S ituata
al centro del Mediterraneo, la Sardegna è stata un punto di
sosta quasi obbligato per tutti coloro che hanno navigato il
"mare nostrum", dai Fenici alle navi da crociera di oggi.
Non a caso, ognuno ha lasciato le sue tracce nella capitale
dell'isola,
Cagliari, Casteddu per sardi, che si trova sulla
costa meridionale della Sardegna.
Ci sono una moltitudine di luoghi da
vedere e visitare a Cagliari.
La parte più antica della città è
conosciuto appunto come "Castello". Si
aggrappa alle pendici di una collina che
sale ripida dal porto e nella storia fu
contesa dai pisani, dai genovesi, dagli aragonesi con frequenti puntate dai corsari saraceni
provenienti dalle coste del Nord Africa.
La gente e le tradizioni di Cagliari mostrano questo
patrimonio variegato, e le influenze di diversi periodi si
riflettono nella sua architettura. Di fronte al porto, lo
stile del bianco Municipio si fonde tra il gotico spagnolo e
lo stile Liberty italiano, e in altre parti della città, si
riconoscono arcate neoclassiche e bastioni, torri medievali,
testimonianze romane e medievali in pietra, e chiese barocche. Ecco qui di
seguito un sunto delle più importanti cose da vedere in
questa bellissima città.
Quartiere Marina
L'ampia
Via Roma corre lungo il porto, dove le navi da crociera
attraccano nel cuore della città. All'angolo di fronte alla
stazione ferroviaria si trova il bianco palazzo del
Municipio, e accanto ad esso, l'alberato Largo Carlo
Felice sorge in una leggera salita che arriva fino a
Piazza Yenne con i suoi bar e gelaterie. Sopra, sorgono i
bastioni del quartiere di Castello, a destra,
lungo la base del Castello, Via Manno, una via commerciale
molto popolare conosciuta che poi arriva fino a Piazza della
Costituzione . Da questa piazza, il bel Viale Regina
Elena scende tranquillamente alla Stazione Marittima,
completando i confini del quartiere Marina.
Bastione Saint Remy
Potete
cominciare la vostra visita a Cagliari salendo i gradini di
marmo della Passeggiata Coperta (o prendere l'ascensore
gratuito) da Piazza della Costituzione fino al Bastione
Saint Remy e godere di una vista mozzafiato della città.
Anche se questo e altri bastioni, come il più alto
Bastione di Santa Caterina, sono stati costruiti per
difendere il quartiere di Castello, roccaforte
di Pisani e Genovesi e brevemente casa per la
famiglia reale dei Savoia...Continua
a leggere sul
Bastione
Saint Remy.
Cattedrale di Santa Maria
La
chiesa più importante di Cagliari è la Cattedrale di
Santa Maria Assunta e di Santa Cecilia, o semplicemente
Duomo di Cagliari, si trova nel cuore del quartiere
storico di Castello, tra il Palazzo del Viceré
e l’Ex Palazzo di Città.
Della struttura originaria restano il campanile a sezione quadrata, i bracci
del transetto con le due porte laterali di stampo
Romanico e la
"cappella pisana" a cui si contrappone la trecentesca cappella in stile
gotico - aragonese...Continua a leggere sulla
Cattedrale di Cagliari.
Santuario di Bonaria
Il Santuario di Bonaria, sorto tra il 1323 e il 1326,
è il primo esempio di architettura gotico-catalana in Sardegna. Nella facciata conserva un bel portale gotico proveniente dalla chiesa di San Francesco, ormai distrutta. Al suo interno
è custodito il leggendario simulacro di Nostra Signora di Bonaria. A questo simulacro
è legata una leggenda: nel 1370 un veliero spagnolo, a causa di una tempesta fu costretto a buttare in mare l'intero carico, tra cui una cassa contenente la statua della Madonna...Continua
a leggere sul
Santuario di
Bonaria.
Chiesa
di Sant'Efisio
La
Chiesa di Sant'Efisio sorge su una grotta che affonda
per nove metri nella roccia calcarea e si confonde in mezzo
alle strade strette del quartiere di Stampace Alto.
Da qui il 1° di maggio di ogni anno parte la processione
votiva più grande della Sardegna, la Festa di Sant’Efisio.
Le origini della chiesa risalgono al '200, quando fu
costruita sopra quella che la tradizione vuole essere la
prigione dove Sant’Efisio fu tenuto e torturato prima
di essere portato a Nora per essere decapitato. Efisio (Elia
in Antiochia, 250 d.C. ?
Nora, 15 gennaio 303) fu un martire
cristiano sotto l'imperatore
Diocleziano...Continua a leggere sulla
Chiesa di Sant'Efisio a Cagliari.
Cripta di Sant’Efisio
Dalla via Sant’Efisio, sul fianco della Chiesa di Sant'Efisio,
attraverso una piccola porticina e una ripida scala scavata
nella roccia, si entra nella cripta ritenuta dalla
tradizione la prigione di Sant’Efisio. Questo ambiente
sotterraneo è stato scavato probabilmente già nel periodo
punico per ricavare materiale costruttivo. Nel periodo tardo
romano, l’ambiente fu utilizzato probabilmente come tempio
dedicato alla dea Iside, in quanto in mezzo al pavimento
l’archeologo Taramelli trovò un pozzo, che avrebbe potuto
contenere le acque del Nilo che servivano per i riti di
iniziazione. Nel XVII secolo, dopo la controriforma, e
l’interesse per la ricerca delle reliquie dei Santi Martiri,
i confratelli di Sant’Efisio chiesero alle autorità di poter
ispezionare anche questo ipogeo, non per trovare le reliquie
di Sant’Efisio, poiché queste erano già dall’alto medioevo
custodite dapprima nella Chiesa di Nora, prima che i Pisani
nel 1088 non le prendessero per custodirle nella
Cattedrale di Santa Maria di Pisa per sottrarle alle
invasioni arabe. Furono custodite nel duomo pisano fino al
1866, quando vennero restituite a Cagliari.
Nella cappella
di San Ranieri a Pisa è rimasta la statua di Sant'Efisio
scolpita nel 1592 da Battista di Domenico Lorenzi
detto il Cavaliere. Sempre a Pisa, nel camposanto
monumentale, sono esposte in pannelli fotografici le storie
dei Santi Efisio e Potito affrescate nella galleria sud o
parete di sinistra da Spinello Aretino.
Nel 1616 si trovò una tomba scavata nel pavimento con uno
scheletro che fu attribuito a Sant’Edizio, cosa che fu
confermata dal ritrovamento di una piccola lastra di marmo
(14X16 cm) sulla quale c’era scritto B.m. Editius, cioè a
dire Bonae Memoriae Editius. In questo periodo fu sistemato
anche l’altare che c’è ancora oggi, decorato con ajulejos,
posto al fianco della colonna dove la tradizione vuole che
sia stato flagellato Sant’Efisio durante la sua prigionia.
Durante la seconda guerra mondiale, i Cagliaritani usarono
la cripta di Sant’Efisio come rifugio contro i bombardamenti
aerei degli alleati.
Palazzo Civico
Nel 1896 il Consiglio Comunale di Cagliari prese la
decisione di trasferire la sede della municipalità dal
vecchio edificio di Piazza Palazzo, nel quartiere di
Castello, alla trafficata via Roma sorta, dopo la
distruzione delle mura difensive spagnole, di fronte al
porto. Dal quel momento in poi il Castello non sarà più la
roccaforte del potere. Progettato alla fine del 1800, il
palazzo fu inaugurato nel 1907. Venne poi ristrutturato,
fedelmente al disegno originario, per riparare i danni
causati dai bombardamenti del secondo conflitto mondiale.
Lo
stile dell'edificio riprende le forme architettoniche del
gotico catalano, che hanno ispirato le aperture del
porticato d'ingresso, accogliendo anche, nelle decorazioni
floreali della facciata, lo spirito innovativo dell'art noveau. Le due torrete medievali (che si pensa si ispirino
alle torri pisane dell'Elefante e di San Pancrazio) sembrano
invece richiamare, nostalgicamente, un lontano passato. Agli
angoli del palazzo si innalzano quattro pinnacoli che
raffigurano i quattro mori bendati.
La facciata è decorata
con fregi in bronzo: un'aquila che sorrege lo scudo di
Cagliari e due leoni, anch'essi in bronzo, voluti da Ottone
Bacaredda, sindaco della città dal 1896 al 1921. Gli
ambienti interni sono abbelliti dalle opere dei più amati
artisti isolani. La Sala del Consiglio espone le sculture di
Francesco Ciusa e tre dipinti di Filippo Figari (autore
anche del trittico che si trova nella Sala Museo); la Sala
della Giunta vanta le opere di Giovanni Marghinotti ed il
bellissimo "Retablo dei Consiglieri" dello stampacino Pietro
Cavaro; la Sala dell'Argenteria (o Sala Vivanet) le pitture
ad olio dell'artista sardo F. Melis Marini. Nella Sala dei
matrimoni si può ammirare l'affresco del Figari: un dipinto
su tela di 27 metri per 2,5 metri, che raffigura "Il
matrimonio sardo". Infine, la Sala del Sindaco ospita
l'arazzo in lana e seta del fiammingo F.Spierink, la bacheca
con la chiave della città e la penna d'oro che il re Umberto
usò per firmare la posa della prima pietra del palazzo.
Torre dell'Elefante
La
Torre dell'Elefante venne edificata nel 1307 dai pisani che ne
affidarono il progetto all'architetto Giovanni Capula (come precisa una
lapide marmorea in latino: Capula Johannes fuit caput magister numquam suis
operibus inventum sinister), che progettò anche la "gemella" torre di San
Pancrazio (una terza torre, la Torre del Leone, gravemente danneggiata dai
cannoni inglesi, spagnoli e dall'attacco francese del 1793, fu inglobata nel
Palazzo Boyl). La torre faceva parte del sistema difensivo voluto dai pisani
timorosi delle incursioni moresche quanto delle mire genovesi sulla città.
I
tre lati esterni della torre, traforati soltanto in corrispondenza delle
sottilissime fessure delle feritoie, furono costruiti in bianco calcare del
colle di Bonaria. Il quarto lato, rivolto verso il Castello, è aperto alla
maniera tipica pisana e mostra quattro piani costruiti su soppalchi di
legno. La costruzione era dotata di tre imponenti portoni e due saracinesche
(una di esse si conserva ancora tenuta su da pesanti catene). In cima,
sui mensoloni, un'impalcatura lignea serviva per la difesa dall'alto. La
torre raggiunge in altezza 31 metri che diventano 35 se si considera anche
il torrino, mentre dal lato di via Cammino Nuovo (il viale alberato che si
scorge nella foto ai piedi della torre) si eleva sino a 42 metri di altezza.
Si pensa addirittura che essa sia stata edificata sui resti di alcune
cisterne di epoca punica. La torre si è conservata nei secoli pressoché
intatta.Essa rappresenta ancora oggi l'ingresso al Castello.
Il nome non gli
deriva, come si potrebbe facilmente immaginare, dalla scultura
dell'elefantino, simbolo di forza e di fedeltà (di autore ignoto e
sicuramente contemporanea alla torre), posta a circa 10 metri dal lato di
viale Università, ma dalla Ruga Leofantis, che oggi corrisponde alla Via
Stretta. Ai piedi dell'elefantino si notano ancora gli stemmi dei castellani
pisani di Cagliari. Durante i secoli la torre è stata utilizzata per varie
destinazioni. Intorno al 1328 gli aragonesi fecero chiudere la parte nord
dell'edificio per utilizzarla a scopo abitativo e come magazzino. Gli
spagnoli usavano praticarvi un macabro rituale: esponevano, dentro grate di
ferro, le teste decapitate dei condannati a morte.
Il capo mozzato
dell'illustre marchese di Cea, accusato dell'uccisione del vicerè Camarassa,
vi rimase esposta per ben 17 anni, efficace ammonimento contro ogni nuovo
tentativo di insurrezione. Nel 1800 infine fu adibita a carcere per detenuti
politici. Venne restaurata nel 1906 riaprendo il lato murato dagli
aragonesi, riacquistando così il suo aspetto originario.
Palazzo di Città
Il
Palazzo di città, sino al 1906, fu la sede del municipio di Cagliari.
Situato in piazza Palazzo, di fianco alla Cattedrale, esso risale
probabilmente ad epoca pisana e durante il periodo aragonese vi si riuniva
lo Stamento reale. L'origine pisana del palazzo pare attestata da un
documento recante la firma del sovrano aragonese Alfonso IV che nel 1331 lo
concesse ai consiglieri cagliaritani, che chiedevano un luogo per riunirsi.
Nell'atto citato si parla di un edificio da costruire "supra lotgiam regalem
que est ante plateam dicti castri".
La lotgiam regalem potrebbe indicare un
preesistente edificio di epoca pisana. Il palazzo è costruito in stile
settecentesco, ed il suo aspetto attuale risale al 1787, anno in cui venne
completamente ristrutturato ad opera degli architetti piemontesi. Del
periodo spagnolo rimane la significativa testimonianza della visita di
Carlo V di Spagna, immortalata dall'iscrizione marmorea collocata sopra il portone
d'ingresso. Il sovrano, infatti, sostò in città nel 1535 prima della
battaglia di Tunisi contro i pirati barbareschi che continuamente
saccheggiavano le coste dell'isola. Sopra la lapide commemorativa,
campeggiano le armi della città. Il secondo ingresso del palazzo si affaccia
sulla piazzetta Carlo Alberto.
Le sale interne del Palazzo sono ricche di
storia ed erano abbellite con opere di notevole pregio. Lo Spano, nella sua
Guida, ricorda il Retablo dei Consiglieri, eseguito da Pietro Cavaro tra il
1517 ed il 1531, che raffigura la Madonna col Bambino e "cinque consiglieri
di vari tempi". Il dipinto si trovava nella sala principale in cui si
svolgevano le riunioni dei consiglieri e nei giorni festivi si celebrava la
messa. Nell'edificio erano custodite anche diverse tele dipinte dal
Marghinotti, tra cui Carlo Felice protettore delle arti, L'arrivo di Carlo
Alberto a Cagliari (nel 1841) con il figlio primogenito Vittorio Emanuele
II, ed infine due quadri che ritraggono due episodi storici che hanno come
protagonista il Questore romano Caio Gracco (il migliore che abbia avuto la
Sardegna nei tempi della Repubblica Romana, scrisse lo Spano).
Queste due
piccole tele, commissionate al grande artista dal generale Alberto della Marmora, ritraggono il questore Caio Gracco che, nella prima scena, si
discolpa a presenza del senato, mostrando la cintura che piena di denajo
aveva portato in Sardegna, e che vota la riportava nel restituirsi; nel
secondo dipinto si vedono i sardi offerendo gran quantità di saj ai romani
rimasti senza vesti durante un inverno molto rigido. Questi preziosi dipinti
si trovano ora nel nuovo Palazzo civico di via Roma.
Nel palazzo era
custodita la statua della Assunta Dormiente, donata dalla regina Maria
Cristina, consorte di Carlo Felice, alla città. Questo simulacro viene
portato in processione ogni anno alla vigilia di Ferragosto, ricorrenza
della festa dell'Assunta. Dopo che la sede della municipalità fu trasferita
nel Palazzo civico di via Roma, l'edificio ha ospitato, dal 1922 al 1931, il
Liceo musicale ed in seguito, dal 1939 al 1970, il Conservatorio di musica
Pier Luigi da Palestrina, che nel 1970 venne trasferito nei nuovi locali di
via Bacaredda. Da lunghi anni l'ex palazzo di città è chiuso per restauri.
Palazzo Viceregio
I
l Palazzo Viceregio venne edificato nel 1337
dagli aragonesi per ospitare la sede del potere vicereale.
Il Palazzo nei secoli successivi divenne realmente il centro
del potere politico e amministrativo dei viceré che si
susseguirono nel governo della città e dell'isola. Agli
aragonesi - catalani seguirono, infatti, gli spagnoli, gli
austriaci (seppur per breve tempo) ed infine i Savoia. Fu
proprio durante la presenza sabauda che il palazzo subì le
più importanti modifiche, affidate agli ingegneri militari
piemontesi.
L'aspetto attuale dell'edificio rispecchia il
disegno approvato dal re Carlo Emanuele III di Savoia nel
1769. Dal 1799 al 1815, il palazzo divenne la dimora dei re
di Sardegna che Napoleone aveva messo in fuga da Torino.
Dopo l'unificazione d'Italia, nel 1885, il palazzo venne
acquistato dall'amministrazione provinciale di Cagliari. Fu
accuratamente restaurato e le sue sale , tra il 1894 ed il
1895, furono decorate con gli affreschi del perugino
Domenico Bruschi. Bellissimi i dipinti che raccontano gli
episodi più significativi della storia dell'isola,
dall'epoca romana sino alla storia contemporanea. La Sala
consiliare custodisce il dipinto di "Eleonora d'Arborea che
promulga la Carta de Logu" ed il grande affresco del
soffitto che rappresenta allegoricamente "La Sardegna che
custodisce lo scudo sabaudo". Attualmente il Palazzo
viceregio ospita la Prefettura e nelle sue sale si riunisce
il Consiglio provinciale.
Palazzo Boyl
Il
Palazzo Boyl è uno degli edifici nobiliari più rappresentativi del
Castello di Cagliari. Fu costruito nel 1840 da Carlo Pilo Boyl, marchese di
Putifigari, generale d'artiglieria e comandante del Regio Arsenale militare,
discendente di quel don Filippo Pilo Boyl, che nel 1300 aiutò gli aragonesi
ad impadronirsi del Castel di Castro, scacciandone i pisani. Il palazzo fu
concepito secondo il gusto neoclassico molto in voga in quegli anni a cui si
richiamano Porta Cristina e la porta del Regio Arsenale militare, anch'esse
disegnate dal marchese di Putifigari, su imitazione delle romane Porta
Angelica e Porta di Piazza del Popolo.
L'edificio presenta una balaustrata
in marmo ornata da quattro statue che raffigurano le stagioni, mentre al
centro è scolpito lo stemma del casato. In esso sono presenti lo stemma
della famiglia Pilo (una mano che racchiude un mazzo di capelli, in sardo pilu), lo stemma dei Boyl (il toro, boi in sardo) e quello d'Aragona (pali
rossi su sfondo oro). Sotto si legge l'iscrizione che ricorda l'anno di
edificazione dell'edificio: COMES KAROLUS PILO BOYL EX MARCHIO PUTIFIGARI
INSTAURAVIT ANNO MDCCCXL L'edificio incorporò la pisana Torre del Leone
(erroneamente rinominata Torre dell'Aquila) costruita insieme alle gemelle
torre di S. Pancrazio e torre dell'Elefante, dall'architetto Giovanni
Capula.
La torre aveva perduto la sua parte superiore durante l'assedio
spagnolo del 1717 ed era ridotta quasi a un rudere. Essa aveva fronteggiato
i bombardamenti inglesi del 1708, i cannoni spagnoli che tentavano di
riprendersi l'isola nel 1717 ed infine l'attacco francese del 1793. Tre
palle di cannone infisse sulla facciata ricordano i tre attacchi subiti. Lo
Spano racconta che "questa torre servì di abitazione del Procurator Reale
nel tempo di Spagna. Servì, pure come quella dell'elefante, per la punizione
di delitti politici.
In questo luogo, nei moti popolari del 28 aprile 1794, fu
rinchiuso il Segretario di stato Valsecchi fino al suo imbarco pel
continente". La torre diede il nome alla porta dell'aquila che si apre sotto
il moderno edificio. Attraverso di essa si accedeva al Castello.
Oltrepassata la porta, sul lato sinistro, ad una attenta osservazione si
nota un cippo funerario romano, molto annerito dal tempo, che era stato
murato nella torre insieme ad altre iscrizioni purtroppo coperte
dall'intonaco antico. Dalla fine del 1800 il palazzo appartenne alla
famiglia dei baroni Rossi (come è testimoniato dalla lettera "R" scolpita in
alcune finestre che si affacciano sul Bastione di Santa Caterina); ora ne
sono proprietari i conti marchigiani Tomassini Barbarossa.
Cimitero Monumentale di Bonaria
La vocazione cimiteriale del colle di Bonaria
risale ad epoca antichissima. Tutta l'area intorno alla
collina, infatti, apparteneva alla necropoli orientale
della Carales romana, di cui ci rimangono le numerose
tombe ad arcosolio che si arrampicano sino in cima al
parco di Bonaria. Secondo la testimonianza del canonico
Spano, ancor prima dei romani, i cartaginesi avevano
scelto il colle per dare l'estremo saluto ai loro
defunti, lasciandoci numerose tracce della loro presenza
che oggi sono esposte, come preziosi reperti, nel Museo
di Bonaria. Anche a Cagliari, secondo una pratica molto
diffusa nei secoli scorsi, prima della inaugurazione del
Cimitero di Bonaria, si usava seppellire i morti
all'interno o attorno alle chiese.
Già nel 1804
tuttavia, Napoleone, con l'editto di Saint Cloud,
obbligava le città a destinare alla sepoltura dei
defunti un luogo ai margini dell'abitato, per chiare
esigenze di natura igienico-sanitaria. A Cagliari la
necessità di trovare un luogo adatto ai morti si fece
particolarmente urgente in seguito all'epidemia di
colera che scoppiò nel 1916 causando circa 600 vittime
che si ebbe grande difficoltà a seppellire proprio per
la mancanza di spazi appositi. In quella drammatica
circostanza i morti trovarono sepoltura nel "campo di
San Paolo", attraversato oggi dai binari della ferrovia.
Il Cimitero monumentale di Bonaria fu costruito nel 1828
su progetto del Capitano del Genio militare Mallerini e
portato a compimento dal Capitano Luigi Damiano e fu il
primo luogo adibito alla sepoltura in città. In
corrispondenza di quello che è attualmente l'ingresso
principale del Cimitero, sorgeva un'antica chiesa
consacrata a San Bardilio (demolita nei primi anni del
1900), risalente al XII secolo e di architettura pisana,
in cui svolsero la loro opera i frati dell'Osservanza ed
in seguito, i Trinitari. Essa fu innalzata su una
primitiva chiesa che si dice fosse la più antica di
tutta la Sardegna: la chiesa di Sancta Maria in portu
Gruttae. Essa era la chiesa parrocchiale del sobborgo di
Bagnaria abitato da marinai e pescatori. I giudici di
Cagliari la donarono nella prima metà del XII secolo ai
monaci vittorini di Marsiglia che si dedicavano
all'estrazione ed al commercio del sale, per cui era
conosciuta come Santa Maria de Portu Salis; in seguito
(nel 1218) passò all'Opera di Santa Maria di Pisa ed
infine, nel 1229, fu affidata ai frati minori
conventuali. Il canonico Spano, nella sua ottocentesca
"Guida della città e dintorni di Cagliari", racconta:
"Questa è la famosa Chiesa di cui parlano le storie e le
cronache antiche, detta Sancta Maria in portu Gruttae,
che credesi sia stata fabbricata nello stesso sito dove
San Paolo pose per la prima volta il piede, e predicò il
Vangelo ai Sardi.
Anzi secondo una cronaca, ultimamente
scoperta, si venerava in questo sito la pietra su cui
salì l'Apostolo delle Genti per predicare la fede
all'arrivo che fece in Sardegna, la qual pietra si
conservò sino al sec. VIII, e venne infranta dai
Saraceni". Il curioso nome attribuito a
quest'antichissimo luogo di culto, Sancta Maria in portu
Gruttae, si riferiva alle numerose grotte e colombari di
epoca punica e romana visibili sul colle di Bonaria,
molti dei quali furono distrutti dalle mine utilizzate
in occasione della costruzione del Cimitero (in uno di
questi colombari, chiamato la "grotta del Re", trovò
rifugio l'infante Alfonso d' Aragona al suo sbarco in
città). Dopo la sua inaugurazione, avvenuta il 29
dicembre del 1829 (il primo "ospite" della nuova
struttura fu il commerciante Lorenzo Basciu che vi fu
sepolto il 1 gennaio 1829), il Cimitero di Bonaria venne
ingrandito a varie riprese.
I primi interventi di
ampliamento risalgono al 1858 e furono affidati a
Gaetano Cima. Altri ingrandimenti si resero necessari in
seguito, cosicché il Cimitero si espanse sino a
raggiungere la cima del colle. Dal 1968 il Cimitero di
Bonaria non è più adibito alla sepoltura (soprattutto
perché si costruì il nuovo e più grande camposanto di
San Michele) e da allora è divenuto "cimitero
monumentale". Esso rappresenta per la città uno
straordinario patrimonio artistico, immerso nel verde e
nei ricordi del passato. Testimonia la vitalità della
città che tra la fine del 1800 e l'inizio del 1900,
conobbe un'incredibile espansione, dovuta principalmente
ad una fiorente attività commerciale, legata soprattutto
allo sfruttamento delle miniere, che attirava a Cagliari
molti continentali (in particolare genovesi) e numerosi
stranieri. Passeggiando all'interno del cimitero si
nota, infatti, come gran parte delle tombe riccamente
scolpite appartengano a personaggi non sardi. Anche
molti degli artisti che hanno firmato i più bei
monumenti funebri, provengono dalla penisola.
Il più
famoso di essi è sicuramente il vercellese Giuseppe
Sartorio il cui nome si legge su numerosissime tombe
ispirate allo stile liberty, molto in voga in quegli
anni. Tra le numerose cappelle, molte delle quali
purtroppo abbandonate all'incuria e ai danni del tempo,
si distinguono quelle appartenenti alle nobili famiglie
cittadine, semplici e modeste, da quelle fatte edificare
dalla ricca borghesia, ricche e sfarzose. Suscitano
molta tenerezza le tombe dedicate ai bambini, alcune
delle quali sono dei veri capolavori d'arte, che
occupano uno spazio a parte all'interno del Cimitero. In
un settore distinto si trovano anche le sepolture degli
acattolici, soprattutto inglesi, francesi e tedeschi di
religione protestante. Una cappella apposita ospita le
spoglie degli arcivescovi cagliaritani. Incuriosisce il
monumento funebre a forma di tempietto del canonico
archeologo, Giovanni Spano, che egli costruì
personalmente, utilizzando alcuni reperti archeologici
rinvenuti durante le sue numerose ed appassionate
campagne di scavi. I lavori di ampliamento del Cimitero,
eseguiti alla fine dell'800, riportarono alla luce degli
ambienti funerari risalenti ad epoca paleocristiana.
Essi sono noti come: cubicolo di Giona e tomba di
Munatius Irenaeus. Quest'ultima è visitabile all'interno
del Cimitero Monumentale.
Cittadella dei
Musei
La
Cittadella dei Musei sorge su un' area che nel corso dei secoli ha
conosciuto differenti destinazioni. La presenza di una cisterna a bagnarola
di epoca punica e di una cisterna romana a bottiglia (che fa bella mostra di sè sul pavimento della Sala Mostre Temporanee), fanno risalire la
frequentazione del luogo molto indietro nel tempo. Durante la dominazione
pisana l'intera area si trovava fuori dalle mura del Castello ed era
separata dalla Torre di San Pancrazio da un fossato e da un ponte levatoio.
La valorizzazione del luogo si ebbe con gli spagnoli che, intorno al 1552,
commissionarono al cremonese Rocco Capellino la costruzione di una struttura
difensiva cosiddetta a tenaglia. Durante il governo sabaudo divenne sede del
Regio Arsenale militare. Al 1825 risale la costruzione della Porta
dell'Arsenale progettata dal generale di Artiglieria Carlo Pilo Boyl, sul
modello della Porta del Popolo di Roma. Sull'imponente ingresso di ordine
dorico, sorretto da quattro colonne di granito, è collocata l'iscrizione che
ricorda la fondazione dell'edificio. Al di sopra della scritta Regio
Arsenale incisa in caratteri di piombo, domina lo stemma bronzeo del Regno
di Sardegna.
