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Aroldo Bonzagni - Vita e
Biografia
"Sono nato per non fare
quello che voglio, per volere quello che non posso. Non sono per questo un
nevrastenico".
Pochi giorni dopo la morte di
Aroldo Bonzagni, avvenuta a Milano il 30 dicembre del 1918, a soli 31
anni, a causa dell'epidemia di influenza Spagnola che aveva colpito
l'Italia, durante il suo funerale, a scortare il feretro si alternarono
pittori celebri e persino il maestro
Toscanini.
Visse troppo poco per consolidare una fama che quando morì si stava
affermando anche fuori dai confini nazionali. |
|
Di
lui si sono occupati nel tempo, critici e storici dell'arte illustri, come
Longhi, Argan, Guido Ballo.
Recentemente Vittorio Sgarbi, che ha dedicato
interessanti retrospettive al pittore, lo ha definito il Toulouse Lautrec italiano.
Bonzagni,
era un artista atipico e facilitato dal grande talento, che nacque a Cento il
24 settembre del 1887, la città di Guercino, ma nel 1906 a nove anni, si
trasferì con la famiglia a Milano dove, in seguito si iscrisse
all'Accademia di Brera. Divenuto amico di Umberto Boccioni, firmò la prima
edizione del Manifesto dei pittori futuristi (1910) per poi
allontanarsi dal gruppo (il suo nome scompare sostituito da quello di
Balla e di Severini).
La sua firma compare in calce ai
primi manifesti futuristi, quando ancora, genericamente, sparavano contro
quelli che definivano i passatisti dell'arte: "Suvvia! Finiamola coi
Ritrattisti, cogl'Internisti, coi Laghettisti e i Montagnisti". ?probabile che proprio lui avesse collaborato a suggerire invece una
psicologia nuova, quella del "nottambulismo, delle cocottes e degli
apaches".
Qual fu il motivo della fuga dai futuristi? La paura, come
indica Elva, sorella del pittore, che sarebbe diventata un'apprezzata
pianista:
"Le soirée d'avanguardia erano pericolosissime per la salute e si veniva
violentemente beffeggiati e anche picchiati e a nostra madre venivano le
palpitazioni ogni volta che Aroldo vi
partecipava".
Bonzagni era
legatissimo alla madre Angela, di questo non c'è dubbio, che lo aveva avuto
da un padre vagabondo e analfabeta, partito in America e scomparso nel
nulla. Scoperto il non comune talento del figlio, nella piccola cittadina di
Cento, segnata dal Guercino, Angela non aveva esitato a mandare all'aria il suo
nuovo matrimonio con un brav'uomo (che di mestiere faceva il conduttore di
macchine agricole e aveva dato il proprio cognome al figlio), pur di portare
a Milano, con una misera borsa di studio, la sua giovanissima promessa della
pittura. Così dotato, ricorda il suo maestro Cesare Tallone, da permettergli
di saltare le tappe accademiche.
Quando
Bonzagni seguendo
il suo naturale senso d'avventura cercò fama e fortuna in Argentina, trovando l'una e
l'altra nei due anni che vi rimase, non fu solo la guerra a richiamarlo in
patria, ma una nostalgia acutissima e l'amore della madre che aveva lasciato
a Milano con le sorelle. Un amore grande e tenerissimo rivelato anche dal
ritratto che dì lei dipinse con una commozione, una dolcezza di luce, quasi
come se ogni pennellata fosse una carezza.
Milano agli inizi del '900 era
una città d'avanguardia, in grande fermento, non fu solo Marinetti, Boccioni
e il futurismo. Vi si scopre e a tratti emerge, accanto al divisionismo
ormai istituzionalizzato di Previati e della bottega d'arte Grubicy, una
ventata europea di nonconformismo giovanilistico: la
Parigi anarchica prefauve (fauve in francese "belve, selvaggi"), di
pittori come Georges Braque, Georges Rouault; il giovane
Palo Picasso precubista; il secessionismo austrotedesco di pittori come Gustav
Klimt,
Egon Schiele e Otto Wagner insieme al modernismo barcellonese.
Era una ventata che soffiava
anche nelle aule di Brera, dove mordono il freno giovani di talento come
Carrà, Funi, Carpi, Bucci, e il trio Dudrevìlle,
Erba e Bonzagni appunto. Aroldo, il bel centese immigrato con madre e
sorelle, squattrinato lungo tutta la breve vita, amico e pittore del barbone
Andrea Bonalumi e del violinista di strada Everardo Molinari, era il cocco e
il "dandy" di Brera. Carrà lo ricordava "tra gli allievi più eleganti di
Brera... Egli si forniva da un ottimo sarto, ricompensandolo con piccoli
guazzi".
