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Sandro Pertini - Il presidente più
amato
Il 18 luglio del 1978, venne
eletto Presidente, Sandro Pertini, nato a Stella San
Giovanni in provincia di
Savona
nel 1896. Ateo stimato dai credenti, progressista rispettato dai
conservatori, ricevette un plebiscito di preferenze, 832 su 995,
che fino ad allora nessuno aveva mai ottenuto. In seguito,
Pertini entrò nei cuori delle persone, al punto da essere ancor
oggi considerato il Presidente più amato dagli Italiani.
Tenacemente onesto e sincero, volle soprattutto essere un
integerrimo custode della Costituzione.
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Arrivato per una visita nel suo paese
natale nel gennaio del 1979 disse ai giornalisti al seguito, che
gli chiedevano sulla situazione del Paese, "Oggi non voglio
parlare di politica. A ogni giorno la sua fatica. Questo è un
momento particolare, son venuto qui per ritrovare la mia gente."
Era arrivato scortato da due ali di folla, in una giornata
fredda e gelida, un vento sferzante, la neve raccolta ai bordi
della strada. Lo aspettavano all'ingresso del paese che si
affaccia sulla strada. Pertini portava una sciarpa bianca e un
basco blu in testa che si levò solo sulla pedana, mentre il sindaco gli porgeva i saluti della cittadinanza. Sotto il palco
Pertini riconosceva tutti i suoi compaesani, li chiamava per nome
e rispondeva in dialetto, ricordava alla folla che qui, nel 1919,
aveva fatto il consigliere comunale. Poi nella stessa visita
andò a trovare la sorella Marion che aveva all'epoca 80 anni.
Tutti in paese a ricordarlo con gli occhi lucidi dall'orgoglio,
come una persona semplice, come uno di loro. Tutti a giurare che
non era mai cambiato.
Per dare l'idea di chi era Sandro
Pertini, vorrei riproporre una sua intervista fatta da Enzo
Biagi e apparsa sulla Stampa di Torino nell'aprile del 1973. Nell'intervista il futuro Presidente Pertini si
confessa al grande giornalista in tutta la sua umanità, in modo
molto toccante. L'intervista cominciava così:
"Nei verbali dei poliziotti l'avv.
Pertini Alessandro, fu Alberto, residente a Savona. È stato
condannato sei volte; quindici anni tra carcere e confino. Una
mattina, passando per caso davanti a un vetro, scopre di avere i
capelli grigi. Una sera rabbrividisce per la febbre; è un
attacco di tubercolosi. Lo informano che sua madre, disperata,
ha chiesto la grazia al duce. Le scrive con durezza: « Qui,
nella mia cella, di nascosto, ho pianto lacrime di amarezza e di
vergogna ». L'isolamento gli ha tolto la voce. Non perde mai
il senso della dignità. Anche con l'abito del galeotto è sempre
inappuntabile. Ogni notte, perché rimangano stirati, infila i
pantaloni sotto il pagliericcio. È a Regina Coeli, sa che i
tedeschi intendono fucilarlo: ma niente tradisce le sue
emozioni. Quando scappa in Francia fa il muratore,
l'imbianchino, lava i tassì. Ha due lauree, in Legge e Scienze
Politiche. Qualche volta si confida: «Io dovevo morire nel
1945». Ha scritto Montanelli: «Qualunque cosa dica
o faccia odora di pulizia, di lealtà». Ha detto Malagodi:
«Un uomo politico senza macchia di equivoci e di sotterfugi».
Non può piacere a tutti: questo è un momento in cui la protesta
si fa, soprattutto, coi manifesti e i necrologi; «Socialista
d'altri tempi, patetico, don Chisciotte», dicono. La
conversazione si svolge nel suo studio, a Montecitorio. Parla
pacato; soltanto in qualche momento si avverte una incrinatura.
Ci sono fatti, o giudizi, che ancora lo offendono.
Ma è pena,
non rancore. Chiedo: «Se ripensa alla sua vita, lunga e
combattuta, qual è il bilancio?». «Se per un prodigio
dovessi ricominciare, riprenderei la strada scelta quando ero
poco più di un ragazzo, e sapendo anche quale è il conto da
pagare. Uno studente mi ha domandato: "Lei è deluso?". No. Anche
all'ergastolo, a Santo Stefano pensavo con orgoglio: "Qui c'è
stato Settembrini", Quando ero operaio, e la paga era
insufficiente, o non trovavo lavoro, mi consolavo: "Adesso sai
come vivono tanti tuoi compagni". Non mi sono mai pentito. "Mi
guardi: non so mentire. Certo, molte speranze sono state spente.