Il portone di bronzo collocato tra le due colonne centrali,
risale invece al 1979 e venne scolpito da Mario Salazzari e Riccardo
Cassini. Dopo il 1870 la Cittadella ospitò il Distretto Militare ed in
seguito la Caserma intitolata ad Eligio Porcu, l'eroe quartese del primo
conflitto mondiale. I bombardamenti della seconda guerra mondiale
danneggiarono gravemente l'edificio che d'allora in poi conobbe un lento ed
inesorabile degrado. Solo nel 1965 si iniziarono i lavori di
ristrutturazione che, affidati agli architetti Libero Cecchini e Pietro
Gazzola, si conclusero nel 1979. Il moderno complesso della Cittadella dei
Musei realizza un felice connubio tra le reminiscenze del passato e le nuove
strutture. Al suo interno, oltre alle preesistenze puniche e romane,
rimangono visibili frammenti di costruzioni di epoche più recenti, tra cui
la cappella del vecchio Arsenale militare, di gusto rinascimentale, dedicata
a Santa Barbara, protettrice dell'artiglieria. La Cittadella racchiude un
complesso museale di cui fanno parte:
Il Museo Archeologico nazionale
La Pinacoteca nazionale
Il Museo d'Arte Siamese S. Cardu
La Collezione di cere anatomiche C. Susini
Museo Archeologico
Nazionale
Il museo conserva le testimonianze archeologiche di tutte le civiltà ed i
popoli che, dalla preistoria (6.000 a.C.) al medioevo (VII-VIII sec.), hanno
abitato la Sardegna. I reperti che vi sono esposti provengono dagli scavi
archeologici di tutta l'isola. Una grande suggestione esercita,
indubbiamente, la copiosa collezione dei bronzetti di epoca nuragica. Il
museo conserva, inoltre, diversi oggetti ritrovati nella necropoli punica di
Tuvixeddu.
Alla fine del mese di giugno 2000, saranno inaugurati ed aperti
al pubblico altri piani d'esposizione. Orari di apertura: tutti i giorni
orario continuato dalle ore 9.00 alle 20. Chiuso il lunedì. Ingresso: €4;
gratuito sino ai 18 anni e dopo i 65 anni; riduzioni per i visitatori di età
compresa tra i 18 ed i 25 anni. Il biglietto cumulativo di €5 comprende la
visita al Museo archeologico ed alla Pinacoteca nazionale. La biglietteria
chiude mezz'ora prima dell'orario di chiusura del Museo. Per informazioni:
070 655911.
Pinacoteca
nazionale
La
Pinacoteca Nazionale di Cagliari ospita un collezione notevole di "Retabli" di epoca
quattrocentesca, ossia pale d'altare di grandi dimensioni, incorniciate, con
dipinti spesso alternati a rilievi. Originario artisticamente della Spagna,
il retablo si diffuse in Sardegna, tra il XV ed il XVIII secolo, durante la
dominazione aragonese-spagnola. Questo tipo di dipinti venivano in genere
divisi in singole opere pittoriche per ragioni espositive.
La particolarità
dei Retabli esposti nella Pinacoteca cagliaritana, consiste nel fatto che la
gran parte di essi sono stati conservati interi. Le opere esposte sono di
autori catalani, provenienti soprattutto da Barcellona, come R.Tomàs,
J.Figuera e J.Barcelo (di cui possiamo ammirare l'unica opera superstite: il
"Retablo della Visitazione"), che rimasero a lungo in Sardegna (Tomàs morì a
Cagliari) e di alcuni maestri sardi del '400, come l' anonimo maestro di
Castelsardo (autore del "Retablo della Porziuncola") e l'anonimo maestro di
Sanluri (a cui è stato attribuito il "Retablo di S.Eligio"). Sono presenti
anche opere di scuola stampacina del '500: i "Retabli" di Pietro (il
"Retablo della Deposizione") e Michele Cavaro (il "Trittico della
Consolazione" ed il "Retablo di Bonaria") padre e figlio, ed un "Retablo
della Vergine" di Antioco Mainas, opere, quest'ultime, che rispecchiano un
gusto rinascimentale.
I Retabli della Pinacoteca cagliaritana sono stati
esposti alla "Ibm Gallery of Science and Art" di New York, riscuotendo un
grande interesse ed un entusiastico apprezzamento. Oltre alla collezione di
Retabli, la Pinacoteca espone dipinti, che vanno dal XVII al XX secolo, di
varie scuole artistiche italiane, soprattutto napoletane e genovesi. Le sale
della Pinacoteca ospitano anche una notevole raccolta di oggetti artistici
di vario genere: ceramiche italiane e ispano-moresche, gioielli sacri e
profani, armi bianche e da fuoco, arredi ed altri vari oggetti di valore
artistico. Orari di apertura: tutti i giorni dalle ore 8,30 alle ore 19.
Lunedì chiuso. Ingresso: € 2; riduzioni per studenti e adulti oltre i 65
anni. Il biglietto cumulativo di €5 comprende la visita alla Pinacoteca ed
al Museo archeologico. Per informazioni: 070 674054 - 662496.
Museo d'Arte Siamese Stefano
Cardu
Il museo accoglie una stupefacente esposizione, superiore a qualsiasi altra
raccolta museale italiana, di oggetti artistici ed etnologici provenienti
dall'area geografica asiatica. La collezione espone argenti, avori,
porcellane, armi, monete e dipinti. Tra i valori conservati rivestono una
particolare importanza, sia per il numero sia per la rarità, quelli
appartenenti alla regione asiatica del Siam (antico nome della Tailandia).
Orari di apertura: dal martedì alla domenica, dalle 9.00 alle 13.00 e dalle
15,30 alle 19,30. Lunedì chiuso. Ingresso: € 2,06; € 0,52 per gli studenti
sino ai 26 anni; € 1,55 per i gruppi organizzati (minimo di 15 persone);
omaggio per i bambini sino ai 5 anni e per gli adulti oltre i 65 anni. Un
biglietto cumulativo di € 4,13 comprende una visita al Museo ed alla
Galleria Comunale d'Arte. Per informazioni: 070 651888.
Collezione cere anatomiche
Clemente Susini
La
Collezione di ceree anatomiche di Clemente Susini consiste di numerose riproduzioni (23 in tutto) di diverse
sezioni del corpo umano, ottenute utilizzando la cera. Fu il viceré sabaudo
Carlo Felice, nei primi anni dell'800, a chiederne la realizzazione allo
scultore fiorentino Clemente Susini, a cui la collezione venne in seguito
intitolata. Lo scultore ricavò le forme anatomiche in cera da dei calchi in
gesso realizzati direttamente su parti anatomiche umane, sia maschili che
femminili, che riuscì a riprodurre nei più piccoli dettagli. Carlo Felice di
Savoia acquistò le cere per esporle nel Museo di Antichità e Storia Naturale
che aveva allestito nel Palazzo Viceregio di Cagliari. In seguito, nel 1858,
esse furono trasferite nel Palazzo dell'Università per poi essere esposte,
nel 1923, presso l'Istituto di Anatomia. Dal 1991 le cere sono ospitate
nella sala pentagonale della Cittadella dei Musei. Orari di apertura: tutti
i giorni dalle ore 9 alle ore 13 e dalle ore 16 alle 19. Lunedì chiuso.
Ingresso: € 1,55; ridotto €0,52 per bambini ed adulti oltre i 65 anni. Per
informazioni: 070 6757627.
Galleria Comunale
d'Arte
La
Galleria Comunale d'Arte di Cagliari ha sede in una costruzione di stile neoclassico
a cui si accede percorrendo il vialetto d'accesso dei Giardini Pubblici.
L'edificio, immerso nel verde, fu costruito intorno alla fine del 1700 e nei
secoli passati fu sede della Polveriera regia. I primi interventi di
ristrutturazione, a seguito di un incendio, risalgono al 1822. Nel 1828
l'ingegnere comandante dell'Arsenale militare Carlo Pilo Boyl, ispirandosi
ai canoni architettonici del neoclassicismo, progettò la facciata, che
rimane l'unica parte originaria della antica costruzione.
Raccontava lo
Spano nella sua ottocentesca Guida della città e dintorni di Cagliari:
"tutti gli ornamenti, fregi e capitelli sono di pietra di Bonaria, sebbene
siano imbiancati da sembrare di stucco. L'attico è ornato nel suo finimento
di tre statue di marmo di Carrara. Quella di mezzo è di Giove Ansuro, e le
due laterali rappresentano due divinità greche, Pallade e Minerva, fatte
eseguire tutte e tre dal sullodato Conte, e da lui date in dono. Avi davanti
una tribuna che non fu terminata. Si vedono le quattro basi di colonne
preparate per innalzarvi altre quattro colonne in forma di peristilio che
avrebbero dato maggior aspetto all'edifizio. Pure fa un bellissimo effetto,
dando l'idea di un Tempio antico, sebbene sia in parte impedito dagli alberi
che stanno davanti". Alla fine del 1800, l'edificio perse la sua funzione di
polveriera e venne acquistato dal comune che lo affidò ai militari che vi
allestirono una caserma ed un magazzino.
Dal 1928, dopo un radicale
intervento di restauro affidato al cagliaritano Ubaldo Badas, la struttura
assunse la sua attuale e definitiva destinazione di Galleria Comunale
d'Arte. Gli ultimi restauri che hanno interessato la Galleria si sono
conclusi nei primi mesi del 2001. Le rinnovate sale dell'edificio hanno
riaperto al pubblico con l'esposizione permanente della "Collezione d'Arte
Francesco Ingrao" donata al comune di Cagliari il 28 luglio 1999. Si tratta
di una raccolta di 650 opere che appartengono ad un arco temporale che va
dalla metà dell'800 sino agli anni '80 del ventesimo secolo. 250 di esse, di
cui 40 sono sculture, sono distribuite in 13 sale che occupano il piano
terra ed il primo piano.
Il resto della Collezione è esposto in tre sale del
piano terra. Si tratta di 400 opere tra pitture, disegni, bronzi, gessi,
marmi, legni, che costituiscono le cosiddette "stanze del collezionista":
una serie di opere di vario genere accomunate più dalla sensibilità
artistica che dal metodo scientifico. Esse rispecchiano una tendenza molto
diffusa sin dal Rinascimento, soprattutto nei palazzi principeschi romani,
che ha dato origine ai moderni musei.
La Collezione Ingrao rappresenta un
patrimonio artistico di valore nazionale che vanta la firma dei più grandi
artisti italiani del novecento: Giorgio Morandi, Umberto Boccioni, Nino
Maccari, Giacomo Balla, Carlo Carrà, sono solo alcuni dei nomi più noti.
Sino allo scorso anno la Galleria ospitava anche l'Archivio Storico Comunale
e la Biblioteca di Studi Sardi. Attualmente entrambi sono stati trasferiti
negli appositi locali di via Newton, 5/7. Come arrivare: nel Largo Dessì,
immersa nel verde dei Giardini Pubblici.
Come arrivarci: ci si arriva con
l'autobus numero 6 e numero 7 (fermate di via Regina Elena), o a piedi dal
centro cittadino o dal quartiere di Castello, attraverso Porta S'Avanzada.
Orari di apertura: dalle ore 9 alle ore 13 e dalle ore 15,30 alle ore 19,30.
Chiuso il martedì. Ingresso: € 3,10; ridotto € 1,03 per gli studenti sino ai
26 anni; € 1,55 per gruppi di almeno 15 persone. Ingresso gratuito per i
disabili, i visitatori sino ai 6 anni ed oltre i 65 anni d'età. Un biglietto
cumulativo di € 4,13 comprende una visita alla Galleria Comunale ed al Museo
d'Arte Siamese Stefano Cardu. Per informazioni: 070 490727.
Museo del Tesoro di Sant'Eulalia
Il
Museo del Tesoro di Sant'Eulalia nasce agli inizi degli anni '90, su
iniziativa del parroco don Mario Cugusi, con il preciso intento di
preservare dalla dispersione e dall'abbandono il ricco patrimonio
storico-artistico di tre chiese: Santa Eulalia, Santa Lucia (completamente
distrutta dalle bombe durante la seconda guerra mondiale) e del Santo
Sepolcro. Il museo conserva inoltre, il ricco materiale documentario di due
importanti arciconfraternite, oggi estinte, l'Arciconfraternita del
Crocifisso, alias dell'Orazione e della Morte o del Santo Sepolcro (che si
occupava della sepoltura dei poveri e degli abbandonati) e
l'Arciconfraternita della Santissima Trinità e Prezioso Sangue di Cristo,
con particolare devozione a Santa Lucia.
Ricavato interamente negli ambienti
della parrocchia, il museo ospita, racchiusi in bacheche di vetro, numerosi
argenti facenti parte di un ricco corredo liturgico: calici, pissidi, croci
e ostensori. La preziosità di questi oggetti testimonia l'importanza che la
parrocchia aveva assunto nei secoli scorsi. Infatti, presso di essa era
stata istituita una Collegiata ed essa ospitava, inoltre, il sindacato di
quartiere. La collezione del museo comprende anche un gran numero di statue
lignee (databili tra la fine del '500 ed il '700), quasi tutte accuratamente
restaurate, scolpite da anonimi artisti sardi, qualcuna attribuita alla
scuola del Lonis (conosciutissimo artista originario di Senorbì, ma di
scuola stampacina, autore, tra l'altro, della spagnoleggiante statua lignea
di Sant'Efisio), altre ad artigiani di scuola napoletana. Di grande pregio
artistico e preziosità sono anche i paramenti sacri, pinete e piviali,
riccamente ricamati con fili di seta, oro ed argento, esposti anch'essi nel
museo. Infine, il museo si arricchisce di sette opere pittoriche di grande
impatto emotivo, tra cui un ritratto della Vergine col Bambino ed un "Ecce
Homo".
La prima pittura, donata alla parrocchia da un privato, si pensa
facesse parte di un trittico o di un polittico quattrocentesco, smembrato
nel '700. L'Ecce Homo è un olio su tela che rappresenta un Cristo sofferente
con la corona di spine sul capo, ritratto sia di fronte che di spalle.
Incerto l'autore del dipinto che alcuni critici hanno individuato nel
pittore fiammingo Bilevelt ed altri in un artista spagnolo-fiammingo del
1600, non meglio identificato. Tra gli altri dipinti uno rappresenta le
anime del Purgatorio, mentre altri quattro, olio su tela, ritraggono il
vicerè Antonio Lopez de Ayala ed i suoi familiari.
Nei locali della
parrocchia oltre al museo, si può visitare l'area archeologica di recente
scoperta. Durante i lavori di ristrutturazione della sacrestia della
Parrocchiale di Sant'Eulalia, seguendo le indicazioni rinvenute in documenti
dell'epoca, è stata ritrovata un'enorme cisterna risalente al 1857, opera
dell'architetto cagliaritano Gaetano Cima e costruita tra l'altro su una più
antica cisterna di epoca romana (del I secolo d.C). Del tutto casuale
invece, sempre durante i lavori, è stata la scoperta di un tratto di strada
romana lunga circa 16 metri, su cui sono state individuate altre costruzioni
di epoca altomedievale e numerose testimonianze (soprattutto lucerne) che
attestano la frequentazione del luogo anche in epoca paleocristiana. Come
arrivare: in vico Collegio, 2, nel cuore dell'antico quartiere della Marina.
Come arrivarci: ci si arriva facilmente a piedi dal centro della città.
Orari di apertura: tutti i giorni dalle 10.00 alle 13.00 e dalle 17 alle 20.
Chiuso il lunedì. Ingresso: € 2,58; ridotto a € 1,29 per le scolaresche.
Visite guidate. Per informazioni: 070 663724.
Museo di Bonaria
Il
Museo di Bonaria conserva i doni che, nel corso dei secoli, i fedeli
devoti alla Vergine hanno donato al Santuario in segno di riconoscenza per
le grazie ricevute. La raccolta museale infatti, allestita recentemente in
nuovi locali, consiste soprattutto di ex-voto di tema marinaresco offerti da
credenti scampati al naufragio per l'intervento miracoloso della Vergine,
esposti insieme ai preziosi regali omaggio di sovrani e papi ed alle
testimonianze archeologiche del colle e dell'opera dei frati mercedari.
Nella prima sala del Museo di Bonaria sono esposti, protetti in teche di
vetro, diversi reperti archeologici ritrovati nel colle di Bonaria che
attestano la presenza umana in questi luoghi sin dall'epoca prenuragica e
nuragica. In tempi più recenti il colle fu frequentato anche dai cartaginesi
e, successivamente, dai romani. Alcuni manifesti affissi alla parete, vicino
all'ingresso del Museo, raccontano la storia del colle di Bonaria. Nella
stessa sala sono conservati alcuni ritratti delle figure più importanti
dell'Ordine della Beata Vergine della Mercede a cui il re d'Aragona, Alfonso
il Giovane, nel 1335 fece dono della chiesa di Castell de Bonayre per
edificarvi il convento dove abitano ancora oggi.
L'Ordine della Mercede
venne fondato nel 1218 a Barcellona, da San Pietro Nolasco. Il fondatore
dell'Ordine dei Mercedari investì tutti i suoi averi per liberare dalla
schiavitù molti cristiani che venivano catturati dai mori che
imperversavano, soprattutto in quegli anni, lungo le coste del Mediterraneo.
Esaurite tutte le sue risorse personali si rivolse in preghiera alla Vergine
che lo incaricò di fondare l'Ordine e di raccogliere proseliti che lo
aiutassero in questa nobile missione. I frati dell'Ordine della Mercede con
le risorse ottenute chiedendo l'elemosina o grazie alle donazioni dei
fedeli, riscattavano gli schiavi. In Sardegna l'Ordine si fece conoscere
grazie all'opera di Carlo Catalano.
L'isola, ed in particolare le coste e
le spiagge del cagliaritano, risentirono per tutto il medioevo sino all'età
moderna, delle razzie compiute dai pirati barbareschi alla ricerca di
bottino e di uomini da rivendere nei mercati di Tunisi come schiavi. Per
questo i religiosi e la loro opera erano tenuti in grande considerazione non
solo dal popolo ma anche dalle autorità politiche aragonesi che governavano
a Cagliari. In riconoscimento dell'importanza della loro opera alcuni frati mercedari furono nominati viceré: uno di essi è Monsignor Gaspari Pietro, di
cui si può ammirare il ritratto. Altri governarono la diocesi di Cagliari
come arcivescovi. L'ultima liberazione avvenuta per l'intervento dei
mercedari risale al 1803 quando un centinaio di carlofortini riacquistarono
la libertà dopo quasi 15 anni di prigionia.
Nelle teche del Museo sono
esposti alcuni ex-voto donati dai fedeli riconoscenti che riuscirono a
liberarsi grazie all'opera dei frati: catene molto pesanti, ed ormai
arrugginite, che stringevano i polsi dei prigionieri, un osso di bue usato
come remo e numerose uova di struzzo. Proseguendo la visita lungo il
corridoio del Museo, possiamo ammirare la ricchissima collezione di ex-voto
di tema prevalentemente marinaresco, in quanto la Madonna di Bonaria è
considerata, in particolare, la protettrice dei naviganti. Sono bellissimi i
numerosi modellini di navi donati come ex-voto, la maggior parte dei quali
riproducono imbarcazioni che hanno realmente solcato i mari del mondo.
Molte
di queste riproduzioni artigianali sono delle vere e proprie opere d'arte e
rappresentano una testimonianza unica dell'evoluzione dell'arte navale. Alle
pareti sono appesi tantissimi quadri, anch'essi dono di fedeli riconoscenti
alla Vergine di Bonaria. Questi dipinti raffigurano scene di naufragi in cui
è sempre presente, avvolta dalla luce, l'immagine della Madonna di Bonaria
che accorre in soccorso dei naviganti sorpresi dalle intemperie del mare. In
quasi tutti i quadri sono dipinte le lettere V F G A, che sono le iniziali
della frase latina: Votum feci gratia abui, cioè Ho fatto un voto ed ho
ottenuto la grazia; oppure le lettere P G R, iniziali della frase: Per
grazia ricevuta. Altri ex-voto conservati nelle vetrine sono stati donati da
associazioni sportive.
Tra essi c'è anche la maglia del calciatore Gigi
Riva. Continuando la visita al Museo, lungo il corridoio incontriamo una
testimonianza molto importante della vita del Convento: un'antica cisterna
ricavata nella roccia calcarea. Essa veniva utilizzata per incanalare
l'acqua piovana, dalle terrazze e dai tetti, fungendo da riserva idrica per
il Convento. L'acqua si attingeva con delle carrucole che col passare dei
secoli hanno lasciato i segni delle corde che possiamo osservare sulle
pareti della cisterna.
I frati usufruirono di questa riserva sino ai primi
decenni del 1900. Altre teche esposte nel corridoio conservano varie armi
antiche, tra cui sciabole e rivoltelle, donate alla Madonna come ex-voto per
lo scampato pericolo di guerra. La seconda sala del Museo ospita i modellini
navali più antichi e di maggior valore. Essi testimoniano l'evoluzione
dell'ingegneria navale dalle galere alle navi a vapore. Un altro modellino
navale si trova nel Santuario di Bonaria. È la navicella d'avorio che pende
dalla volta del presbiterio ed è il più antico ex-voto donato alla Madonna,
risale infatti al XIV secolo.
Si dice che questa navicella venne donata da
una distinta pellegrina (rimasta anonima) diretta in Terra Santa, la cui
nave approdò sulla spiaggia di Bonaria. La particolarità della navicella è
che essa segnala con i suoi spostamenti la direzione dei venti che soffiano
nel Golfo degli Angeli. Essa inoltre rappresenta uno dei primi modelli di
unico timone poppiero centrale. L'introduzione di un solo timone, in
sostituzione dei due laterali di cui le navi erano dotate precedentemente,
fu una innovazione molto importante nella storia dell'evoluzione dell'arte
navale.
La navicella d'avorio di Bonaria è una testimonianza unica del
progresso dell'ingegneria navale se si pensa che nel 1400 la gran parte
delle navi che solcavano i mari, avevano ancora due timoni laterali.
Un altro importante dono esposto in questa sala è l'ancora d'argento che la
Regina Margherita regalò al Santuario come ex-voto, nel 1899. Questo
prezioso omaggio è il ringraziamento della sovrana alla Madonna per aver
protetto il figlio, duca degli Abbruzzi, durante una spedizione al Polo
Nord, con la nave Stella Polare. La sala conserva anche l'ultimo ex-voto
donato al Santuario: un telegrafo. Sempre nella seconda sala, si possono
osservare, protetti dentro una teca di vetro, i corpi mummificati della
nobile famiglia Alagon, marchesi di Villasor. Essi morirono di peste nel
1605 e furono sepolti ai piedi del Santuario di Bonaria, di cui
probabilmente erano dei benefattori.
Essi vennero sepolti nella roccia
calcarea del colle ed il carbonato di calcio prodotto all'interno della
sepoltura ne permise la mummificazione spontanea. La visita al Museo si
conclude nella terza sala dove è esposto il Tesoro del Santuario. Il Tesoro
consiste in diversi doni di grande valore offerti alla Madonna di Bonaria da
Papi, arcivescovi e sovrani. Papa Giovanni Paolo II in occasione della sua
visita al Santuario nel 1985 donò il rosario che si può vedere nella teca di
vetro al centro della sala. Il suo predecessore, Paolo VI, lasciò al
Santuario i paramenti sacri ed un calice che usò durante le celebrazioni da
lui officiate nella chiesa di Bonaria, nel 1970.
Il cardinale Baggio donò
alla Madonna un anello, che aveva a sua volta ricevuto in dono da Papa Paolo VI. Gli altri preziosi paramenti liturgici esposti nella sala e ricamati con
fili d'oro e d'argento, furono donati da alti prelati o da famiglie nobili.
La teca centrale che custodisce gli ori del Museo, conserva le corone d'oro
che il sovrano di Sardegna Carlo Emanuele I e la sua gentile consorte
donarono al Santuario nel 1806. Esse adornavano il capo del simulacro ligneo
della Vergine e del Bambino che si trova nell'abside del Santuario. In
seguito, per ragioni di sicurezza, ne venne fatta una copia e gli originali
sono ora gelosamente conservati nel Museo.
Nella teca ci sono tantissimi
gioielli, dono di famiglie abbienti o nobili, che si usava appuntare su un
corpetto che in occasione di particolari ricorrenze veniva fatto indossare
alla statua della Vergine. I rosari che sono appesi alla parete sono invece
degli ex-voto offerti in segno di ringraziamento alla Madonna per una grazia
ricevuta. Come arrivare: in piazza Bonaria, 2. Al Museo si accede
dall'ingresso a destra del Santuario di Bonaria.
Come arrivarci: l'autobus
numero 5 arriva direttamente sulla piazza di Bonaria.
Orari di apertura: Il
Museo di Bonaria è aperto al pubblico tutti i giorni, compresa la domenica,
secondo i seguenti orari: la mattina dalle ore 10 alle 12 ed il pomeriggio
dalle ore 16 alle 18,30. L'ingresso al Museo è libero, è gradita l'offerta.
Per informazioni: 070 301747.
Lazzaretto di
Cagliari
I documenti storici più attendibili attestano l'esistenza del lazzaretto
già a partire dal 1600, anche se, presumibilmente, la struttura originaria,
in legno, si può far risalire addirittura al 1400. Il lazzaretto nacque
dall'esigenza di isolare in quarantena le persone colpite da malattie
infettive quali vaiolo, peste, colera e lebbra, molto diffuse nei secoli
scorsi, per evitare il contagio della popolazione sana. L'edificio nei primi
secoli contava poche stanze ed un magazzino adibito a sciorinatoio delle
pelli e delle merci sospettate di essere venute a contatto con malatti
infettivi.
Grazie alla sua posizione centrale, esso divenne uno dei più
affollati del Mediterraneo. Nel 1835 Carlo Alberto di Savoia ordinò la
costruzione del piano superiore riservato agli infetti di nobile stirpe che,
dalla terrazza delle loro stanze, potevano godere un'invidiabile vista sul
Golfo degli Angeli. Di fronte al lazzaretto sorge la Torre del Lazzaretto
conosciuta anche come "Torre de su perdusemini". Essa, insieme alla Torre
delle Stelle, nella fortezza di Villasimius, ed alla Torre di Cala Pira,
nelle giornate di cielo limpido costituiva un ottimo punto di osservazione
da cui vigilare sull'intera costa di sud-est dell'isola e dare l'allarme in
caso di eventuali tentativi di invasione. Inoltre, dalla Torre si
controllava che nessun malato infetto scappasse dal lazzaretto: per i
temerari che tentavano la fuga era prevista la fucilazione!
Alla fine del
1800 risale anche il chiostro, percorso sotterraneamente da una cisterna
alimentata con l'acqua piovana. La bottola di accesso alla cisterna si può
osservare ancora oggi. Il canonico Spano, che fu ospite del lazzaretto per
un mese, così lo descriveva: "Il lazzaretto venne fabbricato da molto tempo
in questo sito, che migliore non poteva desiderarsi. Venne riordinato, ed
accresciuto dal Re Vittorio Amedeo II: ma nel 1835 fu riformato, e vi furono
ben assettate le camere superiori dove i passeggeri possono vivere
comodamente, e separati: bisogna però dire che non soddisfa ai presenti
bisogni, allorquando accorrono passeggeri da diverse provenienze per
scontarvi la contumacia, come accadde nel 1837 mentre infieriva il Cholera
morbus in tutta Italia...
In mezzo all'atrio interno vi è la Cappella in
forma di un Tempio rotondo. Vi sono vasti magazzini dove si sciorinano le
mercanzie in tempo sospetto. In uno degli atrii destinato a cimitero..."
(cfr. G. Spano "Guida della città e dintorni di Cagliari"). Col trascorrere
dei secoli e con il ridursi delle epidemie, il lazzaretto venne adibito a
diverse destinazioni. Nel 1879 ospitò i bambini colpiti da scrofolosi della
provincia di Cagliari; nella prima guerra mondiale i malati di tifo
petecchiale; ed infine, durante la seconda guerra mondiale, accolse gli
sfollati le cui abitazioni caddero sotto il peso delle bombe. Furono proprio
questi ultimi che fondarono, nel secondo dopoguerra, il vecchio borgo di
Sant'Elia.
