ciau Masino, Torino, Einaudi, 1968.
Lotte di giovani e altri racconti (1925-1930), Torino, Einaudi,
1993
Saggi e diari
La letteratura americana e altri saggi, Torino, Einaudi, 1951.
Il mestiere di vivere. Diario 1935-1950, Torino, Einaudi, 1952.
Interpretazione della poesia di Walt Whitman. Tesi di laurea,
1930, a cura di Valerio Magrelli, Torino, Einaudi, 2006.
Traduzioni
Traduzioni di Sinclair Lewis, Il nostro signor Wrenn,
Herman Melville, Moby Dick o La balena e Benito Cereno,
Torino, Sherwood Anderson, Riso nero, James Joyce,
Dedalus. Ritratto dell'artista da giovane, John Dos
Passos, Il 42º parallelo, Un mucchio di quattrini,
John Steinbeck, Uomini e topi, Gertrude Stein,
Autobiografia di Alice Toklas e Tre esistenze, Daniel
Defoe, Fortune e sfortune della famosa Moll Flanders,
Charles Dickens, David Copperfield, Christopher Dawson,
La formazione dell'unità europea. Dal secolo V al secolo XI,
Torino, Einaudi, 1939, George Macaulay Trevelyan, La
rivoluzione inglese del 1688-89, Christopher Morley, Il
cavallo di Troia, William Faulkner, Il borgo, Robert
Henriques, Capitano Smith, La Teogonia di Esiodo e
Tre Inni omerici, Percy Bysshe Shelley, Prometeo
slegato, Quinto Orazio Flacco, Le Odi.
Frasi celebri e
aforismi di Cesare Pavese
1. Non è che accadano a ciascuno cose secondo un destino, ma le
cose accadute ciascuno le interpreta, se ne ha la forza,
disponendole secondo un senso – vale a dire, un destino. (Il
mestiere di vivere)
2. Aver coraggio e aver ragione: i due poli della storia. E
della vita. L’uno, in genere, nega l’altro. (Il mestiere di
vivere)
3. C’è un solo piacere, quello di essere vivi, tutto il resto è
miseria. (Il mestiere di vivere)
4. Capii che Nuto aveva davvero ragione quando diceva che vivere
in un buco o in un palazzo è lostesso, che il sangue è rosso
dappertutto, e tutti vogliono esser ricchi, innamorati, far
fortuna. (La Luna e i falò)
5. Certo, avere una donna che ti aspetta, che dormirà con te, è
come il tepore di qualcosa che dovrai dire, e ti scalda e
t’accompagna e ti fa vivere. (Il mestiere di vivere)
6. È bello girare la collina insieme al cane: mentre si cammina,
lui fiuta e riconosce per noi le radici, le tane, le forre, le
vite nascoste, e moltiplica in noi il piacere delle scoperte.
(La casa in collina)
7. È bello scrivere perché riunisce le due gioie: parlare da
solo e parlare a una folla. (Il mestiere di vivere)
8. È bello svegliarsi e non farsi illusioni. Ci si sente liberi
e responsabili. Una forza tremenda è in noi, la libertà. Si può
toccare l’innocenza. Si è disposti a soffrire. (Il diavolo sulle
colline)
9. Guardare certi morti è umiliante. Non sono più faccenda
altrui; non ci si sente capitati sul posto per caso. Si ha
l’impressione che lo stesso destino che ha messo a terra quei
corpi, tenga noialtri inchiodati a vederli, a riempircene gli
occhi. Non è paura, non è la solita viltà. Ci si sente umiliati
perché si capisce – si tocca con gli occhi – che al posto del
morto potremmo essere noi: non ci sarebbe differenza, e se
viviamo lo dobbiamo al cadavere imbrattato. Per questo ogni
guerra è una guerra civile: ogni caduto somiglia a chi resta, e
gliene chiede ragione. (La casa in collina)
10. Io non credo che possa finire. Ora che ho visto cos’è
guerra, cos’è guerra civile, so che tutti, se un giorno finisse,
dovrebbero chiedersi: – E dei caduti che facciamo? perché sono
morti? – Io non saprei cosa rispondere. Non adesso, almeno. Né
mi pare che gli altri lo sappiano. Forse lo sanno unicamente i
morti, e soltanto per loro la guerra è finita davvero. (La casa
in collina)
11. Immortale è chi accetta l’istante. Chi non conosce più un
domani. (Dialoghi con Leucò)
12. In fondo, l’unica ragione perché si pensa sempre al proprio
io è che col nostro io dobbiamo stare più continuamente che non
chiunque altro. (Il mestiere di vivere)
13. L’amore ha la virtù di denudare non i due amanti l’uno di
fronte all’altro, ma ciascuno dei due davanti a sé. (Il mestiere
di vivere)
14. L’offesa più atroce che si può fare a un uomo è negargli che
soffra. (Il mestiere di vivere)
15. L’unica gioia al mondo è cominciare. È bello vivere perché
vivere è cominciare, sempre, ad ogni istante. (Il mestiere di
vivere)
