Dalla celebre Conferenza di Rio de Janeiro del 1992 al
Protocollo di Kyoto del 1997 che impegnava i paesi
industrializzati a ridurre in maniera considerevole
l'emissione di gas responsabili dell'aumento
dell'effetto serra, i isultati sono
stati fallimentari. Il 2015 è stato l'anno dell'Accordo di Parigi
e l'obiettivo di ridurre le emissioni è stato
rimandato al 2030... poi Madrid e Glasgow... Greta
non ha mai smesso di gridare che ci stanno rubando il
futuro. Vediamo i dettagli.
CL'Accordo di Parigi sul clima è stato
raggiunto il 12 dicembre del 2015 alla Conferenza annuale dell'Onu sul
riscaldamento globale (COP 21), che in quell'anno si teneva nella capitale
francese. È stato poi firmato il 22 aprile del 2016 (in occasione della Giornata
mondiale della Terra), alla sede Onu di New York dai capi di Stato e di governo
di 195 paesi.
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L'accordo è entrato in vigore il 4 novembre 2016, 30 giorni dopo la ratifica
da parte di almeno 55 Paesi che rappresentano almeno il 55% delle emissioni di
gas serra (anidride carbonica in primo luogo, ma anche metano e refrigeranti Hfc).
Tutti i paesi dell’UE hanno ratificato l’accordo. L'Italia
ha ratificato l'accordo il 27 ottobre 2016, con un voto del parlamento.
L’accordo stipulato a Parigi prevede di mantenere l’aumento
della temperatura media mondiale sotto i 2°, possibilmente entro 1.5°. Per
capire meglio basti pensare che, dal 1970 ad oggi, la temperatura media mondiale
cresce di 0,2 gradi ogni decennio. I paesi partecipanti s’impegnano a ridurre le
emissioni fino ad arrivare ad emissioni nette, ovvero a una situazione in cui
tutti gas prodotti sono smaltiti grazie alla natura e alla tecnologia.
Per arrivare ad avere livelli di emissioni pari a quelli
precedenti la prima rivoluzione industriale (1861-1880) entro il 2100, si
dovrebbe attuare una riduzione di 2.900 miliardi di tonnellate di Co2, il che
significa ridurre dal 40% fino al 70% le emissioni entro il 2050.
La principale novità politica dell'Accordo di Parigi è
stata l'adesione dei maggiori produttori di gas serra, gli Stati Uniti e
la Cina, che in passato avevano rifiutato di aderire al protocollo di Kyoto per
non ostacolare la loro crescita economica.
Ogni paese deve munirsi di un suo piano che descriva
la strategia del paese per contrastare il cambiamento climatico e tale piano
deve essere ripresentato ogni 5 anni, alla luce dei risultati raggiunti e in
considerazione dell’andamento della situazione mondiale. Le verifiche degli
impegni presi partiranno dal 2023 e saranno quinquennali.
I paesi più ricchi dovranno aiutare finanziariamente
quelli più poveri con un “Green Climate Fund? da 100 miliardi di dollari.
L'Italia ha stabilito di contribuire con 50 milioni di euro all'anno.
Punti deboli dell’Accordo di Parigi
Non si è stabilito chi, quando e di quanto dovrà abbassare
le emissioni di gas ad effetto serra (a cominciare dalla CO2) per lottare contro
il riscaldamento globale. A ciascun governo, prima dell’avvio della COP 21, era
stato chiesto di depositare un documento contenente i cosiddetti "Indc", Intended Nationally Determined Contributions: le promesse ufficiali di riduzione
delle emissioni. La ragione era ovviamente “politica? poiché si temeva che
imporre griglie e regole comuni, avrebbe rischiato di far saltare i negoziati.