Nei secoli seguenti la struttura venne abbandonata. Solo nel 1997
il comune di Cagliari intraprese i lavori di restauro che hanno restituito
alla città un nuovo e bellissimo spazio culturale. Il lazzaretto rinnovato
conta diversi ambienti riservati a mostre temporanee e permanenti. La sala
più grande si pensa che anticamente ospitasse il magazzino e fungesse da sciorinatoio delle pelli provenienti dai paesi dove imperversavano i morbi
infettivi. Unica parte originaria della struttura antica è un tratto di
pavimento in trachite. In un'altra sala è narrata la storia e le
vicissitudini architettoniche del lazzaretto, ripercorsa con l'ausilio di
pannelli esplicativi appesi alle pareti, mentre un plastico riproduce
l'edificio nelle sue forme attuali. Diverse sono le sale polifunzionali
adibite a mostre temporanee.
Una sala della capienza di cento posti, con
relativa sala regìa, è riservata ai convegni. Infine, un ultima sala funge
da Mediateca. Essa ospiterà i corsi di informatica organizzati per le scuole
medie di Sant'Elia e i corsi regionali. Il Lazzaretto espone la mostra
permanente "I fili d'Arianna", collezione etnografica di manufatti dell'800
appartenuta alla famiglia Manconi-Passino e donata al comune di Cagliari. La
città di Cagliari tra i pali d'AragonaDella struttura originaria rimangono
il dipinto di un angioletto (affrescato su una parete, verso l'uscita), che
l'architetto responsabile del restauro ha voluto rimanesse visibile anche
nella moderna costruzione, e lo stemma aragonese della facciata.
Esso risale
al periodo spagnolo (1600) e rappresenta la città di Cagliari tra i pali
d'Aragona. Il lazzaretto è circondato da un bellissimo prato verde e si
affaccia sul mare azzurro del Golfo degli Angeli. La domenica mattina si
riempie delle voci e del profumo del pesce appena pescato, venduto nel
vicino mercato di Sant'Elia.
Come arrivare: nel cuore del vecchio Borgo
Sant'Elia. Come arrivarci: con l'autobus numero 6. La domenica mattina, a
causa del mercato, il percorso dell'autobus viene deviato perciò si
consiglia di scendere alcune fermate prima del vecchio borgo e proseguire a
piedi.
Orari di apertura: dal martedì al sabato dalle ore 9 alle ore 13,30 e
dalle ore 16,30 alle 19,30. Chiuso il lunedì, il 25 dicembre ed il 1°
gennaio. Ingresso: visite alla struttura € 1,50; per le mostre varia. Per
informazioni: 070 3838085. Il lazzaretto, dopo anni di abbandono e l'ultimo
restauro iniziato nel 1997 a cura del comune di Cagliari, è stato riaperto
al pubblico in occasione della manifestazione "Monumenti Aperti" del 28/29
ottobre 2000.
Collezione sarda Luigi Piloni
La
Collezione di Luigi Piloni è costituita dalle numerose opere artistiche
e artigianali sarde che il ricercatore raccolse dopo anni di appassionata
ricerca, donandole, nel 1981, all'Università di Cagliari. Questa ricca
raccolta è ospitata nei locali di un palazzo settecentesco, l'ex Seminario
Tridentino, affianco ai locali sede del Rettorato. Gli oggetti della
raccolta sono esposti in sei sezioni. Spostandoci da una sezione all'altra,
possiamo ammirare i ritratti di sardi illustri, rari dipinti di artisti
cagliaritani del '500 ( un ritratto di "Santa Chiara" di Michele Cavaro ed
una "Sepoltura di Cristo" di Antioco Mainas), acquerelli, raffigurazioni di
Santi isolani, una rassegna delle opere dei più rappresentativi pittori
sardi del '900, antichi e preziosi oggetti di artigianato sardo (mantas,
coberibancus e bertulas), gioielli, rosari, disegni, stampe e carte
geografiche della Sardegna. Come arrivare: la collezione è ospitata presso i
locali della Università degli Studi di Cagliari, in via Università, 32.
Museo Ferroviario
Sardo
Il
Museo Ferroviario Sardo, allestito nei locali della Stazione
ferroviaria, espone in un unica sala circa un centinaio di testimonianze che
raccontano l'evoluzione del trasporto ferroviario in Sardegna. La collezione
comprende fotografie, disegni, modelli di ponti e locomotive, un modellino
del traghetto "Gennargentu" perfettamente funzionante, vari arredi e altri
oggetti tipici dell'attività ferroviaria. Una particolarità ospitata dal
Museo è sicuramente il salotto della carrozza personale di Vittorio Emanuele
III, che andò distrutta durante i bombardamenti della seconda guerra
mondiale, con le poltroncine realizzate su misura per il sovrano.
L'idea di
un museo ferroviario nacque nel 1985. L'iniziativa fu incoraggiata dal
grande successo di pubblico e dall'entusiastico interesse che accolse una
mostra temporanea ospitata nel 1984 alla Cittadella dei Musei, in occasione
dei festeggiamenti per i cento anni delle Ferrovie sarde. Immagini e notizie
approfondite sull'allestimento museale sono reperibili sul sito del Museo
Ferroviario sardo a Cagliari, curato dall'Associazione Sardegnavapore.
Come arrivare: via Sassari, 24 , presso la Stazione delle Ferrovie di Stato (si
accede dall'ingresso delle auto). Come arrivarci: ci si arriva a piedi dal
centro della città. Orari di apertura: il Museo apre solo su prenotazione e
per gruppi da 5 a 30 visitatori. Ingresso gratuito. Per informazioni: 070
6794715 - 070 6794512.
Ghetto di Cagliari
Con l'impropria denominazione di
"Ghetto degli ebrei" si intende indicare la
caserma costruita nel 1738, sotto il regno sabaudo di Carlo Emanuele III e
voluta dal viceré Carlo di Rivarolo, per alloggiare il reparto di
artiglieria dei Dragoni. La caserma, dedicata a San Carlo, sorgeva sul
Bastione di Santa Croce e si affacciava sulla via del Cammino Nuovo. Il
luogo è tradizionalmente conosciuto come ghetto degli ebrei perchè essi
anticamente abitavano nella zona di Castello compresa tra la via Santa Croce
(chiamata per questo vicus iudeorum), dove sorgeva anche la sinagoga (nel
luogo occupato attualmente dalla Basilica di Santa Croce), e la via Stretta
(via del vino).(La presenza in città, sin dall'antichità, di una comunità
ebraica è attestata dall'epistolario di papa Gregorio Magno che intervenì
presso il vescovo di Cagliari Gianuario essendo venuto a conoscenza di un
episodio di intolleranza religiosa.
Nella Pasqua del 599, accade che un
ebreo, Pietro, da poco convertito al cristianesimo, fece irruzione nella
sinagoga imponendo con la forza un'immagine della Madonna ed un crocifisso e
cacciandone i suoi vecchi compagni di fede. Il pontefice non gradì questo
gesto ed insistette presso Gianuario perchè la sinagoga fosse restituita
agli ebrei.) Nel 1492 gli ebrei vennero cacciati da tutti i possedimenti del
re di Spagna e quindi anche dalla Sardegna. Alcuni di essi rinunciarono alla
loro religione pur di rimanere in città, altri invece lasciarono
definitivamente l'isola.
Prima dell'editto di espulsione la loro presenza
dentro le mura del Castello (dalle quali invece, per diverso tempo, furono
esclusi i cagliaritani ed i sardi in genere) era stata tollerata in quanto
gli ebrei svolgevano una fervida attività finanziaria e commerciale, molto
vantaggiosa per i governanti della città e dell'isola. Tuttavia, nonostante
il privilegio di abitare nel Castello, erano costretti a sopportare
umiliazioni molto pesanti: avevano l'obbligo di portare sugli abiti un
drappo giallo come segno distintivo, di inginocchiarsi o nascondersi al
passaggio di processioni in cui veniva portata la statua di Cristo, erano
costretti a pagare una tassa annua e non potevano indossare ornamenti d'oro.
La cinta muraria, nota come bastione di San Giovanni, su cui sorgeva la
caserma, alla fine del 1400, però, non era ancora stata costruita. Essa
risale infatti soltanto al 1568 e venne eretta dall'architetto militare
Rocco Capellino, per volere del re di Spagna Filippo II. La caserma San
Carlo mantenne la sua destinazione originaria sino al 1800. Alla fine del
secolo XIX essa ospitava ben 342 uomini e 40 cavalli ed i suoi ambienti
erano adibiti ad alloggi per i veterani, scuderie per i carabinieri,
magazzini del Genio ed uffici dell'Intendenza.
Assolta la sua funzione
militare, essa seguì la sorte di molti beni demaniali. Acquisita da privati
cittadini l'area divenne zona abitativa destinata a famiglie povere. Prima
dei recenti interventi di restauro, le rovine dell' ex caserma erano
indicate dagli abitanti di Castello come su quartieri becciu. Percorrendo la
via Santa Croce, alcuni metri prima dell'ingresso della nuova struttura
museale, sulla sinistra, si incontra il vecchio portico di accesso alla
caserma S. Carlo (che oggi immette ad abitazioni private) con l'iscrizione
ancora leggibile che indica la data di edificazione. Essa dice: CAROLUS
EMMANUEL SARDINIAE REX OPTIMUS CAROLI MARCHIONIS RIVAROL PRO REGIS STATIONEM
HANC MILITUM SOTATIO POSITAM DIVI CAROLI SAPIENTER ORNAVIT ANNO DOMINI
MDCCXXXVIII
La caserma San Carlo, o ghetto degli ebrei, è stata restaurata e
restituita alla città ed al suo quartiere, sebbene con una destinazione
molto differente da quella originaria. L'ex caserma, che conserva tra le
mura fresche di restauro anche qualche testimonianza dell'architettura
antica, è stata riaperta al pubblico in occasione della manifestazione
"Monumenti Aperti" del 28 e 29 ottobre 2000. Le sue nuovissime sale, che si
articolano su diversi piani, ospiteranno mostre temporanee, convegni e varie
iniziative culturali.
Come arrivare: in via Santa Croce, n° 18, nel cuore
dello storico quartiere di Castello. Come arrivarci: ci si arriva a piedi o
con il minibus numero 7. Orari di apertura: dal martedì alla domenica dalle
10,30 alle 13 e dalle 17 alle 20,30. Chiuso il lunedì. Ingresso: € 2,60 per
singola mostra; € 4,50 per tutte le esposizioni. Per informazioni: 070
6401730.
Centro d'Arte e
Cultura Exmà
L'Exmà, come suggerisce il nome stesso, è il locale che un tempo era
adibito al macello del bestiame. Esso venne costruito nell'800 da Domenico
Bocabino e rimase in funzione sino al 1966, anno in cui entrò in funzione il
nuovo mattatoio di via Po. Il locale originario, che occupava un'area più
ampia rispetto alla struttura attuale (che venne ristretta in seguito
all'allargamento della via Sonnino, negli anni trenta), era costituito da un
edificio centrale e da quattro locali secondari distribuiti agli angoli. Al
centro della struttura una grande cisterna riforniva l'acqua necessaria al
funzionamento del macello.
Caratteristico l'antico portone che si affacciava
sulla via San Lucifero: esso era sormontato da una protome bovina in marmo
in posizione centrale, stretta tra due protomi di montone anch'esse di marmo. L'ingresso odierno (come si può osservare dalla foto),
che si affaccia su via San Lucifero, ha conservato la marmorea protome
bovina centrale. Debitamente ristrutturato, l'edificio è divenuto uno degli
spazi culturali più vivaci della città. Nei suoi ampi locali ospita mostre
temporanee, spettacoli teatrali e musicali. All'interno dell'edificio c'è
anche un locale disco bar.
Come arrivare: in via San Lucifero, 71. Come
arrivarci: ci si arriva vicino con l'autobus numero 1 ed M, fermate di via Sonnino. Orari di apertura: dalle ore 9 alle ore 20. Lunedì chiuso.
Ingresso: € 3; ridotto € 1. Per informazioni: 070 666399.
Anfiteatro Romano di Cagliari
L'Anfiteatro
Romano di Cagliari è la testimonianza più imponente della presenza romana a
Cagliari. Il canonico Spano la definì: l'opera più maravigliosa del tempo di
Cagliari romana. L'anfiteatro si trova ai piedi della passeggiata di viale
Buoncammino in un'area di notevole importanza archeologica che si estende
sino all' Orto botanico (nella cosiddetta "vallata di Palabanda") ed alla
Villa di Tigellio. La sua costruzione è datata tra il I° ed il II° secolo
dopo C. La maggior parte delle gradinate dell'edificio insieme all'arena e
ad altri ambienti furono ricavate scavando direttamente nella roccia della
vallata.
Per il resto della costruzione (e soprattutto per la facciata
meridionale andata distrutta) si utilizzarono i blocchi calcarei provenienti
dalle numerose cave delle vicinanze. Una di esse, in seguito trasformata in
cisterna, si trova all'interno dell'Orto dei cappuccini di viale Fra
Ignazio. Purtroppo il complesso archittetonico, rispetto al suo aspetto
originario, è stato privato di gran parte delle sue numerose gradinate, per
le quali in passato era stato soprannominato Centu scalas, che vennero
utilizzate, nel corso dei secoli, come materiale da costruzione.
Il prelievo
dei blocchi dalla struttura, evidente dai tagli netti visibili soprattutto
nella parte posteriore, iniziò intorno al 1217 con i Pisani che avevano
intrapreso la costruzione delle mura del Castello ed è proseguita fino al
momento in cui il Comune, verso la metà del 1800, dichiarò l'area "proprietà
comunale". Fu grazie all'opera instancabile del canonico Spano che
l'anfiteatro fu riportato al suo meritato splendore e ripulito dei detriti e
della terra che l'avevano quasi sepolto. Egli, durante la sua campagna di
scavi, trovò numerosissime lastrine di marmo che originariamente dovevano
ricoprire le gradinate.
Si stima che l'anfiteatro nell'epoca del suo
maggiore splendore potesse ospitare circa diecimila spettatori. Si possono
osservare, quasi intatte, all'interno della struttura le fosse in cui
venivano tenute le belve per gli spettacoli e tre diversi livelli di
gradinate, riservate ciascuna ad una distinta classe sociale di
appartenenza, ognuna delle quali faceva il suo ingresso all'anfiteatro da un
proprio passaggio. Il podium, immediatamente al di sopra dell'arena, era
riservato ai personaggi più importanti; l'ima, la media e summa cavea erano
destinate alle classi sociali dei liberi (divisi secondo l'ordine di
importanza in senatores, equites, plebei e servi). Sull'ultima gradinata
coperta, la galleria, prendevano posto le donne e gli schiavi.
Gli
spettacoli che si svolgevano all'anfiteatro di Cagliari erano soprattutto
combattimenti all'ultimo sangue tra gladiatori (munera) e scontri tra
gladiatori ed animali feroci (venationes). Sull'arena si rappresentavano
anche opere teatrali. Inoltre vi si eseguivano le sentenze capitali e "nel
tempo in cui il paganesimo infieriva barbaramente contro i cristiani, molti
dei martiri sardi avranno lasciato la vita in questo recinto, combattendo
colle fiere per sollazzare un popolo avvezzo a divertimenti sanguinosi" (G.
Spano, Guida della città e dintorni di Cagliari, 1861). I prigionieri
venivano incarcerati all'interno del cisternone dell' Orto dei cappuccini,
come testimoniano le trenta anelle ricavate alle pareti, cui erano legati i
condannati. L'anfiteatro è collegato al cisternone da un passaggio lungo 96
metri cui si accede attraverso una apertura scavata nella roccia (euripus)
sul lato sud dell'arena.
Questo canale, tranquillamente percorribile,
serviva per convogliare l'acqua piovana che si raccoglieva sulle gradinate
dell'anfiteatro all'interno della cisterna in seguito adibita a carcere.
Altri tratti dello stesso canale, che si sviluppavano in diverse direzioni,
sicuramente alimentavano le cisterne dell'Orto botanico. Dopo il 313,
quando, con l'Editto di Costantino, il cristianesimo divenne religione
dell'impero anche l'anfiteatro di Cagliari perse di importanza. Si hanno
notizie della sua esistenza ed integrità nel 777 d. C. quando per
festeggiare la cacciata dei saraceni "ivi si fece una giostra di tori e la
carne fu tutta distribuita al popolo" (G. Spano, Guida della città e
dintorni di Cagliari, 1861).
Durante il secondo conflitto mondiale i
sotterranei dell'anfiteatro hanno dato rifugio ai cagliaritani le cui
abitazioni vennero distrutte dalle bombe. Da diversi anni l'anfiteatro
ospita le manifestazioni liriche e musicali della stagione estiva
cagliaritana. Come arrivare: l'Anfiteatro si trova in Viale Fra' Ignazio
(nello stesso viale in cui si trovano le facoltà universitarie di: Scienze
politiche, Economia e commercio e Giurisprudenza) ai piedi di viale
Buoncammino e di fronte alla chiesa di Sant'Ignazio da Laconi o dei
Cappuccini.
Come arrivarci: non esiste una linea che arrivi direttamente sul
posto, vi arrivano molto vicino l'autobus numero 8 (fermate di viale Buoncammino) e l'autobus numero 5 (fermate di viale Merello). Ci si può
arrivare facilmente anche a piedi dal centro della città.
Orari di apertura:
dal 1° Novembre al 31° Marzo orario continuato dalle 10,00 alle 16,00; dal
1° Aprile al 31° Ottobre la mattina dalle 10,00 alle 13,00 ed il pomeriggio
dalle 15,00 alle 18,00. Visite guidate dal Martedì alla Domenica. Visite
guidate per scolaresche e gruppi previa prenotazione. Per informazioni:
070/652956 - e-mail: info@anfiteatroromano.it. Chiuso il lunedì. Tariffe
d'entrata: Biglietto intero € 3,00 Biglietto ridotto (studenti fino al 26°
anno di età, militari di leva, scolaresche e insegnanti) € 2,00 Biglietto
ridotto (gruppi organizzati, scuole di formazione e similari per un numero
non inferiore a 15 persone) € 1,50 Biglietto Omaggio (persone oltre i 65
anni, bambini fino a 5 anni, portatori di handicap e accompagnatori).
Basilica San
Saturnino
La
Basilica di San Saturnino è uno dei più antichi luoghi di culto cristiano
edificato in Sardegna, la sua costruzione risulta documentata infatti già
dal V-VI secolo d. C. "Questo Tempio è il più storico che abbiamo in
Sardegna", scriveva il Canonico Spano nella sua ottocentesca Guida della
città e dintorni di Cagliari. Nella Vita Fulgentii, biografia di San
Fulgenzio da Ruspe scritta da Ferrando nel VI secolo, l'autore cita il
monastero che Fulgenzio, durante il suo esilio in Sardegna, eresse nei
pressi della chiesa dedicata al giovane martire Saturnino.
Gli studi di
alcuni archeologi, inoltre, hanno confermato che il corpo cupolato e ciò che
resta dell'abside della originaria Basilica, si collocano certamente intorno
al V secolo. La Basilica fu elevata sul luogo in cui era stato sepolto il
giovane martire cristiano Saturnino, che la città di Cagliari invoca come
suo patrono e festeggia il 29 novembre. Tutta l'area circostante l'edificio,
compresa la chiesa di San Lucifero sino al colle di Bonaria, apparteneva
alla necropoli orientale della città romana.
Nei primi anni del
cristianesimo intorno alla tomba di San Saturnino si moltiplicarono le
sepolture cristiane che furono riportate alla luce per la prima volta nel
'600, insieme alle ("presunte") reliquie del santo, e, recentemente, durante
gli scavi intrapresi alla fine degli anni novanta e tuttora in corso. La
Passio del giovane martire descrive il luogo dove venne deposto il suo corpo
come una crypta. Narra inoltre che Saturnino, educato sin da tenera età al
cristianesino, fu martirizzato, il 23 novembre del 304, a soli 19 anni:
durante lo svolgimento di un rituale pagano nel Capitolium romano (il
santuario dedicato alla triade capitolina: Giove, Minerva e Giunone), nei
pressi nell'attuale piazza del Carmine, fu accusato di essere il
responsabile dei cattivi presagi rivelati dal rito e cadde vittima della
folla.
Il suo corpo esangue venne poi trasportato, complice l'oscurità della
notte, nella necropoli orientale della città romana per esservi sepolto,
probabilmente in una tomba di famiglia. Il 14 ottobre del 1621, nella prima
cappella a destra del presbiterio della Basilica, si ritrovarono le sacre
spoglie del patrono della città. Gli scavi alla ricerca dei corpi dei santi
martiri cagliaritani (la cosiddetta "invencion de los cuerpos santos")
intrapresi nel 1600, iniziarono infatti dalla Basilica di San Saturnino.
Situata fuori dal centro abitato, essa era circondata da campi e orti. Si
conoscevano bene le sue antiche origini e si sapeva che essa era sorta sul
luogo di sepoltura di Saturnino, vittima della persecuzione di Diocleziano.
La Basilica, verso il VI secolo d.C., venne concessa dall'arcivescovo di
Cagliari Brumasio ai vescovi africani esiliati dal vandalo Trasamondo. Tra
essi vi erano San Fulgenzio da Ruspe, che vi eresse un monastero, ed il
vescovo di Ippona che portò con sé le reliquie del suo predecessore, Sant'
Agostino.
I vescovi esiliati condussero seco le reliquie di numerosi martiri
con l'intento di preservarle dalla profanazione pagana (una Passio del IV
secolo elenca i nomi di decine di martiri africani di Abitine, caduti
vittime delle persecuzioni del 304, tra i quali figura anche quello di Santa
Restituta). Diverse reliquie vennero donate loro dal papa sardo Simmaco
perchè fossero di esempio e di sostegno nella dura prova dell'esilio. Le
vicende storiche del luogo convinsero i ricercatori del diciassettesimo
secolo, guidati dall'arcivescovo spagnolo Francisco Desquivel (che resse
l'archidiocesi di Cagliari dal 1605 al 1624), che le prime testimonianze del
cristianesimo in città erano sepolte in quei luoghi.
La certezza del
ritrovamento delle reliquie del martire Saturnino, si basò su un'iscrizione
che diceva: "SANCTUS TURNINUS CALARITANU". Una seconda iscrizione in latino
volgarizzato, risalente cioè ad un epoca più tarda, fugò tutti i dubbi. Essa
riportava queste parole: "IN HOC TEMPLO IACET BM ET SM SATURNINUS CIVES QUI
VIXIT ANIS XVIII ET MENSIS V ET DIES VIII ET EGO CLAUS PI M DO CON LOCU K
XXVIII NOVEMBR". Anche in questa circostanza le iniziali B M vennero
interpretate nel significato di BEATUS MARTIR e non in quello più consono di
BONAE MEMORIAE.
Questo equivoco ricorrerà per tutto il corso delle ricerche
de los cuerpos santos e su di esso si baserà essenzialmente l'attribuzione
di santità alle spoglie ritrovate, che potevano legittimamente appartenere a
semplici credenti. In realtà questa erronea interpretazione non risulta del
tutto inconsapevole, tuttavia l'urgenza di voler a tutti costi credere che
di sante reliquie si trattasse, travalicò ogni prudenza. Ciò appare ancor
più comprensibile se si inquadra la invencion de los cuerpos santos nella
lotta per il Primato di Sardegna e Corsica, sorta da tempo immemorabile, tra
il vescovo di Cagliari ed il vescovo di Sassari. Allora assunse
un'importanza vitale dimostrare l'antichità della propria diocesi ed il
numero di sante reliquie ritrovate diventò determinante per risolvere la
disputa a favore dell'uno o dell'altro contendente. Intanto le sante
reliquie di San Saturnino furono portate in cattedrale con una solenne
processione ed esposte alla venerazione dei fedeli.
Ancora oggi riposano
nell'altare della cappella che il Desquivel volle dedicare al patrono di
Cagliari, all'interno della cripta del duomo, insieme alle sante reliquie
dei numerosi (e "presunti") martiri cagliaritani riportate alla luce nello
stesso periodo. I ricercatori del '600 furono troppo entusiasti per la
eccezionalità della scoperta che non si posero (o, forse, non vollero porsi)
dubbio alcuno sulla autenticità delle lapidi marmoree, uniche testimonianze
dell'appartenenza delle spoglie ritrovate al martire Saturnino. Molti
studiosi, invece, hanno messo in dubbio l'autenticità di entrambe le
iscrizioni e alcuni di essi contestano addirittura la validità di tutte le
iscrizioni ritrovate sulle tombe scavate nel '600.
Secondo una diversa
tradizione le spoglie di San Saturnino sarebbero conservate a Milano nella
chiesa di San Vittore al Corpo. Ivi sarebbero giunte con il re longobardo Liutprando insieme alle reliquie di Sant' Agostino di Ippona e dei martiri
sardi Lussorio, Cesello, Camerino e altri, che egli riscattò dagli Arabi.
Questa interessante tesi ha ricevuto ulteriore conferma dopo che
l'arcivescovo di Milano, Ildefonso Schuster, nel 1938, ordinò la
ricognizione canonica delle reliquie ritenute appartenere al patrono
cagliaritano. Il risultato dell'analisi antropologica confermò che si
trattava del corpo di un giovane la cui morte era stata provocata da una
ferita da taglio inferta sul cranio.
Il particolare della giovane età e le
circostanze della morte collimano perfettamente con quanto è riportato nella
Passio di San Saturnino. alla fine degli anni novanta, tutta l'area intorno
alla Basilica è oggetto di interessanti scavi archeologici che stanno
riportando alla luce numerosi ambienti funerari risalenti ai primi albori
del cristianesimo e ad epoca bizantina. Già nella prima metà degli anni
cinquanta, quando si costruì la piazza, in corrispondenza dei gradini che
conducono alla Basilica, si ritrovarono diverse sepolture ancora intatte che
contenevano iscrizioni funerarie.
Le iscrizioni collocate sulle tombe
rappresentano una grande testimonianza lasciataci da chi ci ha preceduto nel
cammino della storia. Nella Basilica di San Saturnino, sia negli scavi
improvvisati del 1600, sia negli scavi attuali, sono state riportate alla
luce diverse epigrafi, molte delle quali sono esposte nel cortile davanti
all'ingresso. Le iscrizioni delle sepolture cristiane, soprattutto negli
anni successivi alle persecuzioni quando cioè la nuova religione poteva
essere praticata liberamente, si distinguono dalle iscrizioni romane.
Le
epigrafi romane indicavano il nome completo del defunto e facevano
riferimento anche alle relazioni di parentela, come testimoniano i numerosi
cippi funerari emersi, alla fine del 1800, in viale Regina Margherita. Nelle
epigrafi cristiane il solo nome è sufficiente per identificare il defunto.
Nome che può essere inerente alla religione, alla provenienza geografica,
allo status sociale o all'attività che caratterizzavano la persona durante
la vita.
Il momento determinate ormai è quello della morte, il requiescit in
pace die che segna il passaggio dalla vita terrena alla vita eterna. Tra le
diverse iscrizioni ritrovate nella Basilica, alcune rivestono una
particolare importanza. Una di esse, che tra l'altro si distacca dalla
tradizione che abbiamo descritto sopra perchè indica il rapporto di
parentela esistente tra il dedicante (il padre addolorato) e il defunto (il
figlio), riporta una citazione molto colta, che non è stata ripresa in altre
epigrafi. Si tratta del Salmo 50 di Davide: il Miserere ("Pietà di me, o
Dio, secondo la tua misericordia; nella tua grande bontà cancella il mio
peccato. Lavami da tutte le mie colpe, mondami dal mio peccato").
Oltre alla
sua unicità, la particolarità di questa iscrizione risiede nel fatto che il
testo del Salmo scolpito sulla lapide è identico alle traduzioni della
Bibbia che, intorno al VI secolo d.C., venivano elaborate negli scriptoria
fondati da Fulgenzio da Ruspe nel convento da lui eretto nei pressi di San
Saturnino. Questi testi (che sono in realtà tre codici) riportano una
versione del Testo Sacro che è precedente alla traduzione di Gerolamo, che
fu il primo a tradurre gran parte della Bibbia in latino. Essi rappresentano
quindi un patrimonio liturgico, religioso e documentario di incommensurabile
valore.