Per diverso tempo con tempere e
acquerelli Bonzagni fotografava la vita della bella società milanese che
andava alle corse di San Siro in automobile, in carrozza, a cavallo, e poi
dame con i levrieri che rivelano il versante parigino del pittore, degno di
Edouard Vuillard e di Félix Vallotton. Anche il suo caro amico e
pittore Leonardo Dudreville, nelle sue memorie autobiografiche
ricorda "questo giovane alto, pallido e gracile, dall'ingegno vivo, ma
buono e di cuore nel fondo della sua natura". Tanto più commovente è la
descrizione della visita al morente Bonzagni alla fine del 1918: "Bonzagni
giaceva supino, la testa appena un poco sollevata dai cuscini. Sorrideva
dolcemente d'un sorriso tremendamente scarno e terreo, tirando fuori
dalle coltri una mano magra, lunga, ossuta, già abbandonata dalla vita".
Il "dandy" cinico e geniale,
che rifiutava di farsi sporcare i vestiti dagli ortaggi nelle serate
futuriste, aveva però il coraggio di affliggere in una vetrina di via Dante,
a Milano nel 1911, assieme ad altri tre (che sono una delle presenze più
scioccanti della mostra) l'enorme cartone L'albero degli impiccati.
Con la scritta "L'albero di natale!". La sua cultura muove su tutt'altro
vettore rispetto ai futuristi. Il toro sacro e Moti del ventre
sembrano dipinti a Monaco più che a Milano.
Rivolge il suo interesse alla
realtà che osserva con una vena d'ironia. Numerosi sono i suoi lavori grafici,
influenzati anche dalla conoscenza della rivista Ver Sacrum e dal
contatto con la cultura di matrice secessionista esposta in quegli anni alla
Biennale.
Dal 1910 al 1911 si dedica alla decorazione di una villa a San Donnino
della Nizzola, nei pressi di Modena. Nel 1912 espone a Milano nella
Mostra della pittura e scultura rifiutata, poi alla Biennale di
Venezia. Nel 1913 espone a Bergamo nella Mostra nazionale della caricatura e
l'anno seguente si reca in Argentina dove espone e collabora con sue
illustrazioni in importanti riviste ed esegue alcuni affreschi
nell'ippodromo Palermo di Buenos Aires. Di ritorno in patria, espone a
Milano nel 1915. La guerra porta a Bonzagni, riformato per un ginocchio
balordo, nuovi pensieri e traguardi. L'ironia tagliente ma divertita,
risolta in eleganza che connota tanta parte del suo dipingere si stempera e
dirada: il Tram di Monza nel 1916 è quasi un addio alle seduzioni
dell'umore leggero e alle attrazioni di un tempo: non più i locali alla
moda, le debolezze e le licenze di chi ha denaro; ma temi neutri,
propriamente pittorici come fiori e paesaggi, e sempre più, nell'ultimo
biennio prima della morte prorompe nelle sue opere una attenzione commossa e solidale per
gli emarginati di sempre e del momento. In primo piano o ambientati nello
squallore delle periferie, davanti a quinte vertiginose di caseggiati quasi
senza finestre, barboni, mendicanti, girovaghi, il violinista di strada
Molinari, il cieco Bonalumi e i loro simili sono soli sulla terra. Sono i
rifiuti della società, ma anche, nella loro indistruttibile dignità umana,
gli eroi di un'eterna tragedia. Qui l'arte di Bonzagni, in una chiave
espressionista tutta sua, spicca l'ultimo volo. E anche il più alto. Forse
fu anche per questo che Aroldo Bonzagni amò molto Peter Breughel e i suoi
colori smorzati e consumati, l'umorismo nei particolari attentamente
studiati e rivelati con una comicità che può arrivare al burlesco, le
ispirazioni dolorose e pietose, le scene amare e perfino grottesche, le
rappresentazioni collettive se non addirittura sociali.
Durante la guerra mondiale si
dedica anche ad illustrazioni di sostegno patriottico.
A Cento per merito della sorella Elva apre nel 1959 la Galleria d'arte moderna Aroldo Bonzagni, assolutamente da visitare se
vi trovare da queste parti.
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