16. La fantasia umana è immensamente più povera della realtà.
(Il mestiere di vivere)
17. La forza dell’indifferenza! − È quella che ha permesso alle
pietre di durare immutate per milioni di anni. (Il mestiere di
vivere)
18. La letteratura è una difesa contro le offese della vita. (Il
mestiere di vivere)
19. La ricchezza della vita è fatta di ricordi, dimenticati. (Il
mestiere di vivere)
20. La vera confidenza è sapere quel che desidera un altro, e
quando piacciono le stesse cose una persona non dà più
soggezione. (Il diavolo sulle colline)
21. Leggendo non cerchiamo idee nuove, ma pensieri già da noi
pensati, che acquistano sulla pagina un suggello di conferma. Ci
colpiscono degli altri le parole che risuonano in una zona già
nostra – che già viviamo – e facendola vibrare ci permettono di
cogliere nuovi spunti dentro di noi. (Il mestiere di vivere)
22. Niente è più inabitabile di un posto dove siamo stati
felici. (La spiaggia)
23. Non ci si libera di una cosa evitandola, ma soltanto
attraversandola. (Il mestiere di vivere)
24. Aspettare è ancora un’occupazione. È non aspettar niente che
è terribile. (Il mestiere di vivere)
25. Non si ricordano i giorni, si ricordano gli attimi. (Il
mestiere di vivere)
26. Nuto, che non se n’era mai andato veramente, voleva ancora
capire il mondo, cambiare le cose, rompere le stagioni. O forse
no, credeva sempre nella luna. Ma io, che non credevo nella
luna, sapevo che tutto sommato soltanto le stagioni contano, e
le stagioni sono quelle che ti hanno fatto le ossa, che hai
mangiato quand’eri ragazzo. (La Luna e i falò)
27. Pensai a quanti luoghi ci sono nel mondo che appartengono
così a qualcuno, che qualcuno ha nel sangue e nessun altro li
sa. (Il diavolo sulle colline)
28. Per disprezzare il denaro bisogna appunto averne, e molto.
(Il mestiere di vivere)
29. Perché – quando si è sbagliato – si dice «un’altra volta
saprò come fare», quando si dovrebbe dire «un’altra volta so già
come farò»? (Il mestiere di vivere)
30. Quale mondo giaccia al di là di questo mare non so, ma ogni
mare ha un’altra riva, e arriverò. (Il mestiere di vivere)
31. Quando le donne parlano ridendo è come un uomo che vi prende
da parte per darvi un consiglio. (Paesi tuoi)
32. Queste notti moderne, – disse Pieretto. – Sono vecchie come
il mondo. (Il diavolo sulle colline)
33. Sciocco addolorarsi per la perdita di una compagnia: quella
persona potevamo non incontrarla mai, quindi possiamo farne a
meno. (Il mestiere di vivere)
34. Sei come un ragazzo, un ragazzo superbo. Di quei ragazzi che
gli tocca una disgrazia, gli manca qualcosa, ma loro non
vogliono che sia detta, che si sappia che soffrono. Per questo
fai pena. Quando parli con gli altri sei sempre cattivo,
maligno. Tu hai paura, Corrado. (La casa in collina)
35. Sorridere è vivere come un’onda o una foglia, accettando la
sorte. È morire a una forma e rinascere a un’altra. È accettare,
accettare, se stessi e il destino. (Dialoghi con Leucò)
36. Tutto il problema della vita è dunque questo: come rompere
la propria solitudine, come comunicare con altri. (Il mestiere
di vivere)
37. Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene
via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente,
nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando
non ci sei resta ad aspettarti. (La luna e i falò)
38. Viene un giorno che per chi ci ha perseguitato proviamo
soltanto indifferenza, stanchezza della sua stupidità. Allora
perdoniamo. (Il mestiere di vivere)
39. Vivere tra la gente è sentirsi foglia sbattuta. Viene il
bisogno d’isolarsi, di sfuggire al determinismo di tutte quelle
palle da biliardo. (Il mestiere di vivere)
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