Molto interessante è anche la lapide funeraria di Deusdedit
(custodita al Museo archeologico nazionale di Cagliari). Questo nome,
rarissimo in Sardegna, è presente solo in questa epigrafe e trova riscontro
documentario esclusivamente negli atti del Concilio Vaticano del 649. Papa
Martino I convocò questo Concilio per condannare le dottrine monotelite
degli imperatori bizantini Eraclio e Costante II. A questo Concilio
parteciparono un centinaio di vescovi, di cui la maggior parte italiani, tra
i quali il vescovo di Cagliari Deusdedit a cui si riconobbe un ruolo di
primo piano, dovuto all'antichità e all'importanza della diocesi a lui
affidata, tanto che fu chiamato ad esporre il suo pensiero immediatamente
dopo il papa ed il patriarca di Aquileia.
Egli venne sorpreso dalla morte
prima della conclusione del Concilio e si ipotizza che sia stato egli stesso
una vittima della persecuzione che Costante II scatenò contro la Chiesa
occidentale, che l'aveva aspramente condannato per le sue posizioni
eretiche. In base a queste circostanze, l'archeologa Donatella Salvi è
giunta ad ipotizzare che la lapide funeraria ritrovata a San Saturnino,
appartenga al vescovo Deusdedit.
Il fatto che il defunto sia descritto
nell'iscrizione come defensor fidei e non con l'attributo di episcopus, non
rappresenterebbe di per sè un ostacolo all'identificazione dei due
personaggi (quello presente negli atti del Concilio ed il defunto a cui
appartiene l'iscrizione funebre) bensì metterebbe in risalto la lotta
condotta dal vescovo Deusdedit in difesa dell'ortodossia religiosa, per la
quale, presumibilmente, sacrificò la sua stessa vita. Letture: per chi
volesse approfondire la disputa sul primato arcivescovile in Sardegna e la
invencion de los cuerpos santos, suggeriamo la lettura del volume:
"L'arcivescovo Francisco Desquivel e la ricerca delle reliquie dei martiri
cagliaritani nel secolo XVII", di Antioco Piseddu, Edizioni della Torre,
1997. Come arrivare: in piazza San Cosimo.
Come arrivarci: con l'autobus numero 1 e M (fermate di via Sonnino)
oppure con l'autobus numero 30 e 31 (fermate di via Dante).
Orari di
apertura: dal lunedì al sabato dalle ore 9 alle ore 13. Chiuso la domenica.
Ingresso gratuito. Per informazioni: 070/20101.
Fortino di Sant'Ignazio
Questo forte di Sant'Ignazio che sta a cavaliere
del Lazzaretto e dell'altro fortino dei Segnali, detto
anche di Calamosca, venne eretto nel 1792 dal capo
Ingegnere Franco, a spese dell'Amministrazione delle
torri, nel tempo che si temeva l'invasione francese (G. Spano, Guida della città e dintorni di Cagliari, 1861).
Ed infatti nei mesi di gennaio del 1792 e di febbraio
del 1793, i cannoni del fortino furono determinanti per
respingere le truppe rivoluzionarie francesi del
generale Truguet. Nel 1793 (il fortino) fulminò la
squadra nemica, racconta lo Spano.
Il fortino di
Sant'Elia o di Sant'Ignazio, come venne erroneamente
ribattezzato, fu concepito dall'ingegnere militare
Franco Lorenzo che lo progettò, come un imponente
fortificazione militare in grado di ospitare ben 50
cannoni, dotata di torri casamattate e circondata da un
profondo fossato. In realtà il progetto originario non
venne mai portato a termine. Solo una torre venne
casamattata ed il fossato fu realizzato a metà.
Non
venne neppure costruita la cisterna per il rifornimento
dell'acqua. Durante l'attacco francese
l'approvigionamento idrico e le munizioni vennero
garantite dal vicino quartiere di San Bartolomeo.
Nemmeno i 50 cannoni previsti spararono dal forte. Il
loro numero si ridusse a poche unità nonostante l'ottima
posizione di avvistamento di cui gode la fortezza che
domina su tutto il golfo.
Il suo utilizzo militare cessò
nel 1800 quando il forte venne destinato ad ospitare i
malati contagiosi che non potevano essere accolti nel
vicino lazzaretto. La fortezza venne rivalutata durante
la seconda guerra mondiale come punto di segnalazione
"acustica" degli aerei nemici. Nella zona compresa tra
la torre di Calamosca ed il fortino di S. Ignazio,
intorno al 1930 venne installata la batteria antiaerea C
135, che faceva parte di un sistema difensivo che doveva
proteggere la città di Cagliari da eventuali attacchi
nemici.
Si contano ancora oggi, spesso nascoste tra i
cespugli, una decina di piazzole scavate a semicerchio
nella roccia del colle. Esse sono sparse nello spazio
circoscritto dai due fortini e sono collegate tra loro
attraverso delle gallerie sotterranee i cui accessi sono
stati sbarrati da grate di ferro. Al centro della
struttura veniva collocata l'artiglieria.
La batteria
antiaerea C 135 , con il nuovo nome di Batteria 285, fu
attiva durante tutta la seconda guerra mondiale.
Purtroppo attualmente si trova in stato di profondo
abbandono. La stessa infelice sorte condivide il fortino
di Sant'Ignazio ridotto a poco meno di un cumulo di
rovine. Bellissimo e senza eguali il panorama che si
gode da questa altura. Vale veramente la fatica
arrampicarsi per l'erto sentiero che dalla spiaggetta di
Calamosca conduce al faro ed al fortino.
Necropoli di Tuvixeddu
La necropoli di Tuvixeddu per estensione e per numero di sepolture è la più
grande necropoli punica di tutto il Mediterraneo. Dalla fine del VI sino
agli inizi del III secolo a.C., i cartaginesi, che si erano stabiliti presso
lo stagno di Santa Gilla, scelsero il colle per seppellirvi i loro morti. I
defunti venivano deposti nelle tombe "a pozzo" scavate interamente nella
roccia calcarea del colle e profonde dai due metri e mezzo sino agli undici
metri. All'interno del pozzo una piccola apertura introduceva alla camera
funeraria o cella.
Il morto veniva calato nel sepolcro in verticale, con il
corpo adagiato su una barella, in cui venivano fissati dei ganci di ferro
attraverso i quali il passaggio di funi ne facilitava la discesa all'interno
della tomba. Gli addetti alla sepoltura, i necrofori, scendevano nel pozzo
utilizzando le "pedarole", dei fori di forma rettangolare scavati sulle
pareti frontali dei pozzi per poggiare i piedi durante la discesa e la
risalita. Il defunto veniva deposto sul pavimento della camera ed era
accompagnato nel viaggio verso l'aldilà dal suo corredo. Oltre ai suoi
ornamenti personali (gioielli e porta profumi soprattutto) accanto al morto
si deponeva il suo corredo funebre, prevalentemente ceramico: anfore,
brocchette, piattini, coppe e lucerne.
Il corredo funebre serviva a
contenere le bevande ed il cibo necessari al defunto. I punici credevano
infatti che dopo la morte convivessero due anime: una che abbandonava subito
il corpo ed un'altra vegetativa che continuava a vivere per un pò di tempo
ancora dopo la morte e che aveva bisogno di nutrimento per affrontare il
passaggio al mondo dei morti. Compiuto il rito funebre, la camera veniva
chiusa con una lastra di pietra ed il pozzo completamente riempito, spesso
con lo stesso materiale estratto dallo scavo. Sulle pareti delle tombe si
osservano dei tagli orizzontali, le "riseghe", che dovevano servire per
poggiare le lastre di chiusura dei pozzi per poterli poi riaprire in
occasione di nuove sepolture.
Nella necropoli di Tuvixeddu però le "riseghe"
non hanno carattere funzionale in quanto le tombe venivano utilizzate per un
unica deposizione (anche se in realtà a distanza di secoli da una prima
sepoltura, si è verificato che la stessa tomba venisse riutilizzata per una
seconda inumazione). La mezzaluna sorgivaAll'interno di alcuni pozzi si
notano delle decorazioni che riproducono simboli religiosi come la mezzaluna
sorgiva (simbolo di Tanit), la palma o il globo solare, altri invece
presentano delle decorazioni geometriche. Tra le sepolture se ne distinguono
due di particolare bellezza: la tomba "dell'Ureo" e la tomba "del
Combattente", entrambe dipinte. La tomba dell'Ureo venne scoperta nel 1981,
ed è datata intorno al IV secolo a.C.
Il suo nome deriva dal serpente alato,
l'ureo, dipinto sulla parete e simbolo, nell'antico Egitto, del potere. Il
serpente è dipinto tra fiori di loto, palmette e due maschere gorgoniche.
Queste maschere, dall'aspetto e dall'espressione orrida, secondo la
simbologia religiosa antica avevano il potere di tenere lontani i demoni. La
tomba del Combattente è stata esplorata sin dal 1973 e risalirebbe ad un
arco temporale compreso tra il IV ed il III secolo a.C. Sulle pareti di
questa tomba è dipinta una figura seminuda di guerriero barbuto con elmo sul
capo, colto nell'atto di colpire con la lancia l'avversario. In origine
doveva essere stata dipinta a tinte forti che sono andate sfumando col
passare dei secoli.
Il Combattente raffigura il divino Sid, il liberatore,
che lotta contro le paure che accompagnano gli uomini durante la vita e
nell'oltretomba. Purtroppo né la Tomba dell'Ureo né quella del Combattente
possono essere visitate. Attualmente è molto difficile anche individuarle
tra le tante tombe presenti sul colle a causa della mancanza di indicazioni
in loco. Infatti, per la preoccupazione di proteggerle dal saccheggio sono
state murate (ahimé!) con uno strato di cemento. In entrambe i ricercatori
hanno rinvenuto diversi arredi funebri (lucerne, coppe, brocche semplici o a
"biberon") che sono ora gelosamente conservati al Museo archeologico
nazionale di Cagliari.
La rilevanza archeologica del colle di Tuvixeddu era
conosciuta sin dalla metà del 1800 e proprio a quel periodo risalgono i
primi scavi effettuati nella necropoli. Queste prime perlustrazioni vennero
condotte con metodi poco scientifici e procedendo "a sbalzi", non in maniera
sistematica. Si scavava spinti dall'entusiasmo che in quel momento animava
gli studi sulla cultura fenicio - punica, allora poco conosciuta. Una parte
consistente della necropoli andò distrutta proprio in quegli anni a causa
dell'utilizzo della collina come cava di estrazione di materiale edilizio,
sorte che ha condiviso con gli altri colli cittadini.
Il risultato più
evidente del frenetico lavoro di scavo intrapreso già dall' epoca è il
profondo canyon artificiale che si apre alle spalle della necropoli. Esso
copre una superficie immensa che da via Falzarego (ingresso principale della
necropoli) giunge sino a via Is Maglias. Nei primi decenni del 1900
l'attività estrattiva raggiunse il suo culmine. Con il materiale ricavato
dal colle si incrementò la produzione di cemento e calce favorendo lo
sviluppo del cementificio di via Santa Gilla, oramai completamente
abbandonato ad un lento ed inesorabile degrado.
Esso rimane comunque un
importante esempio di archeologia industriale in città. La parete di tombe
sezionate dalle ruspeSono bene evidenti i tagli causati dalle ruspe, che
hanno "sezionato" le tombe distruggendone una gran parte. Nonostante i gravi
danni causati, la destinazione della collina come cava l'ha, seppur
paradossalmente, preservata da un'urbanizzazione selvaggia che avrebbe quasi
sicuramente segnato il suo destino. Dall'osservazione della parete di tombe
sezionata, gli archeologi hanno potuto studiare la disposizione delle
sepolture e trarne utili informazioni per conoscere il rituale funebre di
età punica.
La parete di tombe sezionate dalle ruspeI tagli sulla roccia
hanno messo in evidenza anche un lungo tratto dell'acquedotto romano che
attraversa tutta la necropoli e la taglia al centro. Attualmente sulla
collina sono in corso i lavori per la realizzazione del Parco Archeologico
che preserverà tutta l'area dallo stato di abbandono da cui versa da ormai
troppi decenni e che l'ha resa facile preda di tombaroli privi di scrupoli.
Durante le opere di sistemazione, nello spazio che nel progetto del Parco è
destinato ad ospitare la biglietteria ed i servizi (cioè al lato
dell'ingresso di via Falzarego), sono emerse nuove tombe sino ad ora
inesplorate. Questa recente scoperta testimonia come le tombe abbiano
occupato tutto lo spazio della collina. In questo lato della necropoli è
accaduto che molte tombe si siano sovrapposte le une alle altre, creando
delle situazioni in cui il pozzo dell'una si può trovare sopra la camera
dell'altra. Questa sovrapposizione è causa di cedimenti nel terreno.
Tra le
tombe della parte più interna della necropoli invece si rispetta una
maggiore distanza tra una cella e l'altra. Oltre alla necropoli di Tuvixeddu, sepolture di epoca punica sono state rinvenute sul colle di
Bonaria, come scriveva nell'ottocento lo Spano: "Questa collina (Bonaria) è
storica e monumentale, perché vi si trovano sepolture cartaginesi...". Per
il momento non si sono trovate invece a Cagliari testimonianze di sepolture
fenicie. I fenici a differenza dei loro predecessori cartaginesi,
praticavano l'incinerazione, ossia la cremazione del corpo del defunto. Sul
colle di Tuvixeddu si trova anche una necropoli romana.
Le sepolture romane
sono sparse lungo il pendio del colle che degrada verso viale
Sant'Avendrace. L'intero viale, in periodo romano, costituiva la necropoli
occidentale della città (contrapposta a quella orientale che si estendeva
dal complesso di San Lucifero e San Saturnino sino a Bonaria). I romani
avevano un concetto della morte molto diverso rispetto a quello dei punici.
Per essi la morte era nefasta e generava contaminazione.
Per questo i luoghi
di sepoltura si trovavano fuori dal centro abitato, lungo le vie di accesso
(e viceversa, d'ingresso) delle città. Al contrario, la necroli punica
sorgeva proprio di fronte al centro urbano che si estendeva nei pressi dello
stagno di Santa Gilla. In viale Sant'Avendrace si può visitare la Grotta
della Vipera, il più importante monumento funebre di epoca romana, eretto in
memoria della nobile matrona romana Atilia Pomptilla.
Nella necropoli romana
di Tuvixeddu prevale il rito funebre dell'incinerazione (ossia della
cremazione del corpo del defunto) tipico dell'età repubblicana. In seguito
si diffuse anche la pratica dell'inumazione dei corpi e per un certo periodo
si praticarono entrambi i rituali. Nella necropoli romana di Bonaria, per
esempio, i due riti coesistevano persino all'interno di una stessa area
cimiteriale. Le sepolture più frequenti infatti sono i colombari, cioè le
camere scavate nella roccia con piccole nicchie alle pareti dove venivano
deposte le urne contenenti le ceneri dei defunti.
Uno di essi si trova
all'interno della Grotta della Vipera, ed è noto come Colombario di Berillio.Sepolture romane scavate nel calcare della collina di Tuvixeddu Sul
colle tra i cespugli sono visibili anche delle sepolture più semplici di
forma rettangolare scavate nel calcare. All'interno di esse sono state
ritrovate delle cassettine di legno o di metallo contenenti le ceneri del
defunto. Il colle di Tuvixeddu raggiunge in altezza i 99 metri sopra il
livello del mare.
Ancora oggi è incerta l'origine del nome intorno al quale
esistono varie ipotesi: Tuvixeddu potrebbe derivare da tuvu (cava) e quindi
significare piccola cava o piccola grotta in riferimento alle numerose
grotte, ai cunicoli, ai pozzi ed alle cavità naturali e artificiali sparse
sul colle; oppure Tuvixeddu potrebbe significare collina dai tanti fori, le
tombe a pozzo, scavate nella roccia dai cartaginesi per seppellirvi i loro
defunti.
Letture: per chi volesse approfondire l'argomento suggeriamo la
lettura dei volumi: "Tuvixeddu la necropoli occidentale di Carales", a cura
della Associazione Culturale Filippo Nissardi, Edizioni della Torre, 2000;
"Cagliari, viaggio nella città sotterranea", scritto da Marcello Polastri,
Artigianarte editrice, Cagliari, 1997. Come arrivare: la necropoli si trova
in cima al colle omonimo di Tuvixeddu, alle spalle di viale Sant' Avendrace.
L'ingresso principale è sito in via Falzarego. Come arrivarci: non esiste
una linea che arrivi direttamente sul posto, ma l'autobus numero 1 (fermate
di viale Sant'Avendrace o di viale Trento) e 10 (capolinea viale Trento)
arrivano molto vicino. Scendendo alla fermata di viale Trento, si prosegue a
piedi per la salita di via Zara, svoltando in via Vittorio Veneto si arriva
in via Falzarego: l'ingresso della necropoli si trova in fondo alla via.
Orari di apertura: la necropoli di Tuvixeddu non è attualmente accessibile
al pubblico. Sono in corso, infatti, i lavori per la realizzazione del Parco
Archeologico.
Grotta della Vipera
La
Grotta della Vipera è un monumento funebre di epoca romana, risalente al
periodo compreso tra la fine del I° ed il II° secolo dopo Cristo, scavato
interamente nella roccia ai piedi del colle di "Tuvixeddu". Esso è la
testimonianza più importante della necropoli occidentale della Carales
romana che si estendeva lungo tutto il viale Sant'Avendrace. Per i romani la
morte aveva un significato particolarmente nefasto.
Per questo motivo i
luoghi di sepoltura sorgevano lontano dal centro abitato, nelle vie
d'accesso alla città. La Grotta della Vipera è il mausoleo funebre che il
nobile romano Lucio Cassio Filippo dedicò alla moglie, la nobile Atilia
Pomptilla. Secondo la leggenda Atilia Pomptilla sacrificò la sua vita agli
dei in cambio della guarigione del marito (che giunse in Sardegna al seguito
del padre, Cassio Longino, esiliato nell'isola da Nerone) ammalatosi
gravemente di malaria.
Per celebrare il sacrificio della moglie ed il
profondo sentimento che univa i due coniugi, Filippo volle consacrare al suo
ricordo questo edificio funebre. Sulle pareti della grotta si possono
leggere, seppur con molta difficoltà, i versi in lingua greca e romana che
egli dedicò alla consorte. Il nome "Grotta della Vipera", deriva dai due
serpenti, scolpiti nell'architrave, che simboleggiano la fedeltà coniugale
ed il trasporto amoroso anch'esso insito nel significato simbolico
attribuito dagli antichi alla figura del serpente, e non dalla presenza di
serpenti, che infestavano il luogo, come sosteneva un diceria molto diffusa
nei secoli passati.
All'interno della grotta si aprono due passaggi
sotterranei sui quali la fantasia popolare ha intrecciato varie leggende.
Una racconta che percorrendo uno dei due cunicoli si arriva ad un tesoro,
mentre l'altro porterebbe a sicura morte il malcapitato che vi si avventura.
In realtà i due cunicoli conducono entrambi ad un vicolo cieco, anche se
molti anziani del quartiere continuano a sostenere che attraverso questi
passaggi sotterranei si arriva in cima al colle di Tuvixeddu.
Al lato del
mausoleo funebre di Atilia Pomptilla, ci sono alcuni colombari, scavati
nella parete rocciosa, in cui erano collocate le urne contenenti le ceneri
di diversi defunti. Questo colombario è noto col nome di Tomba di Berillio.
La Grotta venne salvata da sicura distruzione da Alberto Lamarmora nel 1822,
quando, durante la costruzione della strada Cagliari - Sassari (la Carlo
Felice o 131), incorse seriamente nel pericolo di "saltare in aria" a causa
delle mine fatte brillare nel corso dei lavori, che non risparmiarono
(ahimé) molte altre tombe della necropoli occidentale della Carales romana.
Tutta la collina, lungo il pendio che si affaccia sul viale Sant'Avendrace,
era disseminata di tombe romane. Alcune di esse si conservano ancora,
nascoste dalle costruzioni moderne ed in stato di profondo degrado, causato
dal tempo e dall'incuria dell'uomo. Lo Spano nell'ottocento aveva potuto
ammirare le opere "da cui si può argomentare la grandezza dell'antica
Cagliari", e ci ha lasciato una testimonianza scritta di ciò che altrimento
oggi non potremmo nemmeno immaginare.
Egli, nella sua Guida della città e
dintorni di Cagliari, descrive con dovizia di particolari diverse sepolture
tra le quali la cosiddetta Tomba di Rubellio. La Tomba di Rubellio è un
colombario, posto all'incirca all'altezza della chiesa di Sant'Avendrace,
che Cassio Rubellio fece scavare nella roccia del colle in ricordo delle sue
due mogli Marcia Eliade e Cassia Sulpicia Crassilla. La lapide scolpita sul
frontone d'ingresso riportava queste parole: C. Rubellius Clyteus Marciae L.
F. Heliadi. Cassiae Sulpiciae C. F. Crassilae. Conjugibus carissimis
Posterisque suis. Qui legis hunc titulum mortalem te esse memento (Tu che
leggi questa iscrizione ricordati che sei mortale).
Il colombario era molto
bello e vi si accedeva attraverso una scalinata scavata a semicerchio, già
danneggiata ai tempi dello Spano. Attualmente, purtroppo, è difficilmente
accessibile. Oltre alla tomba di Atilia Pomptilla, nel viale Sant'Avendrace
si può visitare la cripta in cui si rifugiò il vescovo cagliaritano
Avendrace (da cui il viale prese il nome) per sfuggire alle persecuzioni di
cui furono vittima i primi cristiani. Sulla cripta, sicuramente un ambiente
funerario risalente ad epoca fenicio-punica, sorse la chiesa dedicata al
santo.
Come arrivare: la Grotta della Vipera si trova in Viale
Sant'Avendrace, 87. Come arrivarci: si arriva direttamente con l'autobus
numero 9 o con l'autobus numero 1, poi si prosegue a piedi per pochi metri.
Orari di apertura: dal martedì alla domenica dalle ore 10,30 alle ore 13.
Chiuso il lunedì. L'ingresso è gratuito.
Cripta e chiostro di San Domenico
La
Cripta ed il chiostro di San Domenico
rappresentano ciò che rimane del grandioso complesso
edificato, a partire dalla seconda metà del 1200, dai
padri domenicani. La chiesa e l'annesso campanile
furono, infatti, completamente distrutti durante i
bombardamenti del 13 maggio 1943 che ridussero in
macerie alcuni dei più bei monumenti cittadini ed alcune
chiese di antichissima tradizione (ricordiamo tra esse
la chiesa dei Santi Giorgio e Caterina dei genovesi,
ricostruita alle pendici di Monte Urpinu, Sant'Anna, San
Giuseppe Calasanzio in Castello, la Madonna del Carmine
e Santa Lucia nella Marina).
I seguaci dell'ordine,
fondato dallo spagnolo Domenico Guzman, giunsero in
Sardegna nel lontano XIII secolo. Sotto la guida di fra
Nicolò Fortiguerra da Siena costituirono una comunità
nel quartiere di Villanova, appendice orientale del
Castello, allora zona di campi e orti. Al principio si
stabilirono nei pressi di una antica chiesa benedettina
dedicata a Sant'Anna che venne in seguito concessa
all'ordine dall'arcivescovo Gallo ed inglobata nel
chiostro della nuova chiesa da essi edificata nel 1254,
come cappella intitolata alla Madonna dei Martiri
("Rimpetto a questa cappella...se ne trova un'altra di
non minore considerazione.
Essa è dedicata alla Madonna
dei Martiri, e si ha per tradizione che quivi abbiano
sparso il sangue molti sardi nel tempo delle
persecuzioni per la fede di Cristo. Quivi era eretta la
prima chiesa sotto il titolo di Sant'Anna...", Spano,
Guida della città e dintorni di Cagliari, 1861).
L'impianto originario dell'edificio si ispirava ai
canoni architettonici del gotico italiano con copertura
lignea, adottato anche nel San Francesco di Stampace
costruito nello stesso periodo extra moenia dai frati
francescani.
L'intitolazione a Sant'Anna della primitiva
chiesa benedettina, su cui sorse il complesso
domenicano, rimase sino al 1313; a partire dal 1316 il
complesso divenne "Convento di Castel di Castro". In una
campana rinvenuta nel 1598 si leggeva un' iscrizione con
dedica a San Domenico datata al 1313. Durante il periodo
pisano rimasero fortissimi i legami con i fratelli
dell'ordine domenicano di Pisa. Risale a quell'epoca una
tela che raffigura San Domenico, ora conservata nel
Museo parrocchiale di Ploaghe, attribuita a Francesco
Neri di Volterra, artista attivo a Pisa nel 1300.
L'importanza che l'ordine e l'opera dei frati
predicatori, che i cagliaritani, parafrasandone il nome,
chiamavano affettuosamente canes domini (i cani di Dio,
per la loro fedeltà alla chiesa ed al Papa) avevano
assunto per il quartiere e per la città non mutò in
alcun modo con l'avvento degli aragonesi nel secolo XIV.
Fu proprio sotto la reggenza della Corona d'Aragona che
l'intero edificio si convertì architettonicamente al
gusto gotico-catalano importato dai nuovi conquistatori,
che ebbe una grande diffusione nell'isola e soprattutto
in città.
Molte chiese erette a Cagliari e nel
circondario in quegli anni si ispirarono alle linee del gotico-catalano: il santuario di Bonaria fu il primo
esempio, seguito dalla chiesa di San Giacomo nel
quartiere di Villanova, dal San Francesco dei Minori
conventuali di Stampace, dalla chiesa di Sant'Eulalia
nel quartiere della Marina e dalla chiesa della
Purissima in Castello. Il convento fu costruito a spese
dei sovrani d'Aragona e nel 1533 il re di Spagna Carlo V
gli concesse il titolo di Regio convento accordandogli
una particolare protezione che estese a tutti i beni ed
i possedimenti dell'Ordine situati "fuori e dentro di
città" (Spano, "Guida della città e dintorni di
Cagliari", 1861).
Lo stesso sovrano durante il suo
soggiorno a Cagliari nel 1535, mentre preparava la
spedizione di Tunisi contro i mori, visitò la chiesa ed
il convento. Sicuramente già nel XV secolo il complesso,
comprendente la chiesa ed il chiostro, occupava la
superficie attuale. Questa datazione è confermata dalla
collocazione nella Cappella eretta, nel braccio
occidentale del chiostro, dal Gremio dei calzolai, del
retablo Dei SS. Pietro da Verona e Marco Evangelista,
eletti, a Cagliari ed in Catalogna, patroni dei
calzolai. Il retablo viene attribuito al Catalano Juan
Figuera che arrivò in città nel 1455.
Lo Spano ci
tramanda che questa antichissima tavola era divisa in
"dodici spartizioni in fondo dorato. In mezzo vi è la
Vergine col bambino: ai lati San Pietro Martire a
sinistra, ed a destra San Marco Evangelista. All'intorno
ci sono varie storie e miracoli del Santo Martire divisi
in varii spartimenti...i nembi di cui sono ornati i
principali Santi sono graziosamente arabescati in oro"
(G. Spano, Guida della città e dintorni di Cagliari,
1861). Altre testimonianze sulla esistenza della
cappella si possono ricercare nelle carte della Santa
Inquisizione che ivi aveva stabilito la sua sede.
La
chiesa subì delle modifiche sia nel secolo XV che alla
fine del XVI, si ignorano però le date certe di questi
interventi. È databile con assoluta certezza soltanto
l' edificazione della cappella del Rosario intrapresa
nel 1580. Alcuni studiosi collocano la definitiva
sistemazione della chiesa secondo canoni tardogotici al
XVI secolo sulla base della cattedrale di Gerona,
riprogettata da Guillem Bofill nel 1416, che funse da
modello per molte chiese edificate in Spagna in quegli
anni nonché per la chiesa della Purissima di Castello ed
il San Domenico di Cagliari.