Ciascuna nazione, in modo autonomo, ha quindi assunto una serie di impegni molto
diversi tra di loro: c’è chi ha promesso una riduzione entro il 2020, chi entro
il 2030, chi del 20%, chi del 40%, chi rispetto ai livelli delle emissioni
registrati nel 1990, chi nel 2005…
Inoltre l’Accordo di Parigi non si occupa delle emissioni
legate al trasporto aereo e marittimo, che rappresenta il 10 per cento delle
emissioni mondiali di gas ad effetto serra, il che rappresenta un grande
problema omesso.
Le promesse avanzate non permetteranno di scendere al di
sotto dei +2,7 gradi (ma secondo le associazioni ecologiste si supererebbero
addirittura, abbondantemente, i 3 gradi). Il che significherebbe andare incontro
ad una catastrofe.
L’Accordo di Parigi riprende la cifra indicata nel 2009 a
Copenaghen: “Serviranno 100 miliardi di dollari all’anno entro il 2020? per
aiutare i paesi in via di sviluppo a contrastare gli effetti dei cambiamenti
climatici, nonché a fronteggiare perdite e danni provocati da eventi climatici
estremi, inondazioni, piogge torrenziali o ondate di siccità. Ma quali fondi
saranno usati per mitigare gli effetti del cambiamento climatico (essenzialmente
diminuire le emissioni ad esempio attraverso le politiche di transizione
energetica) e quali per l’adattamento (ad esempio la costruzione di
infrastrutture difensive nelle aree più a rischio)? Inoltre, c'è il tema della
trasparenza e della flessibilità per fare in modo che ogni paese possa
contribuire in base alle proprie capacità.
Lo scontro sui finanziamenti si è ripresentato anche in
Marocco alla COP 22, con i paesi più vulnerabili che hanno chiesto certezze,
anche in merito all’allocazione dei soldi del fondo tra politiche di
“mitigazione? dei cambiamenti climatici e di “adattamento?.
Vincolante?
Alla fine nessun paese sarà realmente, giuridicamente,
obbligato a fare nulla. Non esistono infatti sanzioni per chi dovesse
disattendere quanto firmato, non è previsto un tribunale, o una commissione, che
verifichi la conformità tra quanto concordato e quanto realizzato. Quindi niente
sanzioni in in caso di inadempimenti.
Nuovi Indc
Gli Indc sono gli Intended Nationally Determined
Contributions, ovvero le promesse ufficiali di riduzione delle emissioni. Ad
impegnarsi concretamente di fronte alla comunità internazionale per l’attuazione
concreta dell’Accordo di Parigi, con il deposito formale di nuovi Indc, sono
stati solo pochi stati, soprattutto quelli più vulnerabili a causa del
cambiamento climatico, come Suriname, Zambia, Ruanda Isole Marshall, Tailandia.
Giudizi discordanti
Per tutte queste ragioni, il giudizio della società civile
è stato vario, se da un lato si è affermato che è comunque la prima volta nella
storia in cui il mondo s’impegna contro il cambiamento climatico, dall’altro si
è constatato che le pressioni delle lobby del petrolio e del carbone fanno
ritardare troppo i tempi della transizione e tempo ne abbiamo poco. Per molti
attivisti l’Accordo di Parigi non impone ai paesi un taglio delle emissioni
sufficientemente rapido da evitare la catastrofe che, tra l’altro, farà
impennare i costi dell’adattamento in futuro.
Dello stesso parere Greta
Thunberg che ha criticato gli obiettivi troppo a lungo termine e non vincolanti
dell’Accordo di Parigi, parlando di “promesse vuote 5 anni dopo accordi di
Parigi?. In particolare in conferenza stampa, Greta ha detto: “dobbiamo passare
dalle parole ai fatti, basta con target clima al 2030 o al 2050, servono
obiettivi vincolanti annuali di riduzione delle emissioni".
In un video di tre minuti
pubblicato sui social media l’attivista ha denunciato: “Vengono fissati
obiettivi lontani e ipotetici, vengono fatti grandi discorsi, ma quando si
tratta dell’azione immediata di cui abbiamo bisogno, siamo sempre in completa
negazione e stiamo sprecando il nostro tempo con nuove scappatoie, con parole
vuote e contabilità creativa".
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