Quest'ultimo presentava
navata unica divisa in tre campate, coperte da volta
stellare a otto e a quattro punte e a botte spezzata,
nelle quali si aprivano due cappelle per parte.
Sull'ultima campata, più stretta delle altre, si
affacciava l'arco rinascimentale che introduce alla
cappella del Rosario. Il particolare che l'accomuna al
duomo di Gerona è il presbiterio più stretto rispetto
alla navata, in cui l'arco ogivale dell'abside è
affiancato agli archi d'ingresso delle sacrestie.
Secondo la studiosa Renata Serra la trasformazione del
San Domenico in forme tardo gotiche non può essere
avvenuta prima del XVI secolo "giacché nelle quattro
gemme minori della volta stellare semplice (delle quali
una si conserva nel chiostro) si avevano degli stemmi di
San Domenico entro scudi di tipo sannitico, usati in
Spagna soprattutto durante il XVI secolo ed in Sardegna
mai prima. Ma l'elemento valido lo offre la chiesa della
Purissima, stilisticamente così vicina al San Domenico e
datata, col monastero di cui fa parte, al 1554" (R.
Serra, Contributi all'architettura gotica catalana: il
San Domenico di Cagliari, 1961).
Le immagini
fotografiche ed i disegni precedenti il 1943, fanno
supporre che la chiesa fosse priva di facciata. Dalla
testimonianza di Dionigi Scano, che la visitò nel 1907,
risulta che alla chiesa si accedeva attraverso una
porticina aperta sul braccio del chiostro. Lo stesso
Scano dubitava che questo fosse l'ingresso originario.
Infatti, osservando diversi edifici ispirati, come il
San Domenico, al gotico-catalano, egli argomentava che
le chiese gotiche presentavano tutte una ampia navata
divisa in tre campate da archi a sesto acuto, coperte
con volte a crociera costolonata e gemmata,
particolarmente elaborate in corrispondenza del vano
centrale.
Tutto ciò lo induceva a ritenere che la chiesa
di San Domenico dovesse avere una quarta campata, forse
andata distrutta o rimasta incompiuta. La volta del coro
straordinariamente bella con la sua stella a otto punte,
lo convinse che quella doveva essere la campata
centrale. Anche l'archeologo Giovanni Spano parlava con
ammirazione della chiesa, nella sua Guida scrisse:
"Tanto la chiesa quanto il chiostro è pieno di bellezze
pittoriche, da potersi paragonare a quelle del cenobio
di S. Francesco di Stampace".
Egli descrisse con minuzia
di particolari la disposizione ed i ricchi arredi delle
cappelle. Procedendo dalla sinistra dell'altare maggiore
descrisse: la cappella della Vergine del Rosario, la
cappella di San Biagio e quella dedicata a San Vincenzo;
in mezzo era collocato il pulpito "sostenuto da una
colonna antica di granito sardo". Seguiva la cappella
della Vergine Addolorata che "non ha altro di
particolare che il quadro grossolano... in cui sono
rappresentate due Madonne d'ugual forma, altezza e
dimensione...
Hanno il titolo una della buona sorte, e
l'altra della buona morte, come viene indicato da
un'iscrizione in lingua spagnuola, che allude alla
miracolosa invenzione di queste due Madonne avvenuta in
Saragozza nel 1681, per cui cessò la peste da cui era
flagellata la città". L'ultima cappella era quella
dedicata a San Giuseppe eretta a spese del gremio dei
falegnami nel 1787, di cui il santo era patrono. In un'
iscrizione erano indicati i nomi degli operai che in
quell'anno vi prestarono la loro opera.
Sul lato destro
del presbiterio "nella prima cappella vicino alla porta
grande vi sta un dipinto della Maddalena, di buon
pittore..", segue la cappella del Crocifisso ed infine
la cappella in marmo di San Tommaso d'Aquino "eretta
dalle consorelle nel 1813". L'altare maggiore era di
legno dorato, al centro, dentro una nicchia, si trovava
"un antico simulacro molto bello di San Domenico" (ai
lati vi sono pure quelli di B. Ambrogio Uccelli, B.
Alberto Magno, S. Pio V e S. Tommaso).
L'unica cappella sovravissuta ai bombardamenti del secondo conflitto
mondiale, è quella intitolata alla Madonna del Rosario.
Essa venne edificata nel 1580 dai fratelli Michele e
Gaspare Barrai, stampacini molto attivi in città e nei
dintorni. La cappella si apre sul lato sinistro del
presbiterio. Ad essa si accede attraverso un arco
trionfale che immette in un piccolo corridoio (ricavato
da una precedente cappella a crociera costolonata)
voltato a botte a tutto sesto con il soffitto riccamente
decorato nel quale si alternano rosoni variamente
scolpiti e punte di diamante (ripetendo i motivi
decorativi del presbiterio del Sant'Agostino nuovo
edificato tra gli anni 1577-80).
La cappella presenta
pianta quadrata con copertura a padiglione ottagonale
poggiante su un cornicione dentellato aggettante. La
volta si inserisce nella struttura sottostante tramite
mezze voltine a crociera (scuffie), costolonate e
gemmate, di chiaro riferimento gotico. Se infatti la
cappella richiama, soprattutto nella copertura della
volta, i nuovi canoni rinascimentali introdotti in città
dalla nuova chiesa di Sant'Agostino, non riesce tuttavia
a slegarsi completamente dalla tradizione gotica.
La
cappella del Rosario realizza una mirabile sintesi tra
il gusto gotico e quello rinascimentale che andava
lentamente affermandosi nell'isola in quegli anni. I
Barrai sono indicati come gli autori della coeva
cappella della Madonna del Carmelo e della stessa chiesa
del Carmine, cui la cappella apparteneva, andata
purtroppo distrutta nei bombardamenti del 1943.
Questa
ipotesi è stata avanzata osservando la notevole
somiglianza tra le due cappelle che fondono in un
mirabile connubio le nuove istanze del classicismo
italiano con le forme gotiche. Questo nuovo stile gotico
- rinascimentale (che in Spagna era conosciuto come
plateresco) verrà imitato in tutto il meridione
dell'isola. Nella cappella del Rosario aveva la sua sede
la Confraternita del SS. Rosario eretta con bolla papale
il 16 giugno del 1578.
La confraternita, dedicata alla
Madonna invocata col Santo Rosario, si diffuse nella
Chiesa soprattutto dopo la vittoria cristiana sui turchi
ottenuta a Lepanto nel 1571. Ad essa era affidata la
guida della processione che si svolgeva ogni prima
domenica del mese. La divisa dei confratelli è abito
bianco guernito di frangia, contornato di bindello nero
cappetta aperta nera, placa di tela coll'effigie della
SS. Vergine. Vi sono pure le consorelle (Spano, Guida
della città e dintorni di Cagliari, 1861).
All'epoca la
confraternita del Rosario, la cui diffusione fu
fortemente incoraggiata dalla Chiesa, fu istituita in
numerosi paesi e nelle città; oramai è scomparsa quasi dapertutto. La cappella del Rosario era abbellita dai
dipinti di Pantaleone Calvo e dalla scultura lignea
della Vergine di scuola napoletana, oggi custodita nella
nuova chiesa di San Domenico. Dei numerosi dipinti che
decoravano la cappella, raffiguranti diverse scene tra
le quali lo Spano descrisse un "San Domenico che predica
ad una moltitudine di popolo il rosario",
"l'approvazione dell'Ordine fatta dal Pontefice Onorio
III" ed "i misteri della verginità di Maria", alcuni
sono conservati nella sacrestia della nuova chiesa di
San Domenico.
Nella sacrestia del moderno edificio è
custodito, dentro una teca di vetro, anche lo stendardo
degli archibugieri del Tercio di Sardegna che
combatterono valorosamente sulla nave ammiraglia di Don
Giovanni d'Austria, che comandò la flotta della Santa
Alleanza durante la famosissima battaglia di Lepanto
nell'ottobre del 1571, che fermò l'avanzata degli
ottomani in Europa.
Al loro rientro in città, i
superstiti, accolti con grande entusiasmo dal popolo,
offrirono in segno di ringraziamento lo stendardo alla
Madonna del Rosario. E forse furono proprio essi con i
confratelli del Rosario a voler costruire la cappella in
segno di riconoscimento alla Vergine al cui intervento
miracoloso, secondo il pontefice Pio V, si doveva la
vittoria. Da quel momento lo stendardo, oramai consunto
e sfilacciato, venne conservato nella cappella del
Rosario ed attualmente, dopo la distruzione della chiesa
antica, nella nuova sacrestia.
Anche lo Spano lo
ricorda:" nella processione che si fa nella prima
domenica di ottobre si porta uno stendardo che 400
archibugieri sardi, sotto don Giovanni d'Austria, ai 7
ottobre del 1570, presero nella crociata contro i
turchi, mozzando il capo di Alì, e che presentarono allo
stesso don Giovanni, il quale reduce da levante si
congratulava coi cagliaritani. Questo stendardo s'usò
nelle feste qui fatte per la canonizzazione di San Pio
V" (Spano, Guida della città e dintorni di Cagliari,
1861).
Come la chiesa antica, anche il chiostro di San
Domenico venne edificato in diversi momenti. Esso si
articola in quattro lati con cortile in cui si apre al
centro il pozzo, secondo una caratteristica dei
monasteri spagnoli. I bracci orientati a sud e a ovest
si sono conservati integri. Essi risalgono al XV secolo
e rispecchiano i canoni stilistici tipici
dell'architettura tardogotica, di cui rimangono in città
uno degli esempi più belli. Le campate sono coperte con
volte a crociera costolonata e gemma riccamente scolpita
in chiave. I sottarchi che separano le campate poggiano
su capitelli decorati con elementi floreali ed animali
dalle forme fantasiose, che si innestano su peducci
troncopiramidali.
Notevole l'intaglio e la scultura
delle corpose decorazioni vegetali. Il braccio orientale
del chiostro, a due ordini di arcate, di cui non si è
salvato il lato nord, venne edificato nel 1598 seguendo
i canoni dell'arte rinascimentale, molto cari a Filippo II di Spagna, che forse contribuì economicamente alla
realizzazione. Essi si distinguono dai primi due bracci
(risalenti al XV secolo) per i loggiati rinascimentali a
doppie arcate e copertura lignea, impostate su pilastri
ottagonali poggianti su capitelli e basi decorati con
modanature di tendenza ancora gotica, da cui si deduce
una certa difficoltà ad abbandonare del tutto i richiami
di quello stile.
Nelle arcate del chiostro si aprivano
numerose cappelle, alcune delle quali erette dai gremi
per onorare i loro santi patroni, anch'esse riccamente
decorate. L'antico convento di San Domenico ospitava
anche una stamperia, che i frati acquistarono da Onofrio
Martin, e che rimase attiva dal 1679 al 1767: "Una
gloria di questo chiostro è che nella fine del secolo
XVII aveva una tipografia propria che nel 1680 era
regolata da Onofrio Martini, e nel 1696 passò sotto la
direzione di Fr. Giambattista Cannavera, e poi di Fr.
Agostino Murtas.
Uscirono molte opere che agevolarono la
diffusione delle lettere in Sardegna" (Spano, Guida
della città e dintorni di Cagliari, 1861). Essa
possedeva inoltre una fornitissima biblioteca che
annoverava diversi volumi di prestigio, oltre ad opere
d'arte di maestri sardi del quattrocento e del
cinquecento. Questo preziosissimo patrimonio fu
purtroppo disperso o distrutto in seguito alla
soppressione degli ordini religiosi voluta dalle
famigerate leggi emanate nella seconda metà dell'800 dal
governo del Regno d'Italia.
A tal proposito lo Spano
ricorda, con profonda indignazione, che poco prima delle
leggi sulla chiusura dei conventi, i frati vendettero in
tutta fretta "ad uno speculatore sardo che preferì il
suo profitto al sentimento patriottico di conservare una
tavola sì bella al suo paese", la grandiosa Tavola della
Crocifissione (collocata nel chiostro) in cui erano
ritratte diverse figure e personaggi storici, tra cui il
sommo poeta Dante Alighieri.
Secondo lo Spano, il Marghinotti attribuì quest'opera al
Masaccio, ma egli la
giudicò di "di pennello sardo". Il complesso ospitò
l'inquisitore del Santo Ufficio ed, in seguito,
l'Inquisizione spagnola prima del suo trasferimento nei
nuovi locali di Is Stelladas. La soluzione
architettonica adottata dall'architetto Fagnoni nel
progetto della nuova chiesa dedicata a San Domenico, ha
permesso di preservare le strutture originarie al di
sotto del nuovo edificio, come cripta.
La chiesa antica
si presenta oggi al visitatore spoglia di abbellimenti.
Gran parte degli arredi che la ornavano sono andati
purtroppo dispersi, alcuni abbelliscono il San Domenico
nuovo. Della cripta e del chiostro di San Domenico si
possono ammirare oramai soltanto le nude forme
architettoniche che rappresentano una delle più
significative espressioni in città dell'arte gotica
catalana.
Necropoli di Bonaria
La collina di Bonaria è storica e monumentale,
perchè vi si trovano sepolture cartaginesi, e colombaj
romani, mentre era la necropoli della parte dell'antica
Cagliari sita nella sottoposta pianura" (G. Spano, Guida
della città e dintorni di Cagliari, 1861). Così il
canonico Spano descriveva la vocazione cimiteriale del
colle di Bonaria, scelto, nel corso dei secoli, da
cartaginesi, romani e cristiani per dare l'estremo
saluto ai loro morti.
Se non resta traccia delle
sepolture di epoca punica, lungo il pendio della
collina, immerse nel verde del parco di Bonaria, sono
ancora visibili, spesso nascoste sotto tetti di lamiera
o grate di ferro, le tombe ad "arcosolio" scavate in
epoca romana. Molte di queste tombe sono state distrutte
dalle mine fatte esplodere, nel 1863, durante i lavori
di ampliamento del Cimitero Monumentale di Bonaria.
Nel
1888, in occasione di interventi di sistemazione del
Cimitero, furono portati alla luce due ambienti funerari
di epoca cristiana, databili intorno al IV secolo d.C.
(come testimoniano alcune monete, una di Diocleziano e
l'altra di Galerio, ritrovate in loco), di grande valore
storico e archeologico: il cubicolo di Giona e la tomba
di Munatius Irenaeus. Il cubicolo di Giona, scavato
nella roccia del colle e rifinito con mattoni intonacati
con la calce, ospitava diverse sepolture e deve il suo
nome ad uno dei tre affreschi, dipinti sulle pareti, che
aveva come protagonista il profeta Giona.
Il dipinto è
andato perduto e di esso rimangono solo alcune
riproduzioni (quelle che vi mostriamo sono state tratte
dal testo "L'enigma di Lucifero di Cagliari", di A. Figus, Fossataro, Cagliari, 1973). L'affresco
raffigurane il profeta GionaL'affresco raffigurava (come
indica l'immagine affianco) la scena di Giona gettato in
mare dai suoi compagni, che viene ingoiato da un mostro
marino e risputato, dopo tre giorni, su una spiaggia:
come Gesù, morto e resuscitato il terzo giorno.
La
navicula PetriIn un altro affresco, invece, si
distingueva la nave della Chiesa (la navicula Petri) con
i dodici apostoli che pescano con la rete le anime degli
uomini purificate dalle acque del mare che simboleggiano
il battesimo; l'agnello che sale sulla nave rappresenta
l'umanità redenta dal battesimo o, forse, Cristo stesso.
Su un'altra parete dello stesso cubicolo, era dipinto
Cristo Buon Pastore che pasce il suo gregge. Alcuni anni
dopo la loro scoperta, gli affreschi, al contatto con
l'aria, incominciarono a deteriorarsi. Per questo motivo
il Vivanet dispose di farne redigere una copia in modo
che ne rimanesse una testimonianza anche dopo la loro
sparizione, come infatti è avvenuto.
Egli ne affidò
l'esecuzione ad un pittore locale. Queste riproduzioni
vennero pubblicate, a cura dell' archeologo romano
Giovanni Battista De Rossi, nel 1892, sul Bullettino di
Archeologia Cristiana. Il cubicolo di Giona è visitabile
all'interno del Cimitero Monumentale di Bonaria, e si
trova a pochi metri dall'ingresso. La tomba di Munatius
Irenaeus ospitava diverse sepolture ad arcosolio e tombe
a fossa (formae), entrambe scavate nella roccia calcarea
del colle.
Al momento della sua scoperta, sulla parete
di fondo dell'arcosolio (dove sono state ritrovate ben
tre inumazioni) fu rinvenuta intatta un' iscrizione
marmorea con la dedica della moglie Perpetua e del
figlio Ireneo al defunto Munatius Irenaeus. L'iscrizione
opistografa (che diceva: "Bonae memoriae homini bono
Ireneo, rari exempli, qui vixit annis XLVI, mensibus
VIII, diebus XVIII, horis V, Perpetua marito
incomparabili et Ireneus patri contra votum fecerunt"),
ossia con scritte su entrambe le facce, oltre ad
indicare i meriti del defunto e la sua età al momento
della morte (46 anni, 8 mesi, 18 giorni e 5 ore),
conteneva anche un messaggio beneaugurale: "pax tecum
sit in aeternum cum tuis" ("possa tu riposare in pace
per l'eternità con i tuoi cari). La lastra è conservata
al Museo Archeologico Nazionale di Cagliari.
I bordi
della lastra erano decorati di rosso ed ai lati erano
collocati due pavoni simbolo, in antichità, di
immortalità perché le loro carni erano considerate
incorruttibili. La volta della tomba era affrescata con
scene del Vangelo (due miracoli di Gesù, probabilmente
la Guarigione del Paralitico e la Resurrezione di
Lazzaro) e decorazioni floreali e uccelli che
richiamavano un'immagine idealizzata del Paradiso.
Questi affreschi oramai non sono più visibili. Anche di
essi il Vivanet si preoccupò di farne realizzare una
copia.
Infatti, già dopo pochi anni dalla loro scoperta,
essi, come quelli dipinti sulle pareti del cubicolo di Giona, al contatto con l'aria, cominciarono presto a
deteriorarsi. Le riproduzioni a colori, realizzate
sempre dal pittore locale Serpi, furono pubblicate nel
1892 sul Bollettino di Archeologia Cristiana. La tomba
di Munatius Irenaeus è visitabile all'interno del
Cimitero Monumentale di Bonaria. Altre tombe romane ad
arcosolio ed a fossa (formae) sono nascoste nella
scalinata di Bonaria che degrada verso viale Diaz.
In
prossimità del nuovo edificio in costruzione all'interno
del Cimitero, durante gli scavi intrapresi nel 1987, è
emersa una necropoli romana a cielo aperto (sub divo)
risalente al II-III secolo d.C. In questa necropoli
coesistono i due differenti rituali funerari diffusi in
epoca romana: l'incinerazione (tipica dell'età
repubblicana) e l'inumazione. È curioso riscontrare,
inoltre, che anche nella pratica del medesimo rito le
tipologie tombali sono diverse.
Si sono ritrovate
infatti urne di vetro o di terracotta contenenti le
ceneri di defunti deposte direttamente sul terreno, che
fanno pensare a sepolture di persone poco abbienti.
Nella stessa area ci sono tombe a tumulo, con la salma
adagiata sul fondo di una fossa profonda oltre il metro
e mezzo e coperta con delle tegole disposte a tettuccio,
bloccate con delle pietre.
La fossa era piena di terra e
sopra vi era costruito il tumulo. Altre tombe invece
presentano un tumulo a forma di botte (cupa). In alcune
sepolture più modeste, il corpo del defunto era deposto
direttamente sulla nuda terra e coperto con delle tegole
o con dei frammenti di anfora (le cosiddette sepolture
ad enchytrismòs). Particolarmente interessante è il
mausoleo rinvenuto nella necropoli. Si tratta di una
piccola costruzione in muratura con un bancale ed un
ollario, cioè un blocco di pietra incavato, all'interno
del quale è stato ritrovato un piccolo contenitore di
vetro con le ceneri di un bambino.
La presenza del
mausoleo testimonia che all'interno del cimitero si
praticavano dei riti comunitari. I romani dedicavano ai
defunti due festività: i parentàlia, a febbraio, in
occasione dei quali si usava portare delle offerte ai
defunti e consumare dei pasti rituali sulle tombe; ed i
lèmuria, a maggio, che avevano lo scopo di "placare" le
anime dei defunti (i lèmuri), che si pensava vagassero
per le case dei vivi. In queste particolari ricorrenze i
parenti del defunto, seduti sul bancale, consumavano dei
pasti comunitari.
Si credeva che gli stessi defunti
potessero partecipare, insieme ai vivi, a questi pasti
conviviali, per questo negli ollari venivano inserite
delle canalette che, in occasione delle festività,
servivano per versarvi il vino o il miele. Anche durante
il rito dell'incinerazione, sulle ceneri ancora calde si
versava del vino e si brindava (rituale che ricorreva
già presso i punici). Parte di questa necropoli romana è
stata conservata sotto il nuovo edificio in costruzione
all'ingresso del Cimitero Monumentale.
La collina di
Bonaria, insieme all'area cimiteriale di San Lucifero e
di San Saturnino, apparteneva alla necropoli orientale
della Cagliari romana. Un'altra necropoli si sviluppò ad
occidente della città romana lungo viale Sant'Avendrace
e nel colle di Tuvixeddu. Un altro cimitero romano è
stato rinvenuto nel viale Regina Margherita, esattamente
dove sorge oggi l'agenzia funebre di Pani Erminio. Nel
1886, durante i lavori di costruzione delle fondamenta
di un edificio vennero ritrovati, a otto metri di
profondità, numerosi cippi funerari.
Essi appartenevano
ad una necropoli ad incinerazione all'interno della
quale un piccolo settore era destinato ai militari della
flotta del Tirreno, di stanza a Cagliari tra la fine del
I secolo e gli inizi del II secolo d.C. La tipologia
funeraria di queste sepolture è completamente diversa da
tutte quelle che abbiamo descritto sinora.
Si tratta
infatti di epigrafi che riportano con precisione e
dovizia di particolari tutti i dati personali del
defunto: il nome, l'età, il grado militare e gli anni di
militanza nella flotta. Oltre alla straordinaria
rilevanza documentaria, considerata la ricchezza di
informazioni sulla vita del defunto, sulla sua famiglia
e sulla società del tempo rivelate dalle epigrafi, il
loro ritrovamento ha consentito contemporaneamente di
acquisire o confermare notizie storiche relative alla
situazione dell'isola e della città, durante la
dominazione romana.
La presenza a Cagliari della flotta
del Tirreno, infatti, che scortava le navi cariche di
merci (soprattutto grano, minerali e sale) che salpavano
verso la penisola, per proteggerle dall'attacco dei
pirati, testimonia la grande importanza e la vivacità
dei traffici commerciali che si svolgevano nel porto di
Cagliari in epoca romana. Recentemente, nell'area dell
'ex albergo Scala di Ferro, tra via Torino ed il viale
Regina Margherita, nel quartiere della Marina, durante i
lavori per la costruzione dei parcheggi del nuovo
edificio della Prefettura, sono state ritrovate alcune
tombe di epoca romana.
Si tratta più precisamente di
quattro sarcofagi databili, ad una prima analisi,
intorno alla fine del I secolo e l'inizio del II secolo
d. C. I cippi rinvenuti sono ricchissimi di informazioni
sulla vita del defunto. La zona, come è stato già
osservato, al tempo dei romani era utilizzata come area
di necropoli. Gli archeologi della Soprindendenza che
hanno già effettuato i primi sopralluoghi, coadiuvati
dall'osteologa Ornella Fonzo, potranno fornire
informazioni più precise e dettagliate in merito a
questo importantissimo ritrovamento soltanto dopo un
esame più accurato sulle tombe.
Come arrivare: in viale
Bonaria. Come
arrivarci: ci si arriva con l'autobus numero 5, 6, 7, 30
e 31. Orari di apertura: la necropoli all'interno del
parco è aperta tutto il giorno, secondo gli orari del
parco di Bonaria. All'interno del Cimitero si può
visitare la tomba di Munatius Irenaeus. Per informazioni
sulla necropoli romana rivolgersi allo: 070 6757610.
Fullonica
Intorno alla seconda metà degli anni cinquanta, durante
i lavori di ampliamento dell'edificio dell'INPS,
all'angolo tra viale Regina Margherita e via XX
Settembre, si rinvennero delle antiche costruzioni in
muratura la cui scoperta sollecitò l'immediato
intervento della Soprintendenza ai Beni Archeologici e
Culturali di Cagliari. La campagna di scavi intrapresa
in loco, riportò alla luce una struttura quadrangolare
in muratura che circoscriveva un piccolo ambiente con
due vasche ed un pozzo.
La presenza delle vasche ed il
confronto con costruzioni molto somiglianti ritrovate
nella antica città romana di Pompei, condussero alla
conclusione che si trattasse di una fullonica di epoca
romana, risalente all'incirca alla fine del I secolo
d.C. La fullonica nel periodo romano era una locale
adibito al trattamento ed alla tintura dei tessuti. Si
potrebbe paragonare ad una odierna tintoria. La
struttura in muratura invece sembrerebbe appartenere ad
un epoca più recente, probabilmente al V secolo d.C.
Tuttavia, la mancanza di una analisi stratigrafica che
non fu possibile eseguire al momento della scoperta,
consente di avanzare solo delle ipotesi. La fullonica è
costituita da due vasche utilizzate per la colorazione
ed il lavaggio dei tessuti, da un pozzo e da un bancale
in muratura. Molte curiosità suscita il pozzo, il cui
contenuto non è stato ancora esplorato. Esso si presenta
in una posizione di "rottura" rispetto all'ambiente
circostante che fa presumere o che sia stato
successivamente alla fullonica o che esso sia stato
allargano in un secondo momento ampliandone le
dimensioni iniziali.
Il bancale invece poggia su l'unica
parete presente nel piccolo ambiente. Non sono stati
trovati infatti i muri perimetrali che forse vennero
distrutti in antichità o forse il locale originario era
molto più esteso di quanto non appaia oggi a distanza di
secoli. Un tratto di pavimentazione in basolato,
realizzato cioè con lastre di pietra di forma
irregolare, suggerisce l'idea che si potesse trattare di
un ambiente a cielo aperto, probabilmente un cortile.
Sempre sul pavimento si osservano anche dei tratti di cocciopesto ed un mosaico centrale. Sul cocciopesto, che
è un impasto ottenuto con cocci finemente pestati a cui
si aggiungono acqua e calce (molto usato per rivestire
cisterne e vasche dato il suo effetto
impermeabilizzante), sono inserite delle tessere di
mosaico a scacchiera, nero e bianco, ed altre lastrine
di marmo colorato (soprattutto verde e bianco) a forma
di losanga. I mosaici che circondano il pozzo disegnano
figure di ispirazione marina: alligatori, delfini e
ancore. Il mosaico più importante si trova ai piedi del
bancale.
Al centro presenta dei motivi a clessidra e dei
cerchi che racchiudono delle margherite a sei petali.
Sotto questi motivi c'è un iscrizione, sempre mosaicata,
in cui si legge: Marcus Ploti Silisonis F. Rufus (Marco
Plotio Rufo figlio di Silisone). Questa iscrizione
indicherebbe il nome del proprietario della fullonica.
Lo studio epigrafico dell'iscrizione ha rivelato
l'appartenenza dell'intestatario ad una comunità
medioitalica. Questo particolare è stato confermato e
ricorre in un'altra iscrizione presente all'interno
dell'ambiente della fullonica. Si tratta questa volta di
una iscrizione incisa su un blocco utilizzato per la
costruzione della muratura tardo antica.
Questo blocco
proveniva sicuramente da un monumento funerario con
fregio dorico che si trovava nelle vicinanze della fullonica, ed era dedicato ad un Apsena, nome di origine
medioitalica che attesta la presenza a Cagliari di una
comunità etrusca. Smesso l'utilizzo del luogo come
fullonica, la struttura venne completamente rasa al
suolo, interrata, ed in epoca più recente vi si costruì
sopra la struttura quadrangolare in muratura. L' ipotesi
più plausibile circa la destinazione di questa nuova
costruzione è che si trattasse di una struttura
difensiva, accreditata anche dalla presenza di muri
bugnati.
Dall'osservazione dei rilievi eseguiti sul
luogo al momento degli scavi (e che si possono vedere
all'interno del palazzo INPS, appesi alle pareti della
sala d'attesa) parrebbe che la struttura muraria
innalzata sulla fullonica sia una "torretta",
particolare che avvalorerebbe ulteriormente la tesi
difensiva. Come arrivare: all'interno del Palazzo
dell'INPS, con ingresso in via XX Settembre.
Come arrivarci: ci si arriva con
l'autobus numero 1, M e 6.
Orari di apertura: la fullonica è visitabile, per ora, soltanto in particolari
occasioni, tra le quali la manifestazione "Monumenti
Aperti". Per informazioni: 070/605181.
Cripta Santa
Restituta
La
Cripta di Santa Restituta è una grotta, in parte
naturale e in parte scavata artificialmente nella
roccia, che la devozione popolare ha consacrato al culto
della Santa, le cui origini sono ancora misteriose. La
tradizione considera Restituta cagliaritana e madre di Sant' Eusebio, vescovo di Vercelli (vissuto nel IV
secolo d.C.), martire per non aver voluto rinnegare la
sua fede cristiana.
Questa tradizione si basa,
essenzialmente, su un' anonima biografia di Sant'
Eusebio dell'VIII secolo ritenuta da molti studiosi
"fantasiosa e poco credibile" (cfr. A. Piseddu,
L'arcivescovo Francesco Desquivel e la ricerca delle
reliquie dei martiri cagliaritani nel secolo XVII,
Edizioni della Torre, 1997, pag.107). Una diversa
interpretazione fa risalire il culto della Santa alle
reliquie dei martiri che, nel VI secolo d.C., vennero
portate in Sardegna dal nord Africa dai vescovi africani
esiliati dal vandalo Trasamondo.
Sarebbero stati proprio
questi ultimi a conservarle nella cripta che avevano
scelto come loro rifugio. Restituta, quindi, sarebbe una
santa africana originaria di Teniza, il cui nome ricorre
in una Passio del IV secolo, insieme ai 50 nomi di
martiri di Abitine che subirono il martirio nel 304 d.C.
Le reliquie della Santa, in realtà, vennero rinvenute
nella grotta, durante gli scavi intrapresi alla ricerca
dei corpi dei santi martiri cagliaritani nel 1614 su
iniziativa dell'Arcivescovo di Cagliari Francisco
Desquivel.
Il 26 dicembre del 1614 i ricercatori
trovarono, sotto una lapide marmorea (oramai andata
perduta) su cui era incisa l'iscrizione latina: "Hic
sunt reliquiae Sanctae Restitutae" un vaso di terracotta
contenente parte delle ossa di un corpo umano con i
tipici segni di bruciatura. Essi ritennero, in tutta
buona fede e senza ombra di dubbio, che le ossa
ritrovate appartenessero a Santa Restituta.
Questa
scoperta convalidò la tradizione che narrava il suo
martirio col fuoco. La credenza che le ceneri della
santa fossero state sparse nella cripta portò alla
nascita di una pratica superstiziosa: le madri
cospargevano i figli con la polvere del luogo convinte
che le sacre ceneri li avrebbero protetti dal vaiolo.
Per porre fine a questi riti superstiziosi l'autorità
religiosa ordinò che la cripta venisse chiusa al culto.
Narrava lo Spano, nella sua Guida alla città e dintorni
di Cagliari: "a sinistra scendendo (all'interno della
cripta) vi si vede una cameretta che si venera come il
preciso sito dove fu martirizzata la Santa; e perciò le
donne ne avevano in molta divozione la polvere, e vi
portavano i loro piccoli figli per farli coricare e
rivoltolare nella polvere onde liberarli dal vaiolo
senza che avessero bisogno della scoperta di Jenner.
L'Arcivescovo Marongio Nurra, la fece chiudere per
togliere l'occasione alle superstiziose ed agli abusi
che vi commettevano le anime troppo credule e timorate".
Risalgono al periodo del ritrovamento delle sante
reliquie i lavori di ristrutturazione dell'ipogeo e la
costruzione dell' altare a tre nicchie, ricavate nella
roccia e completate con l'uso di mattoni e intonacate,
che furono poi dipinte di rosso, giallo e verde con
motivi geometrici. La nicchia centrale doveva ospitare
la statua di Santa Restituta e le sue reliquie (per
custodire queste reliquie e quelle delle vergini martiri
Enedina, Giustina e Giusta, ritrovate insieme a quelle
di Restituta nella cripta, fu ricavato nella roccia un
reliquiario di forma quadrata chiuso da una porticina di
legno che si può osservare tuttora alle spalle del
simulacro della santa), mentre le due laterali erano
forse riservate alle statue di Sant' Eusebio, vescovo di
Vercelli, e di Sant' Eusebia abbadessa, ritenuti dalla
tradizione figli di Santa Restituta.
Nel 1620 fu
edificato il grande altare addossato alla parete di
fondo dell'ipogeo, decorato con un arco in cui sono
scolpiti rosoni a forma di fiore che si alternano a
punte di diamante, ad imitazione della volta della
cripta della Cattedrale, fatta edificare proprio in
quegli anni dall'arcivescovo Desquivel per ospitare le
reliquie dei santi martiri cagliaritani venute alla luce
durante la invencion de los cuerpos santos, e della
volta del presbiterio della chiesa di Sant' Agostino.
Le
reliquie della Santa vennero conservate in una cassetta
di legno foderata con velluto cremisi (secondo una
usanza che diverrà caratteristica dei vari ritrovamenti
di sante reliquie avvenuti nel XVII secolo) ed esposte
all'adorazione dei fedeli. Esse scomparvero
misteriosamente e si pensò che fossero andate perdute
durante i bombardamenti del 1943. Con grande sorpresa
invece, sono state ritrovate il 10 novembre del 1997 in
un nascondiglio della chiesa di Sant'Anna, a Cagliari
(Durante il riordino degli arredi della chiesa di
Sant'Anna, in un ambiente della chiesa non più
frequentato da decenni, vennero ritrovate cinque urne
lignee rivestite di stoffe preziose contenenti reliquie.
Un cartiglio sulla fronte dell'urna principale, ormai
quasi illeggibile, ne indicava il contenuto: "Reliquie
della Gloriosa Santa Restituta Martire, che si trovarono
assieme alle altre reliquie, nella catacomba di questa
chiesa, il dì 26 dicembre 1614". Al suo interno i resti
di un olla globulare in terracotta, del XIII secolo,
assieme ad una certa quantità di ossa umane incinerate.
Altri tre scrigni contenevano reliquie delle Sante
Martiri Barbara, Vergine cagliaritana, Dorotea, Teodosia,
Eugenia e di San Teodoreto Martire, mentre nell'ultimo
riposavano i resti di almeno tre scheletri, privi di
cartigli identificativi. Si tratta di quelle "urnette"
che nel 1800, il can. Giovanni Spano segnalava
conservate nell'altare maggiore della chiesa di Santa
Restituta a Stampace, e che si credevano perdute ormai
da cinquant'anni, in seguito agli ultimi eventi bellici.
Tratto da: "La riscoperta delle reliquie di vari martiri
trovate nella cripta di santa Restituta nel XVII secolo"
di Mauro Dadea, in Cagliari, itinerari urbani tra
Archeologia e Arte, Janus, 1999, a cura della
Soprintendenza ai Beni Ambientali, Architettonici,
Artistici e Storici delle Provincie di Cagliari e
Oristano).
Intorno al 1640-45 sopra la cripta, dove
sorgeva, secondo la tradizione più antica, l'abitazione
della santa, venne costruita la chiesa dedicata a Santa Restituta. Gravemente danneggiata dai bombardamenti del
1943, la chiesa è stata sconsacrata ed i suoi locali
sono ora utilizzati dalla GIOC. Ai primi anni del 1600,
nel corso delle prime ricerche effettuate nella cripta,
risale invece, il ritrovamento del ritratto marmoreo di
Santa Restituta, che ora si trova nella nicchia centrale
dell'altare costruito in occasione del ritrovamento
delle sante reliquie.
La scultura, ricavata in un unico
blocco di marmo, rispecchia le caratteristiche
stilistiche proprie dell'arte copta, particolare che
avvalorerebbe l'origine africana del culto della Santa.
Narra ancora lo Spano: "In uno degli altari vi è la
statua di marmo di Santa Restituta molto antica, e
dietro si vede una grata di ferro, dove è rinchiusa una
cassetta foderata a vellutto rosso, piena di reliquie".
Nella cripta è collocata la colonna del martirio.
Intorno a questo simbolo si svilupparono riti fertilistici pagani. Recentemente la cripta è stata
restaurata e riaperta al pubblico. Nei suoi ambienti
sotterranei, ricchi di storia, si svolgono attualmente
manifestazioni culturali. Oltre al culto di Santa
Restituta, la grotta, nel corso dei secoli, ha avuto
varie destinazioni.
Il ritrovamento di una mazza e di
alcuni bronzetti, ha fatto ritenere infatti, che la
grotta fosse stata abitata sin dal periodo nuragico. I
romani la utilizzarono come deposito di anfore e vi
costruirono due grandi cisterne che si possono osservare
tutt'oggi. Nel periodo bizantino ospitò una comunità di
monaci o monache di culto ortodosso, come testimonia un
affresco che ha la curiosa particolarità di vedersi
chiaramente solo nei mesi estivi.
Il dipinto, datato
intorno al XIII secolo, rappresenta San Giovanni
Battista con le dita unite in segno di benedizione:
"...unendo al pollice il medio e l'anulare e tenendo
distesi l'indice e il mignolo: nella simbologia della
Chiesa greca, il mignolo indica la lettera iota (I) di
Iesoùs (Gesù), l'indice e il medio incrociati la chi (X)
di Xristòs (Cristo); le tre dita riunite indicano
l'unità e la trinità di Dio, mentre le due tenute
nettamente separate riaffermano il dogma della duplice
natura di Cristo, umana e divina" (cfr. Mauro Dadea, Il
Cristianesimo a Cagliari - Dalle Origini al XIII secolo,
in Chiese e Arte Sacra in Sardegna, Arcidiocesi di
Cagliari, Tomo Primo, Zonza Editori, 2000, pag. 57).
Nel
1263 la cripta fu visitata dall'arcivescovo di Pisa
Federico Visconti. Durante la seconda guerra mondiale la
cripta servì da rifugio antiaereo. Purtroppo è legata ad
un episodio doloroso: il 27 febbraio 1943, durante un
bombardamento aereo, molti cagliaritani trovarono la
morte all'ingresso della grotta dove avevano invano
tentato di trovare riparo. Una lapide, affissa di
recente, ne ricorda il sacrificio.
Come arrivare: la
cripta si trova nello storico quartiere di Stampace, in
via S.Efisio. Come
arrivarci: ci si arriva facilmente a piedi dal centro
della città. Orari di apertura: dal martedì alla
domenica dalle ore 10,30 alle ore 13. Chiuso il lunedì.
Ingresso gratuito. Per informazioni: 070/41108.
Complesso di
San Lucifero
Il
Complesso di San Lucifero circoscrive tre ambienti
funerari di epoca romana, databili intorno al III-IV
secolo d.C., che furono poi trasformati in luoghi di
sepoltura cristiani ed utilizzati, con questa
destinazione, sino al VI-VII secolo d.C. Essi vennero
riportati alla luce nel '600 durante la spasmodica
ricerca dei corpi dei santi martiri cagliaritani (la
cosiddetta "invencion de los cuerpos santos"), voluta
dall'arcivescovo spagnolo Francisco Desquivel.
La
"invencion des los cuerpos santos" non può essere
considerata disgiunta dalla disputa molto vivace, sorta
dal 1574, tra il vescovo di Sassari ed il vescovo di
Cagliari (cui si aggiunse nel 1611 l'arcivescovo di
Pisa) che si contendevano il titolo di Primate di
Sardegna e Corsica. L'annoverare il maggior numero
possibile di reliquie di cristiani morti in nome della
fede divenne l'elemento principale a sostegno della più
antica tradizione cristiana per poter rivendicare il
titolo primaziale.
Particolare importanza assunse allora
individuare il sepolcro del grande vescovo cagliaritano
Lucifero strenuo difensore del credo ortodosso contro
l'arianesimo, morto a Cagliari intorno al 370 d.C.
Secondo la tradizione cagliaritana, accolta dallo
storico G. F. Fara nel suo "De Rebus Sardois", il
vescovo Lucifero sarebbe stato sepolto "prope ecclesiam
calaritanam" e "sub illius invocatione templum
constructum".
Un ulteriore riferimento ad una chiesa
dedicata a san Lucifero i ricercatori dell'epoca lo
rinvennero nella Passio dei Santi Lussorio, Cesello e
Camerino, che riferendosi alla sepoltura di questi due
santi martiri dice:"...et sepelierunt eos (Cesello e
Camerino) in loco ubi nunc est ecclesia Sancti Luciferi
confessoris...". L'unica chiesa cagliaritana (ecclesiam
calaritana) all'epoca della redazione della Passio (che
risalirebbe al IV secolo d.C.) era la Basilica di San
Saturnino, non avendo testimonianze sull'esistenza in
quegli anni di un'altra chiesa cittadina. Sulla base di
queste indicazioni si iniziarono le ricerche nell'area
di San Saturnino, allora circondata da campi e orti.
Scavando in mezzo agli orti, nel 1615, si trovò una
cappella in mattoni che, al posto dell'altare, dentro
una nicchia ricavata nel muro, conteneva un sarcofago di
marmo che all'apertura rivelò un corpo umano "da cui
emanava celestiale profumo". Erroneamente si ritenne di
aver trovato la sepoltura di San Lucifero. Nel prosieguo
delle ricerche, nella stessa area, si ritrovarono altre
due tombe che conservavano ossa di bambini ed una
piccola lastra marmorea con incisa la scritta: Cisel.
Questa scritta confermò ai ricercatori che si trattava
della tomba dei santi Cesello e Camerino che la Passio
di San Lussorio descriveva come due martiri bambini, i
cui corpicini, dopo morti, furono crudelmente dati in
pasto ai cani nello stesso giorno del martirio del Santo
di Fordongianus. Quindi lì vicino doveva esserci
senz'altro la tomba del martire. Le attese non rimasero
deluse. Il 23 febbraio del 1615 si credette di trovare
la tomba di San Lussorio. Su un mosaico che decorava il
sepolcro si lesse la scritta: BONE MEM B M LUXU US
REQUIEVIT IN PACE.
Le lettere "B M ", vennero
interpretate come le iniziali di "BEATUS MARTIR", e non
come BONAE MEMORIAE, che ne è il significato corretto.
Questa interpretazione erronea si ripeterà per tutte le
iscrizioni ritrovate nei sepolcri cristiani scoperti nel
'600 e su essa si baserà l'attribuzione del martirio.
Intorno alle reliquie di San Lussorio si creò un grosso
equivoco, ancor oggi irrisolto. Infatti, secondo le
cronache e la tradizione cristiana, il santo, ufficiale
di Diocleziano, subì il martirio a Fordongianus (Forum
Traiani) dove fu sepolto.
Il presunto sepolcro ritrovato
nel '600, fa ipotizzare che le sue reliquie siano state
traslate successivamente a Cagliari, come testimonia l'iscrizione mosaicata scritta in latino ormai
volgarizzato, risalente quindi ad una seconda sepoltura.
Ma altri luoghi rivendicano il possesso delle reliquie
del santo: la chiesa di Pavia, dove le portò Liutprando
che le avrebbe acquistate dai vandali con quelle di
Sant'Agostino; la chiesa di Pisa, che se ne impadronì
nel 1088, insieme con quelle di Sant'Efisio e San
Potito, che giacevano a Nora. Un'altra tesi sostiene che
le reliquie si trovino custodite a Fordongianus, dove
Lussorio fu martirizzato, nella cripta indicata dalla
tradizione popolare come il luogo del martirio e sulla
quale sorse la chiesa dedicata al santo.
In realtà
potrebbe essere accaduto che dopo il trasferimento a
Cagliari delle spoglie di Lussorio, parte di esse
rimasero in città (e furono poi rinvenute nel '600), una
parte fu traslata a Pavia da Liutprando ed il resto
delle spoglie venne portato a Pisa nel 1088. Nonostante
queste perplessità, la scoperta della tomba di San
Lussorio nel '600, fu accolta con grande entusiasmo e
per l'occasione si organizzò una solenne processione,
durante la quale si sparò a salve per tributare i dovuti
onori militari al santo, ufficiale dell'esercito romano,
di cui per otto giorni dal pulpito della cattedrale si
acclamarono le lodi.
Nel frattempo gli scavi
continuarono e nello stesso anno si trovò un'altra
chiesa sotterranea che, dalle prime sepolture ritrovate,
venne intitolata ai Santi Rude ed Eliano. Le reliquie
del grande vescovo Lucifero si rinvennero soltanto nel
1623, nella terza chiesa sotterranea. Procedendo negli
scavi i ricercatori riportarono alla luce una lastra di
marmo, che al momento del ritrovamento ruppero in
quattro parti. Sul marmo erano incise le seguenti
parole: HIC IACET BM LUCIF CRUS ARCEPIS CALLAPITANUS
PRIMARIUS SARDINE ET CORCICE.CA FL S R ME ECLESIAE QUE
VIXIT.ANNIS LXXXI.K.DIE XX MAI
Sulla lapide erano
scolpite anche: la croce patriarcale con ai lati due
palmette, una rosetta ad otto petali, l'aquila bicipite
ed il crismon. La convinzione di aver trovato il
sepolcro di San Lucifero fu confermata dal ritrovamento
di una tomba in mattoni e calce, coperta da una lastra
di pietra, dentro la quale giacevano ossa umane. In
prossimità del petto era poggiata una piccola lastra
marmorea triangolare con la scritta: A. LUCIFER EPP ed
una piccola croce. La gioia, quando si sparse la voce
della grandiosa scoperta, fu incontenibile.
Il 24 giugno
del 1623, una solenne processione accompagnò le sacre
reliquie nella cripta della cattedrale. Esse riposano,
ancora oggi, nell'altare della cappella dedicata al
grande vescovo cagliaritano. Sull'architrave della porta
della stessa cappella, dal lato interno, il successore
del Desquivel, l'arcivescovo Ambrogio Machin, fece
murare le iscrizioni marmoree ritrovate nel santuario
del santo. Nel '600 non si ebbero dubbi circa
l'autenticità del ritrovamento. Del resto le iscrizioni
marmoree parlavano chiaro: non poteva che trattarsi
delle spoglie del vescovo Lucifero.
Qualche dubbio però
è lecito sollevarlo. Gli studi effettuati nel corso
degli anni su queste lapidi hanno portato a risultati
molto diversi. Il Mommsen nell'800 liquidò la lapide
come un falso, giudizio che estese a tutte le iscrizioni
ritrovate nel 1600. Altri studiosi si sono mostrati più
prudenti. Uno studio epigrafico più recente, condotto
dal Galimberti, ha concluso che si tratta certamente di
una iscrizione molto più tarda rispetto al periodo in
cui morì San Lucifero.
L'utilizzo di un latino poco
corretto avvalora questa tesi, che troverebbe conferma
anche nei diversi rimaneggiamenti che subì il sepolcro
nel corso dei secoli. Quindi si può presumere che dopo
una prima sepoltura, ne intervenì una seconda in età più
tarda, epoca a cui risalirebbe l'iscrizione trovata nel
'600. Tre delle chiese sotterranee in cui nel XVII
secolo si ritrovarono sante reliquie, si conservano
ancora oggi sotto la chiesa di San Lucifero.
Il primo di
questi ambienti, conosciuto come Sacello di San
Lucifero, situato sotto il presbiterio della chiesa
omonima, è quello dove venne ritrovano il sepolcro del
Santo. Dopo il prezioso ritrovamento, il luogo fu
abbandonato e sino a pochi anni fa era utilizzato come
magazzino e per le attività parrocchiali. L'edificio,
che oramai ha perduto la sua originaria fisionomia,
soprattutto dopo che è stato costruito un soppalco in
cemento armato, è visitabile e mostra alle pareti una
serie di illustrazioni che ne raccontano la storia.
Nel
1937 venne costruito un passaggio che lo mette in
comunicazione con il Sacello dei Santi Rude ed Eliano.
Anche questa seconda chiesa sotterranea dopo
l'entusiasmo del 1600, venne chiusa per essere riaperta
solo nel 1830 per depositarvi le ossa del cimitero
parrocchiale. Rivalutato agli inizi del 1900, l'edificio
si presenta ancora costruito in mattoni, mentre si è
persa l'originaria volta a crociera retta da quattro
pilastri, sostituita dalla seicentesca volta a botte.
Il
pavimento, a spina di pesce, risale al XX secolo. In
questo ambiente si rinvennero diverse sepolture
"seconde" cioè di persone seppellite altrove ed in
seguito trasferite in questo luogo, come attestano le
epigrafi ritrovate sulle tombe. Sulla parete ad ovest
dell'ampio ambiente principale se ne apre un altro più
ristretto con nicchie alle pareti, che conserva al
centro un antico sarcofago in pietra.
Dal Sacello di
Rude ed Eliano si accede al terzo ambiente, il Sacello
di San Lussorio di cui si è conservata solo una piccola
parte dove sono visibili sepolture ad arcosolio. Questo
luogo, dopo la scoperta delle contestate reliquie del
santo martirizzato a Fordongianus e di altre presunte
reliquie di santi martiri, fu abbandonato. Le cronache
del seicento documentarono con grande accuratezza e
dovizia di particolari tutti i ritrovamenti effettuati.
Molti sono gli schizzi pervenuti sino a noi che ci
aiutano a ricostruire, seppur a distanza di secoli,
l'aspetto originario dell'area cimiteriale di San
Lucifero e San Saturnino.
Paragonando i disegni delle
tre chiese sotterranee realizzati da alcuni improvvisati
artisti che assistettero agli scavi, con la necropoli
della via Sacra (a Roma), è emerso che i "santuari"
ritrovati nel '600, erano in realtà dei mausolei in
laterizi con tettuccio a forma di casetta. La gran parte
di questi mausolei risalgono ad epoca romana
(esattamente al II secolo d.C.) ed attestano l'esistenza
in questa zona della città di una necropoli di persone
facoltose.
I ricchi sarcofagi ritrovati all'interno di
questi mausolei venivano sicuramente commissionati oltre
mare, a Roma soprattutto. Alcuni di essi sono stati
murati nella cripta della Cattedrale di Cagliari e
abbelliscono le cappelle di San Lucifero e San
Saturnino. Altri ancora si possono ammirare al Museo
Archeologico Nazionale di Cagliari. Essi rivestono una
grande importanza per capire come i romani affrontavano
l'evento della morte e come essi immaginavano l'aldilà.
Molto significativi a questo riguardo sono due sarcofagi
originari della necropoli di San Lucifero e San
Saturnino, conservati al Museo archeologico: il
sarcofago delle Nereidi ed il sarcofago delle stagioni.
Il sarcofago delle Nereidi raffigura un medaglione
centrale, in cui è scolpita una figura femminile che
suona il liuto: essa rappresenta la defunta. Sullo
sfondo di un ambiente marino si scorgono le agili figure
di amorini che giocano tra le onde, mentre sulla parte
superiore, nereidi giaciono in grembo ai tritoni.
Tutta
la scena è pervasa da un'atmosfera festosa. I romani
credevano che l'aldilà si trovasse oltre l'oceano e che
il viaggio verso l'oltretomba avvenisse a cavallo dei
tritoni. Il sarcofago delle stagioni esprime una
simbologia differente. Il medaglione centrale in cui è
raffigurata la defunta che tiene in mano un libro, è
sorretto da due Vittorie alate che rappresentano la
vittoria della vita sulla morte. Sotto il tondo
centrale, si vedono figure di amorini che pigiano
l'uva.
Ai lati sono scolpite la stagioni: l'inverno e la
primavera, sul lato sinistro; l'estate e l'autunno, sul
lato destro. L'uva pigiata che si trasformerà in vino
simboleggia il passaggio dalla morte alla vita
dell'aldilà, immagine che verrà ripresa dal
cristianesimo per significare la resurrezione. Le
stagioni ed il loro avvicendarsi invece sono
paragonabili al susseguirsi dei diversi stadi della
vita.
Nella cappella di San Saturnino, nascosto dietro
il mausoleo funebre del piccolo Carlo Emanuele di
Savoia, tra le nicchiette in cui riposano le spoglie di
alcuni santi martiri cagliaritani, è incastonato il
sarcofago che potremo definire di Amore e Psiche. Al
centro è scolpito il medaglione che raffigura un busto
maschile con un libro in mano, rappresentazione del
defunto a cui la lapide era dedicata, sorretto da due
Vittorie alate.
Nella parte inferiore sono scolpite due
figure: alla destra giace una figura che simboleggia il
mare insieme ad un amorino che gioca con un delfino. La
figura femminile seminuda giacente alla sinistra, è la
terra con ai piedi un amorino che gioca con un animale.
Su entrambi i lati Amore e Psiche si abbracciano
teneramente, simboleggiando l'amore divino che attende
il defunto.
Nella stessa cappella, sull'altare centrale
è murato un altro bellissimo sarcofago romano su cui
sono scolpite figure di genietti che suonano ognuno un
diverso strumento musicale. Letture: per chi volesse
approfondire la disputa sul primato arcivescovile in
Sardegna e la invencion de los cuerpos santos,
suggeriamo la lettura del volume: "L'arcivescovo
Francisco Desquivel e la ricerca delle reliquie dei
martiri cagliaritani nel secolo XVII", di Antioco
Piseddu, Edizioni della Torre, 1997.
Per informazioni
approfondite sulla Passio di San Lussorio suggeriamo la
lettura del volume: "Fordongianus, memorie litiche,
immagini, frammenti di storia civile e religiosa", di
Mario Zedda, Zonza Editori. Come arrivare: l'ingresso al
Complesso è in via San Lucifero, 78.
Come arrivarci: con l'autobus numero 1 e
M, fermate di via Sonnino.
Orari di apertura: il sabato
dalle ore 10 alle ore 12,30 e dalle ore 17 alle ore 20;
la domenica dalle ore 10,30 alle ore 12,30; tutti gli
altri giorni solo su richiesta. Ogni secondo e quarto
fine settimana del mese l'Associazione Urbs Urbium vi
guiderà gratuitamente alla scoperta di questi ambienti
sotterranei. Per informazioni: 070/656617.
Villa di Tigellio
La Villa o casa di Tigellio, come è stata impropriamente definita,
circoscrive in realtà, i ruderi di tre abitazioni private romane che uno
stretto vicolo separa da ciò che rimane di antiche terme. Costruita intorno
al II secolo d.C., la Villa sarebbe appartenuta, secondo una tradizione
popolare, al poeta e cantore sardo Tigellio Ermogene, amico di Cesare ma
inviso a Cicerone ed Orazio. La prima delle tre domus, tutte ad atrio
tetrastilo, ossia ornate da tre colonne nella facciata, è conosciuta come la
"casa del tablino dipinto", in quanto la stanza adibita a sala da pranzo era
riccamente decorata con dipinti parietali.
La seconda domus è stata
ribattezzata la "casa degli stucchi", anch'essa era decorata con stucchi e
mosaici, ritrovati durante i lavori di scavo dello scorso secolo. Della
terza domus sono rimaste scarse testimonianze che non consentono di
ipotizzarne una descrizione. Si può soltanto osservare come, anche
quest'ultima, sia dotata di atrio tetrastilo.
Come arrivare: la villa di
Tigellio si trova in via Tigellio, una traversa del Corso Vittorio Emanuele,
nel cuore della città moderna. Come
arrivarci: ci si arriva facilmente a piedi dal centro della città o con
l'autobus numero 1 (fermate di Corso Vittorio Emanuele).
Orari di apertura:
la Villa è chiusa al pubblico per cui la si può vedere solo dall'esterno
attraverso la cancellata. Visite guidate sono organizzate soltanto in
particolari occasioni, tra le quali la manifestazione "Monumenti Aperti".
Per informazioni: 070/605181.
Cavità di via Vittorio Veneto
L'apertura al pubblico della cavità sita in via Vittorio Veneto (il cui
ingresso è posto di fronte al numero civico 40) rappresenta una novità
assoluta dell' edizione straordinaria della manifestazione Monumenti aperti
del 5 e 6 maggio 2001. Si tratta in realtà di una ambiente scavato dall'uomo
in epoca antichissima sul quale al momento non è possibile pronunciarsi con
assoluta certezza perchè sono ancora in corso gli studi su questo sito e sul
suo utilizzo.
La cavità si presenta al visitatore come uno spazio
sotterraneo molto ampio che occupa una superficie di circa 150 metri,
sorretto da cinque pilastri di roccia calcarea scolpiti durante gli scavi
antichi per sorreggere l'intera struttura (pare esistesse anche un sesto
pilastro di cui si notano i segni sulla volta). In origine esso era
utilizzato come cava estrattiva di blocchi calcarei e solo successivamente
fu adibito a cisterna, sorte che condivise con diverse altri sotterranei
presenti nella zona (tra cui anche il non lontano cisternone dell'Orto dei
cappuccini).
Già lo Spano, nella sua ottocentesca Guida alla città e
dintorni di Cagliari, ne parlava: "Nella vicina collina per andare alla
Necropoli (di Tuvixeddu) se ne vedono altri (serbatoi) scavati come questi
nella nuda roccia. Si può credere che siano opere dei primi popoli, e che i
Cartaginesi poi li abbiano ingranditi di mano in mano che la città cresceva
in popolazione. I romani li tennero in gran conto, e si vedono i loro lavori
che annunziano una età posteriore, perchè nel fare gli sfiatatoi, hanno
dovuto bucare le sepolture che prima v'esistevano di carattere greco e
punico".
La conversione della cavità da cava di estrazione a cisterna per il
momento rimane soltanto un'ipotesi. Infatti, sulle pareti sino a poco tempo
fa interamente coperte di detriti, non si sono rinvenute tracce di
impermeabilizzazione in cocciopesto, impasto ottenuto con cocci finemente
pestati a cui si aggiungono acqua e calce, molto usato per rivestire
cisterne e vasche dato il suo effetto impermeabilizzante. Un' ulteriore
esplorazione sul pavimento della cavità, che attualmente è ben al di sopra
della sua base originaria, potrà fornire risposte più certe al riguardo.
La
cavità si trova molto vicino alla necropoli punica di Tuvixeddu (come
ricordava lo Spano) le cui tombe a pozzetto sono tagliate da un lungo tratto
di acquedotto romano. La presenza di una bancale scolpito sulla roccia,
molto simile a quelli ritrovati nella cripta di Sant'Efisio, fanno pensare
che la cavità abbia dato asilo anche ad una comunità monastica che si
raccoglieva in preghiera sul sedile di pietra. Non si esclude nemmeno un più
tardo utilizzo della cavità come ricovero per il bestiame.
Durante il
secondo conflitto mondiale la cava divenne sicuro riparo per sfuggire alle
bombe sganciate dagli aerei nemici. La presenza umana in quegli anni è
testimoniata anche dal ritrovamento di un primitivo impianto elettrico. Nel
dopoguerra gli ampi spazi della cava ospitarono le famiglie cagliaritane le
cui abitazioni furono distrutte dai bombardamenti. La cavità è stata
riscoperta e rivalutata di recente, in seguito all'intervento del comune di
Cagliari sollecitato da alcune associazioni cittadine.
L'accesso alla
struttura è stato reso possibile in seguito alla rimozione di alcune
abitazioni fatiscenti che ne ostruivano l'ingresso. Come arrivare:
l'ingresso della grotta è sito in via Vittorio Veneto proprio di fronte al
numero civico 40, in un piccolo spiazzo adibito a parcheggio.
Come arrivarci: ci si arriva vicino con l'autobus
numero 5 (fermate a metà altezza di viale Merello), poi si prosegue a piedi
svoltando per la traversa di via Vittorio Veneto. Oppure con l'autobus
numero 1 o 10 (fermate di viale Trento), si prosegue poi a piedi per la
salita di via Zara e via Giusti sino alla via Vittorio Veneto.
Orari di
apertura: la cavità è stata aperta al pubblico per la prima volta in
occasione della edizione straordinaria della manifestazione "Monumenti
Aperti" del 5 e 6 maggio 2001. Per informazioni contattare il gruppo
speleologico Specus (via Santa Gilla, 115 Cagliari 0338/2774790) oppure
l'associazione Tanit (via Mandrolisai, 10 Cagliari 070/292195).
Orto dei Cappuccini
L'Orto dei frati Cappuccini di viale Fra Ignazio
conserva al suo interno diverse cisterne che per lungo
tempo si pensò essere state scavate dai punici. Anche il
canonico Spano, nella sua Guida della città e dintorni
di Cagliari del 1861, ne parla: "Nell'orto di questo
Convento si possono vedere i due più grandi serbatoi
d'acqua dell'epoca cartaginese. Quello a destra poteva
contenere più di 10 mila litri d'acqua. In alcune parti
è così ben conservato che potrebbe utilizzarsi per il
pubblico; come difatti in vicinanza ve n'è una porzione
in attività".
All'epoca in cui scriveva lo Spano
l'estensione della proprietà dei frati Cappuccini
comprendeva un'area molto più vasta rispetto a quella
attuale, che era compresa tra il viale Buoncammino (a
nord), l'anfiteatro romano (ad est), il viale Merello
(ad ovest) e la via Don Bosco (a sud). Nel 1800 il
comune di Cagliari acquisì gran parte dell'area occupata
dal convento, più 12.000 metri quadri d'orto, per
costruirvi la Casa di Riposo per anziani intitolata a
Vittorio Emanuele II, operante ancora oggi.
Ai frati
rimase quindi soltanto la superficie delimitata dalla
chiesa, confinante con la Casa di Riposo. Le cisterne
più significative si trovano attualmente all'interno
dell'orto della Casa di Riposo. Diversi studi effettuati
in loco hanno rivelato che le cosiddette "cisterne" sono
in realtà antiche cave di estrazione di blocchi di
calcare, risalenti ad epoca romana (coeve sicuramente
alla costruzione dell'anfiteatro e databili intorno al II° secolo d.C.) solo successivamente riutilizzate in
funzione di cisterne per raccogliere l'acqua piovana.
Una di queste cisterne in particolare, conosciuta per la
sua spettacolare ampiezza come Cisternone Vittorio
Emanuele II, suscita un grandissimo interesse.
Esso
nacque in origine come latomia da cui vennero ricavati i
blocchi di calcare che servirono per edificare l'ala
meridionale della cavea dell' anfiteatro romano.
Infatti, i tagli operati nella parete dagli schiavi
sacrificati a questo durissimo lavoro, sono
perfettamente visibili tutt'ora. Solo in seguito la
struttura venne rivestita quasi interamente di cocciopesto (un impasto ottenuto con cocci finemente
pestati a cui si aggiungono acqua e calce, molto usato
per rivestire cisterne e vasche dato il suo effetto
impermeabilizzante) per impedire all'acqua di filtrare
attraverso le pareti, ed adibita a cisterna. Il
cisternone è collegato all'anfiteatro da una galleria
sotterranea (che attraversa viale Fra Ignazio) lunga 96
metri che convogliava nella grande vasca le acque
piovane che si raccoglievano nelle gradinate
dell'anfiteatro.
Questo canale è ancora oggi
tranquillamente percorribile e dentro l'anfiteatro è
visibile l'imbocco (attraverso un altro ramo del canale
le stesse acque raggiungevano, quasi sicuramente, anche
le cisterne dell' Orto botanico). La cisterna ha una
profondità di 130 metri, misura 180 metri di larghezza e
si innalza in altezza sino a 8 metri. Essa poteva
contenere sino ad un milione di litri d'acqua! Le sue
altissime pareti sono segnate per sempre dal livello
raggiunto dall'acqua piovana. Una volta cessato il suo
utilizzo come cisterna (a causa di crepe prodottesi
nelle pareti), questo ambiente venne trasformato in un
carcere come testimoniano le trenta anelle ricavate
nella roccia alle quali venivano legati i condannati,
attraverso robuste catene o corde.
Sicuramente i reclusi
del cisternone erano destinati a morire nei giochi che
si svolgevano nel vicino anfiteatro. Una grande
curiosità ha suscitato nel 1997 (l'8 agosto) la
scoperta, in prossimità di una delle anelle, di un
graffito paleocristiano ancora di incerta datazione.
Esso rappresenta una nave mercantile romana a due alberi
che simboleggia la Navicula Petri, ossia la nave della
Chiesa. " Il graffito, in maniera rozza e schematica, ma
allo stesso tempo abbastanza precisa, rappresenta una
nave da trasporto romana a due bracci: l'albero di
maestra ha la vela spiegata, gonfiata dal soffio dello
Spirito Santo, ed il suo lembo inferiore forma la
traversa di una croce.
A circa i quattro quinti della
sua altezza è tracciato un occhiello ricurvo, a formare
la lettera P (il rho dell'alfabeto greco, corrispondente
alla R latina), che unito alla X (la chi greca,
corrispondente alla CH latina), forma la cosiddetta
"croce monogrammatica", con le iniziali della parola
greca Chr(istòs). Dai bracci della croce pendono le
lettere alpha e omega, la prima e l'ultima dell'alfabeto
greco.
Queste, nel libro dell'Apocalisse, esprimono
l'eternità e quindi la divinità di Cristo:" Io sono
l'alpha e l'omega, il primo e l'ultimo, il principio e
la fine" (Ap. 1,8). la croce è il simbolo della Fede (1
Cor. 1,23), il pesce graffito all'incrocio dei suoi
bracci è simbolo della Carità (Gv. 21, 9-13; Rom. 5,8),
l'ancora ai suoi piedi è simbolo della Speranza (Eb.
6,19), per cui si avrebbe una delle più antiche
raffigurazioni delle tre Virtù teologali, verie volte
menzionate in questo stesso ordine negli scritti di San
Paolo (1 Cor. 13,13; 1 Ts. 5,8)" (tratto da: "La
cisterna dell'orto dei cappuccini e il graffito
paleocristiano", di M. Dadea, in Cagliari, itinerari
urbani tra Archeologia e Arte, Janus, 1999).
I dodici
apostoli sono raffigurati sulla prua con dodici linee
verticali mentre lanciano in mare la rete che li
renderà, simbolicamente, pescatori di uomini, come aveva
loro comandato il Maestro ("Mentre camminava lungo il
mare di Galilea vide due fratelli, Simone, chiamato
Pietro, e Andrea suo fratello, che gettavano la rete in
mare, poiché erano pescatori. E disse loro: «Seguitemi,
vi farò pescatori di uomini».
Ed essi subito, lasciate
le reti, lo seguirono", cfr. Mt 4, 18-20). Una firma non
perfettamente leggibile attribuirebbe il graffito ad un Ianuario o Ianuaria. Esso è stato datato al IV secolo
dopo C., ossia intorno agli anni 304-305 durante
l'impero di Diocleziano, che fu l'ultimo imperatore
romano a perseguitare i cristiani. Questa collocazione
cronologica induce a pensare che il graffito sia stata
l'ultima testimonianza di fede di un discepolo di Cristo
imprigionato e destinato a morire nell'anfiteatro.
Il
graffito del cisternone rappresenta un unicum nella
iconografia paleocristiana, anche se la simbologia della
nave utilizzata per indicare la Chiesa di Cristo non è
rara nelle raffigurazioni dei primi anni del
cristianesimo. Alcune similitudini sono state
individuate con un affresco ritrovato, sempre a
Cagliari, nel cosiddetto Cubicolo di Giona all'interno
del Cimitero Monumentale di Bonaria. Alcune perplessità
intorno alla datazione del disegno sono motivate
tuttavia dalla presenza della croce monogrammatica, di
incerte origini, che si diffuse soltanto in epoca
costantiniana quando ormai il cristianesimo era
liberamente praticato.
Si potrebbe ipotizzare allora che
il graffito risalga ad un epoca successiva alle
persecuzioni e che il cisternone divenne nei secoli un
luogo di pellegrinaggio cristiano dove rendere omaggio a
tutti coloro che vi furono imprigionati e che, per amore
di Cristo, sacrificarono la loro vita.
Come arrivare: il
cisternone si trova all'interno dell'Orto della Casa di
Riposo per anziani Vittorio Emanuele II. Ci si accede da
viale Fra Ignazio o da Vico I° Merello. Come arrivarci: ci si arriva con
l'autobus numero 5 (fermate di viale Merello) o con
l'autobus numero 8 (fermate di viale Buocammino).
Orari
di apertura: L'Orto ed il cisternone per il momento sono
accessibili al pubblico soltanto in occasione della
manifestazione "Monumenti Aperti". Per informazioni
contattare il Gruppo Speleologico Centro Studi Ipogei
Specus, via Santa Gilla, 115 Cagliari - Tel.
0338/2774790.
Spiaggia del
Poetto
Il
Poetto si affaccia sul Golfo degli Angeli ed è la spiaggia principale
della città, e dista solo una corsa in autobus da cinque a dieci minuti dal
centro della città. Numerosi chioschi di una certa eleganza lungo la
spiaggia servono aperitivi, bevande in genere, panini e snack, e sono aperti
giorno e notte per tutta l'estate con spesso l'aggiunta di musica dal vivo
o dj. Li scenario di sabbia bianco che va avanti per chilometri è
accresciuto dalla presenza dello scenografico promontorio della Sella del
Diavolo, che domina dall'alto il promontorio di Marina Piccola. Tutte queste
caratteristica, vicinanza alla città, bellezza, presenza di servizi fanno
del Poetto la spiaggia preferita dai cagliaritana nella stagione estiva o in
qualsiasi altra giornata soleggiata nel resto dell'anno.
Il Poetto
Curiosità: il Poetto è la spiaggia più grande ed affollata di Cagliari ed è
sicuramente una delle più belle del Mediterraneo. È una bianca distesa di
sabbia finissima che si estende per otto chilometri, dalla Sella del Diavolo
sino al litorale di Quartu Sant' Elena. Il nome della spiaggia si pensa
derivi da una torre soprannominata "del Poeta", che si può osservare ancora
oggi sulla collinetta della Sella del Diavolo e che fu costruita, insieme a
tante altre, diversi anni orsono per difendere l'isola e la città dagli
attacchi dei terribili pirati barbareschi.
Il poeta a cui deve il suo nome
era il latino Ennio che da quel privilegiato punto d'osservazione dove il
mare si confonde con l'azzurro del cielo, trovava forse ispirazione per le
sue opere. Si può ipotizzare anche che l'origine del nome "Poetto" derivi
dal catalano "pohuet" che significa pozzetto, in riferimento ai numerosi
pozzi e cisterne per la conservazione dell'acqua piovana sparsi sul colle.
La frequentazione del Poetto come spiaggia privilegiata dai cagliaritani
iniziò nei primi decenni del 1900. Prima di allora i cagliaritani amavano
bagnarsi nelle acque della spiaggetta di Giorgino, nella parte opposta del
Golfo più riparata dal potente vento di Maestrale.
Dal quel momento
cominciarono a sorgere le prime strutture di accoglienza (gli storici "Lido"
e il "D'Aquila"), i chioschetti per i rinfreschi ed anche un ospedale,
l'Ospedale Marino. Molti ricordano con nostalgia i caratteristici "casotti",
le piccole abitazioni in legno costruite per ospitare bagnanti e vacanzieri,
disseminate lungo tutta la spiaggia. I "casotti" con profondo rammarico dei
cagliaritani, vennero rimossi interamente nel 1986 per motivazioni di natura
igienico - sanitaria.
Il Poetto offre tutti i servizi di ristoro e di
intrattenimento: stabilimenti balneari, docce, ristoranti, pizzerie e sale
da ballo. Lungo tutto il litorale si incontrano i caratteristici "baretti"
che sono il ritrovo preferito dei cagliaritani soprattutto nelle calde notti
d'estate.
La sera sul Poetto arrivano le luci e la musica del vicino Luna
Park, il Cavalluccio marino. Nei mesi estivi sulla spiaggia si organizzano
numerose manifestazioni musicali e sportive.
Come arrivarci: ci si arriva direttamente con gli autobus PF, PN e PQ,
che partono da piazza Matteotti (di fronte alla stazione delle Ferrovie di
Stato), con l'autobus QS. Nei mesi estivi si aggiungono il 9P (che parte da
piazza S.Michele) e il 3P (che parte da piazza S.Giovanni).
La Sella del
Diavolo
Curiosità: la Sella del Diavolo è il nome dato alla collina che domina la
spiaggia del Poetto ed il porticciolo di Marina Piccola. Questo nome così
originale gli deriva da una antica leggenda. La leggenda narra che Lucifero,
l'Angelo che si ribellò all'Onnipotente, sconfitto dagli Angeli precipitò in
mare e la sua sella si conficcò sulla collina pietrificandosi, lasciando
così l'impronta che caratterizza questa piccola altura.
Da quel momento in
poi, racconta sempre la leggenda, il Golfo fu protetto dagli Angeli. Come arrivarci: ci si arriva direttamente
con gli autobus PF, PN e PQ, che partono da piazza Matteotti (di fronte alla
stazione delle Ferrovie di Stato), con l'autobus QS. Nei mesi estivi si
aggiungono il 9P (che parte da piazza S.Michele) e il 3P (che parte da
piazza S.Giovanni).
Torre di Calamosca
Curiosità: la
Torre di Calamosca venne costruita dagli spagnoli nel 1638.
Insieme alle altre torri edificate lungo il litorale sardo, anch'essa
rientrava nel disegno difensivo degli spagnoli preoccupati di tutelare le
coste da possibili minacce provenienti dal mare. La torre è collocata sul
promontorio di Calamosca, da cui ha preso il nome, ed è situata a 54 metri
sopra il livello del mare. Rispetto alle torri tradizionali presenta una
base molto ampia e molto robusta in quanto era destinata ad ospitare cannoni
di grosse dimensioni pronti a rispondere agli attacchi nemici sferrati dal
mare.
Per questo motivo era stata ribattezzata "Torre de Armas".
L'appellativo di "Torre dei Segnali" gli venne attribuito invece a causa dei
segnali che dalla sua postazione inviava sino al Castello di Cagliari,
segnali che avvertivano del passaggio di navi e bastimenti sulle acque del
golfo. La torre ebbe un'importanza strategica e difensiva notevole durante
il tentativo di invasione della flotta napoleonica, avvenuto nel 1792-93,
coraggiosamente risospinta in mare dai sardi. Al 1859 risale il faro
costruito affianco alla torre ed alla fine del 1800 il semaforo per la
navigazione. Attualmente la torre è sotto la tutela della Marina Militare. Come arrivarci: ci si arriva direttamente
con l'autobus numero 11; la domenica con l'autobus numero 5/11. Poi si
prosegue a piedi.
Torre Spagnola
La
Torre Spagnola di Cagliari, ormai consumata dai venti, fu costruita dagli spagnoli
come torre di avvistamento per difendere le coste dell'isola dalle terribili
incursioni barbaresche. Un'altra torre, di epoca più recente, si trova nel
litorale di Quartu immersa nelle acque del mare, di traverso. Questa seconda
torre venne utilizzata durante la seconda guerra mondiale sempre con
funzione difensiva. Come arrivarci: ci si
arriva direttamente con gli autobus PF, PN e PQ, che partono da piazza
Matteotti (di fronte alla stazione delle Ferrovie di Stato), con l'autobus QS, e, nei mesi estivi, con il 9P (il diretto che parte da piazza S.Michele)
e con il 3P (il diretto che parte da piazza S.Giovanni), scendendo alla
settima fermata del Poetto oppure a piedi, attraversando la spiaggia sino al
vecchio Ospedale Marino.
Spiaggia di
Calamosca
Curiosità: La piccola spiaggia di Calamosca è un angolo di sabbia e mare
molto piacevole che si insinua tra gli scogli in un ambiente che è rimasto
ancora selvaggio. Si trova in una zona della città destinata ad esigenze
militari, come si può facilmente notare dagli edifici che si incontrano
percorrendo il lungo viale alberato che conduce alla spiaggia. È dotata di
strutture di accoglienza quali un piccolo chioschetto per i rinfreschi ed un
Hotel-Ristorante-Pizzeria che si affaccia sul mare. Come arrivarci: ci si arriva direttamente con l'autobus numero
11; la domenica con l'autobus numero 5/11.
Stagno di Molentargius
Lo
Stagno di Molentargius è un'oasi naturale, una delle più
importanti del Mediterraneo, che i fenicotteri rosa, esemplari rarissimi che
in Europa nidificano solo in Spagna e Francia, hanno scelto come luogo
ideale per costruire i loro nidi. L'evento eccezionale si verificò nel 1993
quando una colonia di fenicotteri nidificò nello stagno dando vita ad un
migliaio di nuovi nati. Nella primavera di quell'anno nelle acque dello
stagno si registrò la presenza di oltre 10.000 esemplari della specie.
Negli
anni successivi essi ritornarono ad accoppiarsi a Molentargius e nel 1997 si
è intrapreso il monitoraggio dei nuovi nati ai quali è stato applicato un
piccolo anello che consentirà di controllarne gli spostamenti. I fenicotteri
sono degli uccelli dalle lunghe zampe e dal piumaggio vivacemente colorato
che librandosi in volo disegnano una lunga scia rosa nel cielo.
Il loro
caratteristico colore rosa deriva da un piccolo crostaceo di cui sono
ghiotti e che vive nelle acque dello stagno insieme ad altre varietà di
crostacei ed insetti di cui essi si cibano. I sardi li hanno soprannominati
sa genti arrubia. Ogni primavera puntualmente si accoppiano, seguendo
precisi rituali, nelle acque dello stagno, protetti dalle lunghe file di
canne dagli sguardi indiscreti di uomini e predatori.
La particolarità dello
stagno di Molentargius è proprio quella di trovarsi nel bel mezzo del centro
abitato più popoloso di tutta l'isola, quello di Cagliari e Quartu
Sant'Elena, immerso nel traffico caotico e nei rumori cittadini. La scorsa
primavera però la cova dei fenicotteri è stata tragicamente e brutalmente
interrotta da un gruppo di cani randagi che si aggiravano affamati nelle
acque dello stagno facendo scempio delle uova.
Questo episodio ha suscitato
profonda commozione e sdegno nella comunità richiamando le autorità
competenti alle loro responsabilità. Lo stagno, che si estende su una
superficie di 550 ettari, dal 1999 è stato dichiarato Parco regionale e
affidato alla tutela dei quattro comuni coinvolti nell'area: Cagliari, Quartu, Quartucciu, Selargius ed alla provincia. L'attuazione del progetto
del Parco Molentargius - Saline tuttavia stenta a decollare.
L'episodio dei
cani randagi ha messo in evidenza quanto sia urgente prendere delle misure
che garantiscano i necessari controlli e la protezione delle zone di
nidificazione. Lo stagno, che si divide in due aree, quella d' acqua salata
del Bellarosa maggiore e quella d' acqua dolce del Bellarosa minore,
racchiude un ecosistema di grandissima rilevanza scientifica.
La stessa
diversità delle acque che lo compongono consente l'esistenza di differenti
varietà sia vegetali che animali. Le acque salmastre rappresentano l'habitat
ideale oltre che dei fenicotteri rosa anche di molte altre varietà di
uccelli: avocette, gabbiani, cormorani, aironi cinerini, tuffetti, sono sono
alcuni degli esemplari che frequentano assiduamente lo specchio d'acqua
salata.
Preferiscono le acque dolci del Bellarosa minore e la sua folta
vegetazione: la garzetta, il pollo sultano, il cavaliere d'Italia, il
mignattaio e tante altre specie rare. Altri uccelli, anfibi e rettili
frequentano indistintamente entrambi i bacini. Negli ultimi anni, durante la
stagione invernale, è stata segnalata la presenza di circa 20.000 uccelli.
Un'altra zona umida importantissima in cui i fenicotteri ed altri rarissimi
esemplari hanno scelto di riprodursi, grazie alle favorevoli condizioni
climatiche, è la laguna di Santa Gilla, situata nel versante occidentale di
Cagliari.
Del Parco fanno parte anche le saline, che si trovano tra lo
stagno e la spiaggia del Poetto. Il nome Molentargius è legato alla
produzione del sale derivando da "su molenti", "l'asinello" utilizzato in
passato per trasportare il sale estratto dalle saline di cui il Bellarosa
maggiore rappresentava la prima vasca di evaporazione. Le altre due vasche
evaporanti e le caselle salanti occupano l'area retrostante il litorale del
Poetto e sono separate dallo stagno dalla breve striscia sabbiosa di Is
Arenas. La storia delle saline ha origini antichissime.
Tutti i
conquistatori dell'isola e della città, a partire dai fenici sino ai
piemontesi, si dedicarono allo sfruttamento di questa preziosissima risorsa
naturale. I primi colonizzatori dell'isola, i fenici, al loro arrivo
trovarono già una fiorente produzione. Essi furono i primi ad intraprenderne
l'esportazione da abili navigatori e commercianti quali erano.
Fu durante
l'impero romano che l'attività raggiunse il suo culmine: dal porto di
Cagliari partivano navi cariche di sale (e grano) dirette verso la penisola,
scortate dalla potente flotta del Tirreno per non essere saccheggiate dai
pirati. Caduto l'impero sotto i colpi delle invasioni barbariche, il
commercio del sale conobbe una battuta d'arresto durata alcuni secoli. I
giudici di Cagliari concessero lo sfruttamento delle saline ai monaci vittorini di Marsiglia.
Ad essi subentrarono i pisani che, dopo aver
distrutto il giudicato di Cagliari nel 1258, presero il potere dando nuovo
impulso all'attività estrattiva. Gli aragonesi assegnarono agli abitanti di
Cagliari una concessione annua di sale, mentre i re di Spagna introdussero
il monopolio regio sul sale che in tutto il Regno era venduto al prezzo di
"10 soldi a quartino".
Gli addetti all'estrazione del prezioso minerale, i salinieri, erano i contadini dei villaggi limitrofi (i cagliaritani erano
esonerati da questo obbligo) costretti ad estrarre il sale mettendo a
disposizione i propri attrezzi e gli animali per il trasporto (gli asinelli
che hanno dato il nome allo stagno). Ad essi si affiancarono in seguito i
condannati della colonia penale di San Bartolomeo. Fu il re Carlo Alberto,
nel 1836, a decretare la fine di questa durissima prestazione servile. Dal
quel momento in poi l'estrazione del sale fu affidata a manodopera libera.
Le saline attiravano lavoratori da tutto l'hinterland cagliaritano
rappresentando un'importante fonte d'impiego e di sviluppo economico. Negli
ultimi secoli l'industria saliniera passò sotto il diretto controllo dello
stato che investì notevoli risorse per l'introduzione di moderni macchinari
e la formazione del personale addetto alle attività estrattive. Nonostante
il calo dell'esportazione che si registrò nel ventesimo secolo a causa della
concorrenza di altri paesi del Mediterraneo, il sale continuò ad esse una
risorsa importante dell'economia cittadina e isolana.
L'attività di
estrazione svolta dalle Saline di Stato cessò definitivamente nel 1985 a
causa dei notevoli danni ambientali ad essa connessa. Non pochi sperano che
una volta risolti i problemi di inquinamento e riconvertita l'industria del
sale in modo da essere compatibile con l'ambiente circostante, le saline
possano rincominciare a produrre dando nuovo impulso allo sviluppo economico
di tutta la zona. .
Come arrivare: il parco si trova tra le città di Cagliari e Quartu (ad est e
ad ovest), il viale Marconi (a nord) che unisce i due centri abitati, ed il
litorale del Poetto. Un' ottima panoramica dello stagno si può godere dalla
terrazza naturale di Monte Urpinu.
Orari di apertura: visite guidate al parco (a pagamento) per scolaresche e,
su richiesta, per gruppi di turisti sono organizzate da Legambiente. La
stagione ideale è quella autunnale-invernale. Per informazioni contattare
Legambiente: 070 671003.
Laguna di Santa
Gilla
La
Laguna di Santa Gilla, che si trova nella zona occidentale di
Cagliari, riveste una notevole importanza storica, scientifica e
naturalistica. Essa si estende per circa 10 km sino alle foci del Rio Cixerri e del Rio Fluminimannu, che la alimentano. È separata dal mare
dalla striscia di sabbia di La Plaia. Nelle acque dello stagno sbarcarono i
fenici, nel lontanissimo VIII secolo a.C., e qui nacque il primo
insediamento urbano della Carales cartaginese.
Durante il periodo giudicale
Santa Gilla conobbe la sua massima importanza. La zona lagunare, al riparo
dalle terribili incursioni islamiche che imperversavano sulle coste, venne
scelta per stabilirvi la capitale del regno giudicale di Cagliari, Santa
Igia. Con l'arrivo dei Pisani, che distrussero la città nel 1258,
trasferendo il centro del potere sul colle di Castello, Santa Igia iniziò la
sua decadenza.
Rimasero poche testimonianze della antica e gloriosa città
medievale distrutte anch'esse questa volta non per schermaglie di guerra ma
per la più banale costruzione di un cavalcavia! La laguna di Santa Gilla è
solo una parte del grande stagno di Cagliari (il più esteso di tutta
l'isola) che raggiunge più di 3.000 ettari di superficie. Oltre alla laguna
esso comprende le saline di Macchiareddu ed il piccolo stagno di Capoterra.
La laguna ha una notevole importanza avifaunistica. Vi nidificano rare
specie di uccelli acquatici: il cormorano, l'avocetta, il pollo sultano, il
cavaliere d'Italia e soprattutto il fenicottero rosa che frequenta anche lo
stagno di Molentargius. Le acque dello stagno erano riconosciute tra le più
pescose di tutta Europa. Tuttavia interventi edilizi (come la costruzione
del porto canale), gli scarichi fognari e l'inquinamento causato dagli
stabilimenti industriali di Cagliari e dell'hinterland cagliaritano, hanno
messo in pericolo, nel corso degli anni, questo inestimabile patrimonio
naturalistico. Attualmente lo stagno è al centro di un importantissima
iniziativa: il Progetto Gilia.
Grazie all'accordo raggiunto dai sindaci dei
quattro comuni confinanti con lo stagno, Cagliari, Assemini, Capoterra e
Elmas, e con i finanziamenti della regione e dell'Unione Europea, è stato
possibile recuperare al degrado ben 2.000 ettari di terreno destinati allo
studio ed alla osservazione delle rarissime specie acquatiche che popolano
lo stagno. Nell'ambito del progetto è stato istituito un attrezzatissimo
laboratorio di ricerca ospitato in un vecchio casale ristrutturato, Casale Terr'e Olia, adibito anche a spazio museale. Tutte le informazioni relative
la progetto Gilia si possono trovare sul sito:www.gilia.net
Come arrivare: nella parte occidentale di Cagliari.
Come arrivarci: lo si può raggiungere percorrendo, in uscita dalla città,
viale La Plaia e via San Paolo e raggiungendo la statale 195 verso Pula.
Oppure da Assemini (cittadina a circa 10 km da Cagliari) attraverso la zona
industriale di Macchiareddu.
Giardini Pubblici
di Cagliari
Curiosità: i Giardini pubblici sono una delle aree verdi più belle e
frequentate di Cagliari. Furono realizzati durante la reggenza dei Savoia
che durante la loro permanenza in città (dal 1799 al 1815) lamentarono la
mancanza di passeggiate verdi di cui erano dotate le più grandi città
continentali del regno di Sardegna. La creazione dei Giardini, insieme a
quella del viale Buoncammino e del viale Regina Margherita, fu il risultato
di una serie di opere realizzate riconvertendo le fortificazioni della parte
orientale del Castello, che regalarono alla città nuovi spazi verdi e viali
alberati. La costruzione dei Giardini ebbe inizio nel 1819 ad opera del
viceré Giacomo Pes di Villamarina e venne completata nel 1829 dal colonnello
d'artiglieria Carlo Pilo Boyl.
Quando, dopo il 1839, l'area venne acquisita
dal comune si procedette ad ulteriori modificazioni. Venne realizzato il
vialetto principale, l'ingresso ed i giardini furono dotati di vasche
d'acqua. L'aspetto attuale con l'ingresso ad arcate di mattoncini rossi e
pavimento mosaicato, la bella vasca centrale che si incontra a metà del
viale principale, risale al secondo dopoguerra. Nei Giardini si trovano
moltissime varietà di piante: i lecci del viale d'ingresso, le palme delle
Canarie e la caratteristica macchia mediterranea sono solo alcune.
All'interno dei giardini, sopra un piedistallo, c'è una grande statua di
marmo "alla quale", racconta lo Spano, "si è dato il nome di Eleonora,
ponendole un volume in mano, alludendo al corpo di leggi che ordinò per
regolare i suoi stati....Questa statua venne trasportata da Uta per cura del
citato Boyl, togliendola dalla Chiesa rurale di S. Tommaso, dov'era
collocata in un nicchione della facciata. È una bella statua di marmo greco
panneggiata, e si vede tuttora la grandezza dello stile nelle parti in cui
non è stata ritoccata. Viso e mani sono di moderno ristauro".
Percorrendo il
viale alberato d'ingresso si arriva al Palazzo di stile neoclassico,
utilizzato un tempo come polveriera, che dal 1928 ospita la Galleria
comunale d'arte. All'interno dei Giardini si trovano ancora dei cannoni un pò arrugginiti dal tempo, che ricordano l'antica destinazione del luogo,
riconvertito ad uno scopo più ameno. Affacciandosi sul lato rivolto verso il
viale San Vincenzo, si può godere una piacevole vista della città. Una
stradina scavata nella roccia collega i Giardini a viale Buoncammino.
E
proprio addentrandosi in questa stradina, si nota un grande portale in
legno, molto malandato a dire il vero, che chiude l'accesso ad un grande
sotterraneo artificiale. Questa cavità venne utilizzata già nei primi
decenni del ventesimo secolo come stalla per gli animali che popolavano il
minizoo di esemplari sardi: volpi, cinghiali e mufloni, allestito in quegli
anni nei giardini pubblici. Durante il secondo conflitto mondiale, molti
cagliaritani in questa stessa cavità trovarono un sicuro rifugio alle bombe
sganciate dagli aerei nemici.
All'uscita dei giardini, incamminandosi verso
la discesa del viale Regina Elena, si incontra un altro spazio verde molto
gradevole della città: il Terrapieno, la passeggiata preferita dei Savoia.
La sua costruzione risale al 1839 per iniziativa del colonnello Carlo Pilo Boyl e sotto la cura del botanico ligure Giuseppe Piccaluga, membro della
Società Agraria ed Economica cagliaritana, che si occupava anche dei
giardini pubblici e che lo Spano definì giardiniere molto intelligente
complimentandosi per la disposizione e la quantità delle piante, indigene ed
esotiche, che riuscì a far proliferare nonostante l'aridità del suolo poco
atto alla vegetazione. Trascurato per diversi anni, il terrapieno venne
ristrutturato per la prima volta negli anni trenta del ventesimo secolo
dall'urbanista Ubaldo Badas e di recente.
Esso si trova proprio sotto lo strabiombo del Castello dove volgono il loro lato esterno la cattedrale ed
il palazzo viceregio. Dal privilegiato punto d'osservazione del terrapieno
la visuale si apre al sottostante quartiere di Villanova ed in una più ampia
prospettiva, verso il Poetto e la Sella del Diavolo.
Come arrivare: i Giardini si trovano nel largo Dessì. Un ingresso secondario
si trova in viale San Vincenzo.
Come arrivarci: ci si arriva con l'autobus numero 7 (fermate di viale Regina
Elena) e con l'autobus numero 6 (fermate di viale Regina Elena).
Orari di apertura: sono aperti tutti i giorni dalla mattina alla sera.
L'ingresso è gratuito ed all'interno c'è anche un piccolo chiosco per i
rinfreschi.
Viale Buoncammino
La
Passeggiata di viale Buoncammino, come la creazione dei
Giardini Pubblici, risale al periodo sabaudo. Furono proprio i Savoia
infatti che ordinarono la costruzione di passeggiate e di viali alberati, di
cui notarono la mancanza in città quando, l'incalzare delle truppe
napoleoniche che diffondevano in tutta Europa gli ideali di libertà,
eguaglianza e fraternità, li costrinse a rifugiarsi nell'isola (dal 1799 al
1815). La passeggiata del Buoncammino percorre un lungo viale alberato che
inizia da Porta Cristina, che introduce al quartiere di Castello ed alla
Cittadella dei Musei, e si conclude in piazza d'Armi.
Lungo tutto il
percorso si incontrano panchine, chioschetti per i rinfreschi, divenuti veri
e propri luoghi di ritrovo, un'edicola, un parco giochi per i più piccoli ed
anche una pizzeria all'aperto. Non mancano i piccioni, assidui frequentatori
delle piazze cagliaritane. Dal viale si gode una splendida vista della città
e del suo porto. Ai piedi di Buoncammino resiste alla sfida dei secoli
l'Anfiteatro romano la più imponente testimonianza della presenza romana a
Cagliari.
L'amenità del luogo, una delle aree verdi più amate e frequentate
dai cagliaritani e dai turisti soprattutto durante i caldi mesi estivi, non
è turbata nemmeno dalla imponente presenza della Casa Circondariale: il
carcere cittadino. Chiesa dei Santi Lorenzo e Pancrazio Una stradina scavata
nella roccia (proprio a ridosso del giardino del carcere) collega il viale
ai Giardini Pubblici. Una traversa del viale, invece, conduce alla terrazza
del Belvedere che offre una suggestiva panoramica della città. In cima ad
una piccola salita si può scorgere la chiesetta dei Santi Lorenzo e
Pancrazio che risale al XII secolo.
Come arrivarci: Ci si arriva facilmente a piedi dal centro della città o con
l'autobus numero 8 (fermate di viale Buoncammino), 5 (fermate di piazza
D'Armi) 20 e 21 (fermate di piazza D'Armi).
Castello di San Michele
La
presenza dell'uomo sul colle di San Michele risale ad un epoca
molto remota, forse sin dal periodo eneolitico (2700-1800 a. C.) come
dimostrano alcune mazze ritrovate in loco diversi anni orsono. In un primo
periodo l'uomo trovò rifugio all'interno di piccole grotte, tra cui la
cosiddetta Grotta di San Michele oramai non più identificabile a causa delle
trasformazioni subite dal colle nel corso dei secoli. La presenza dei
cartaginesi e dei romani è testimoniata dalle gallerie che questi popoli
scavarono sui fianchi del colle per estrarre blocchi di calcare. La
frequentazione cartaginese è attestata anche dall'esistenza di una cisterna
che si trova poco oltre il fossato che circonda il Castello dal lato che si
rivolge verso la pianura del Campidano, esattamente in corrispondenza del
Cimitero San Michele.
Attualmente è visibile l'imbocco che è coperto da una
grata di ferro. L'interno è poco profondo ed è coperto da detriti, inoltre
la poca luce che filtra dall'esterno e la situazione di degrado della
struttura non permettono nemmeno di riconoscere il rivestimento
impermeabilizzante della cisterna, già osservata e studiata in passato. È
l'unica cisterna risalente al periodo punico. Un'altra cisterna più grande
si trova nel cortile interno del Castello e fu costruita al tempo dei
pisani.
Il canonico Giovanni Spano nella sua Guida alla città e dintorni di
Cagliari, ne parla: "..il gran cisternone di mezzo era in buono stato sino
agli anni scorsi.." Esso soddisfaceva alle necessità idriche del Castello
soprattutto durante i lunghi periodi di assedio. La fisionomia originaria
del colle San Michele è mutata notevolmente in seguito all'apertura, nel
secolo scorso, di grandi latomie, cioè cave per l'estrazione di blocchi di
calcare destinati all' edilizia. Questi interventi oltre ad aver deturpato
l'aspetto naturale del luogo, hanno coperto le testimonianze lasciateci dai
più antichi frequentatori del colle confondendole con le opere realizzate in
epoca contemporanea.
Il Castello di San Michele venne edificato agli inizi
del XIII secolo dai pisani, con l'intento di difendere la città, che allora
sorgeva sulla Laguna di Santa Gilla, da possibili tentativi d'invasione
provenienti dal Campidano. Il Castello fu costruito su un preesistente
monastero vittorino dedicato all'Arcangelo Michele, da cui prese poi il nome
che conserva tuttora. I pisani lo dotarono delle due torri che si innalzano
in posizione nord e sud sul lato orientale. Esse furono costruite
utilizzando blocchi di media pezzatura di calcare di Bonaria impostati su
uno zoccolo molto inclinato realizzato con cantoni bugnati.
Gli altri
miglioramenti furono opera di Berengario Carròz, conte di Quirra, che ebbe
il Castello in feudo, come ricompensa per l'appoggio offerto agli aragonesi
nella conquista della città e che lo ribattezzò Castello di Bonvehi per la
vista che si gode dal colle. Egli fortificò ulteriormente il Castello di San
Michele aggiungendo alle due torri dell'originaria costruzione pisana, la
terza torre sul lato sud (anche se il progetto ne prevedeva due), più alta
rispetto alle altre due ma più tozza. Il Castello venne circondato da un
ampio fossato, ricavato nella roccia calcarea del colle ed una volta
sollevato il ponte levatoio, diventava un baluardo inespugnabile per le armi
nemiche. Il Castello divenne la residenza abitativa dei discendenti
dell'ammiraglio Carròz e subì la sorte della crudele dinastia.
L'ultima
erede della famiglia fu Violante Carròz, conosciuta come "la sanguinaria"
per la sua indole malvagia e vendicativa. Si racconta che Violante,
invaghitasi di Berengario Bertran, sciolse il suo vincolo matrimoniale per
unirsi in segreto con l'amato. Il suo gesto venne condannato apertamente dal
cappellano di corte. Il religioso, per aver osato manifestare il suo
giudizio, fu sommariamente processato e condannato all'impiccagione. Il suo
corpo senza vita penzolò per lungo tempo da una finestra del Castello,
macabro avvertimento per chiunque avesse osato sfidare nuovamente il potente
casato. Violante morì sola e amareggiata nel 1511 nel convento di San
Francesco di Stampace dove si era ritirata.
Il canonico Spano nella sua
Guida alla città e dintorni di Cagliari, narra così la sua storia: Questa
ricca e potente signora che visse nel secolo XV, aveva fatto trucidare il
suo Cappellano nella villa di Ales (Giovanni Castangia), suo feudo, dove a
sue spese eresse la bella Cattedrale. Per fare penitenza del suo fallo si
ritirò in un camerino nell'ingresso a destra di questo chiostro (la Chiesa
di San Francesco in Stampace, oramai distrutta), dove morì umile e
penitente, ordinando nel suo testamento che fosse seppellita fuori di Chiesa
(il sarcofago in pietra di Violante Carroz, con scolpito lo stemma nobiliare
del casato Carroz-Manrique, si trova ora a Decimomannu ed è di proprietà
della famiglia Cao-Pinna).
Fece pure un legato ai frati, ordinando che ogni
anno si corrispondesse ai medesimi 50 ettolitri di grano, ed una somma in
danaro che hanno goduto sempre fino alla legge del 29 maggio 1855 (le famose
leggi di abolizione degli ordini religiosi emanate dai governi del Regno
d'Italia). Le fortune del Castello vennero meno con la fine della dinastia
dei Carròz. Con l'introduzione dell'artiglieria, il suo ruolo difensivo
passò in secondo piano. Durante la terribile epidemia di peste che colpì la
città (nel 1656) venne utilizzato come lazzaretto. Nel 1793 il Castello
conobbe un ultimo momento di gloria: durante il tentativo di invasione delle
milizie napoleoniche venne dotato di cannoni per difendere la città contro
eventuali attacchi francesi provenienti dallo stagno di Santa Gilla.
Quando
Cagliari non fu più una città fortificata il Castello di San Michele perse
definitivamente ogni ruolo difensivo. Nel 1895 la fortezza, insieme al colle
omonimo, fu desmanializzata e ceduta al marchese Edmondo Roberti di San
Tommaso (che fu per molti anni sindaco di Cagliari), che si occupò dei primi
lavori di restauro del Castello, affidandoli all'architetto Dionigi Scano,
ed iniziò l'opera di rimboschimento del colle. Infine il Castello, seppur
per breve tempo, ospitò la Stazione Radiotelegrafica della Marina.
In questi
ultimi anni il Castello di San Michele è stato restaurato ed il colle è
stato trasformato in un bellissimo parco verde. Al suo interno ci sono anche
un ristorante ed un bar all'aperto. In cima al colle si può godere una
panoramica della città che spazia dalla Sella del Diavolo, sul litorale del Poetto, sino allo stagno di Santa Gilla, verso la pianura del Campidano.
Inoltre il Castello, che domina imperioso sul suo colle, è visibile da
qualsiasi punto della città: sia arrivando a Cagliari dalla Statale 131 (la
Carlo Felice), sia sollevando lo sguardo dalla spiaggia del Poetto. Il colle
di San Michele si trova a 120 metri sopra il livello del mare.
In occasione dell'edizione straordinaria dei "Monumenti Aperti" del 5 e 6
maggio 2001, furono aperte al pubblico, per la prima volta, le sale
interne del Castello. Dopo anni di abbandono, gli ambienti interni,
completamente restaurati, sono stati adibiti a spazio culturale ed
espositivo. Una modernissima sala ospiterà conferenze. L'accurato lavoro di
ristrutturazione ha consentito la convivenza tra i muri ed i pavimenti
originari, spesso visibili solo sotto lastre di vetro, e la moderna
struttura in legno, acciaio e policarbonato. Molto interessanti le due torri
pisane con le sottilissime feritoie la cui profondità mette in risalto lo
spessore dei muri, la chiesetta del Castello ed il portone d'ingresso che
conserva i segni della medievale saracinesca. All'esterno, sopra il portone,
si vede ancora lo stemma del casato dei Carròz.
Come arrivare: sul colle di San Michele.
Come arrivarci: si può raggiungere con gli autobus numero 20 e 21 (fermate
di via Serbariu e di via Cornalias), si procede poi a piedi per la salita.
Orari di apertura: il parco intorno al Castello è aperto tutti i giorni,
dalla mattina alla sera. L'ingresso è libero. Il castello è aperto al
pubblico dal martedì alla domenica secondo i seguenti orari: dalle ore 10
alle 13; il pomeriggio dalle ore 17 alle 20. L'ingresso alla struttura è
libero. Per le mostre è a pagamento. Per informazioni: 070 500656.
Orto botanico di
Cagliari
L'Orto Botanico sorge su un'area della città di grandissimo interesse
archeologico. L'Orto, infatti, è situato tra l'Anfiteatro romano e la Villa
di Tigellio, le più importanti testimonianze della presenza romana a
Cagliari, ed al suo interno conserva alcune cisterne di epoca punica e quel
che resta di un terminale di acquedotto romano che portava l'acqua in città
da Villamassargia.
Nell'Orto si trova ancora il "libarium" (altrimenti
conosciuto come Fontana di Palabanda), un pozzo romano molto profondo di
acqua di falda, così chiamato perché vi si dissetavano gli attori che
recitavano all'Anfiteatro. L'acqua del pozzo era utilizzata ed, addirittura,
venduta sino all'ottocento. L'area dell'Orto è nota come "vallata di
Palabanda" e si distingue per il suo clima mite e la protezione dai venti.
In passato però l'intera zona ebbe una fama sinistra legata alle vicende del
suo ultimo proprietario: l'avvocato Salvatore Cadeddu. Accusato di essere
uno degli artefici della "congiura di Palabanda" organizzata nel 1812 per
detronizzare Vittorio Emanuele I di Savoia, il Cadeddu venne processato ed
impiccato. Dal quel momento in poi tutta la zona venne vista con sospetto.
All'interno dell'Orto, vicino alla vasca centrale, un lapide apposta nel
1992 ricorda questo tragico episodio.
Fu l'Università di Cagliari ad
acquistare l'area dove, nel 1866, su iniziativa del prof. Patrizio Gennari
venne inaugurato ufficialmente l'Orto Botanico. L'Orto si trova tra le
Facoltà universitarie di Giurisprudenza, Scienze Politiche, Economia e
Commercio e l'Ospedale civile (il San Giovanni di Dio), progettato nel 1844
dall'architetto Gaetano Cima. Si estende su una superficie di 5 ettari e si
trova a 50 metri sopra il livello del mare. Il clima, di tipo mediterraneo
secco, ha favorito lo sviluppo di quattro settori di ricerca:
-
Il settore mediterraneo
che si dedica alla coltivazione ed allo studio di specie vegetali sarde e
provenienti da aree caratterizzate dal clima mediterraneo (Americhe, Asia,
Africa, Oceania).
-
Il settore tropicale
che si occupa dell'acclimatizzazione delle specie tropicali.
-
Il settore delle piante succulente
indirizzato allo studio delle specie vegetali caratteristiche di zone aride
e rocciose.
-
Il settore medicinale (o Orto dei Semplici)
ristrutturato nel 1996, conta circa 120 specie suddivise secondo l'uso
terapeutico. Ne fanno parte due aiuole aromatiche destinate ai non vedenti.
L'Orto fu gravemente danneggiato durante la seconda guerra mondiale e negli
anni 1942-44 ospitò un battaglione di cavalleria che trovò rifugio in un
enorme cisterna romana a forma di damigiana. La cisterna, che aveva la
capacità di contenere circa 160 m³ d'acqua, costituiva la parte finale
dell'acquedotto romano che portava l'acqua in città da Villamassargia (in
corrispondenza dell'inbocco della cisterna si trova attualmente un aula
della vicina facoltà di Giurisprudenza).
Nel dopoguerra fu ripresa con
grande alacrità l'opera di rimboschimento e l'Orto assunse l'aspetto che
conserva ancora oggi. L'Orto ospita circa 600 alberi, 550 arbusti e 75
piante lianose; ci sono anche 800 specie coltivate in vaso e facenti parte
di diverse collezioni; le piante grasse (o succulente) sono circa 1000
distinte in diverse coltivazioni. In occasione dell'anno giubilare
all'interno dell'Orto è stato inaugurato una percorso molto interessante
dedicato alle piante della Bibbia.
Disseminati qua è là tra le altre piante,
si incontrano vasi che si contraddistinguono per la particolare etichetta
che cita il passo della Bibbia in cui vengono nominate. All'interno
dell'Orto si trova anche l'Istituto di Botanica, edificato nel 1908, che
ospita il Dipartimento di Scienze Botaniche, da cui l'Orto stesso dipende.
Il Dipartimento si occupa delle ricerche, delle esercitazioni e delle
lezioni di Biologia vegetale per i Corsi di Laurea delle Facoltà di Scienze
e Farmacia dell'Università di Cagliari.
Nelle sale dell'Istituto è possibile
visitare l'Erbario con la sua ricca collezione di circa 50.000 piante secche
distinte in due settori: quello Sardo e quello generale. L'ingresso
dell'Istituto si trova in viale Fra Ignazio, a fianco alla Facoltà di
Giurisprudenza. L'Orto Botanico non è solo un centro di studi
dell'Università. Esso è uno dei giardini più ameni nel cuore della città
dove è possibile trascorrere delle piacevoli ore di relax all'ombra delle
sue piante ormai secolari.
Come arrivare: l'ingresso dell'Orto Botanico si trova in viale Fra Ignazio,
11.
Come arrivarci: Ci si arriva facilmente a piedi dal centro della città.
Orari di apertura: l'Orto si può visitare tutti i giorni dalle 8 alle 13,30;
dal 1° aprile al 15 ottobre è aperto anche al pomeriggio dalle 15 alle
18,30; nei mesi di maggio, giugno, luglio e agosto sino alle 20. Il
biglietto d'ingresso è di L 1.000/€ 0,52; gratuito per le scolaresche del
comune di Cagliari, i visitatori di oltre 60 anni di età, per i bambini sino
ai 6 anni e per i portatori di handicap. Visite guidate sono organizzate la
2° e la 4° domenica di ogni mese e tutte le domeniche estive alle ore 11.
Chiuso nei giorni di Pasqua, Pasquetta, Ferragosto ed il 1° maggio. Per
informazioni: 070 6753501.
Monte Urpinu
Il
parco di Monte Urpinu si trova alle pendici del monte omonimo. Il nome
deriva da "urpi" che in lingua sarda significa "volpe". Il colle infatti
venne soprannominato "Monte Volpino" perchè era conosciuto come un luogo
impervio, isolato dal centro cittadino ed abitato dai lupi. Solo in seguito
al graduale popolamento della zona, la flora e la fauna del "Monte volpino"
si andarono modificando. Il suo penultimo proprietario, il marchese Sanjust
di Teulada, gli dedicò una particolare cura e ne iniziò il rimboschimento
con la coltivazione del profumato pino d'Aleppo.
Nel 1939 il colle venne
acquistato dal comune e sebbene nel periodo fascista fosse stato eletto
"primo parco verde" della città, sino al secondo dopoguerra, fu destinato al
completo abbandono. Oggi il parco di Monte Urpinu è una delle più belle
isole verdi nel cuore di Cagliari. All'interno del parco si può passeggiare
piacevolmente attraverso i vialetti alberati che si inerpicano sino in cima
al colle, dare da mangiare ai piccioni, alle oche ed alle anatre che
sguazzano chiassose nei loro laghetti o passeggiano tra il verde, oppure
riposarsi sulle panchine a prendere il fresco.
Non mancano i giochi per i
più piccoli: altalene, scivoli, trenini e giostre ed un chioschetto per i
rinfreschi. Attraverso i vialetti che fiancheggiano il colle, si arriva al
Belvedere, una terrazza naturale da cui si può godere una suggestiva veduta
panoramica della città che spazia dal quartiere di Castello al Castello di
San Michele e, dall'altro lato, si affaccia sullo Stagno di Molentargius, le
Saline, il Poetto e la Sella del Diavolo. Il colle si trova a 98 metri sopra
il livello del mare.
Come arrivare: al parco si accede attraverso diversi ingressi: l'ingresso
principale è in via Pietro Leo, altri ingressi secondari si trovano in viale
Europa (nel tratto superiore e all'angolo con via Garavetti) ed in via Vidal.
Un altro ingresso si apre sulla terrazza del Belvedere.
Come arrivarci: Ci si arriva con l'autobus numero 3 (fermate di via Scano).
Orari di apertura: L'ingresso è libero ed il parco è aperto tutti i giorni,
dalla mattina alla sera, con alcune variazioni di orario a seconda della
stagione.
Parco di Bonaria
Il Parco di Bonaria è un giardino verde che si inerpica sino in cima alla
collina sui cui sorgono il Santuario e la Basilica dedicate alla Vergine di
Bonaria, protettrice dei naviganti. All'interno del parco, protette da tetti
di lamiera o da grate di ferro, sono custodite le sepolture ad arcosolio di
epoca romana.Il Castello di Cagliari visto dal colle di Bonaria Dalle
scalinate che conducono in cima al colle, si può godere una suggestiva
veduta del Castello di Cagliari, con le sue torri, le antiche mura e la
cupola della Cattedrale.
Il colle di Bonaria proprio per la sua posizione,
venne scelto dall'Infante Alfonso d'Aragona, per edificarvi, nel 1323, la
città catalana di Castell de Bonayre, da cui organizzò l'assedio al Castello
di Castro, roccaforte dei pisani.
Come arrivare: sul colle di Bonaria. Il parco ha due ingressi: uno di fianco
al Cimitero Monumentale; l'altro alle spalle della Basilica, in cima al coll
Come arrivarci: ci si arriva con l'autobus numero 5 (fermata sul piazzale di
Bonaria), 6 (fermate di viale Bonaria), 30 (fermate di viale Bonaria), 31
(fermate di viale Bonaria).
Orari di apertura: è aperto tutti i giorni. L'ingresso è libero.
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