Non ci siamo battuti per questo, per arrivare fin qui. Ma non
cambierei nulla. Sono abituato ad assumere le mie
responsabilità. Ho sempre impedito che i miei complici venissero
portati in giudizio. Sono sempre andato solo sul banco degli
imputati. "Chi le ha passato questo passaporto falso?"
chiedevano. "Chi ha messo i timbri?", "lo" rispondevo. «No,
quando dopo la sentenza gridai: "Viva il socialismo!" non fu un
gesto romantico, come hanno scritto. Se vuoi demolire un
politico non dire che è ladro o disonesto, dì che è un
sentimentale. Siti giornali, apparivano ancora brevi resoconti
dei tribunali speciali. Ed erano sempre comunisti, o anarchici,
quelli che riaffermavano le loro convinzioni. Io pensavo:
"Adesso ci sei, e devi fare il tuo dovere". E così urlai; e
quando passai davanti al presidente Trigalli Casanova, sorrisi.
E il maresciallo dei carabinieri che comandava la scorta mi
disse: "Bravo. Non ci si piega. Mio padre era seguace di Turati.
È la prima volta che, qui dentro, si è sentito inneggiare al
socialismo". Il Corriere ne diede notizia. C'era con me un altro
antifascista, si chiamava Cattaneo. Quando mi portarono via
disse: "Chissà se ci incontreremo ancora?". È morto dentro ».
«Ha commesso degli errori? ». «Sì, ho un carattere
passionale, e ho fatto qualche sbaglio di valutazione. Mi
rammarico, ad esempio, di avere, durante i congressi, attaccato
con violenza qualcuno che non la pensava come me; potevo essere
più sereno».
«Che ne pensa del comune declino di due suoi
amici, Nenni e Saragat, che psi e psdi hanno collocato quasi tra
i simboli, come per liberarsene? ». «È la crudeltà dei
partiti. Loro, sono come certi innamorati: non posso vivere né
senza di te né con te».
«Degli uomini che ha incontrati,
chi ricorda di più? » «Ho molta ammirazione per
Gramsci, e non è vero che fosse freddo, aveva una grande
umanità. Lo conobbi nel 1931, nella prigione di Turi di Bari, e
lui subito si avvicinò a me. Intanto, i nostri due partiti,
all'estero, si sbranavano. Aveva ricevuto dalla cognata, che era
impiegata all'ambasciata russa, un pacco, e chiese al direttore,
il giorno di Pasqua, di permettermi di passare la festa con lui.
Voleva che aderissi al pc, ma gli spiegai che non era possibile:
non ci può essere giustizia sociale se non c'è libertà. Non
esiste riforma capace di costituire materia di scambio. Gramsci
si sentiva avvilito, era stato isolato dai suoi: "Non
comprendono la mia posizione", diceva. Slava male, perdeva
sangue. Dormiva due o tre ore. Le guardie sbattevano apposta lo
spioncino per non lasciarlo riposare. Andai a protestare: "O
questa storia finisce, o faccio un esposto al ministero".
Figuriamoci. Dopo qualche giorno Gramsci mi disse: "Le cose
vanno un po' meglio". « Non mi ha mai parlato di Togliatti,
ma di Terracini e di Camilla Ravera (che poi
venne nominata senatrici a vita da Pertini n.d.r), con
affetto e stima. Criticava Trockij e Bordiga, ma
con ammirazione. Stavo leggendo un libro del rivoluzionario
russo, e lui mi disse: "Come scrive così parla. Quando arrivava
col Treno Rosso e si rivolgeva alla folla, anche i vecchi e gli
invalidi correvano ad arruolarsi". Gramsci si esprimeva
lentamente, cercava il termine esatto. Mi raccontò di Gobetti;
ne parlò come di un giovane molto sensibile, che una sera andò a
trovarlo all'Ordine Nuovo, per mostrargli un corsivo di Ottavio
Dinaie che lo criticava con acredine, e si mise a singhiozzare;
Gramsci dovette sostituirlo nella rubrica teatrale».
«Quando annullò la domanda di grazia presentata da sua madre,
che cosa c'era in lei? Orgoglio per le sue idee, disprezzo per
chi l'aveva condannato?». «Scrissi a mia mamma una
lettera crudele: "Ti considero morta". Per due o tre mesi non
volli incontrarla. Ero molto malato, ma mi avevano assicurato
che non si sarebbe lasciata andare a nessuna debolezza. Avrei
contraddetto me stesso con un atto di sottomissione, Mussolini
non era cretino, e sapeva che poi il beneficiato sarebbe stato
distrutto dai suoi. C'era con me un comunista, quasi analfabeta,
gli insegnavo io la grammatica, sul testo del Lipparini, e mi
raccontò: "È venuta Irma, lei e i bambini sono alla fame, ha
chiesto per me il perdono, glielo hanno, consigliato, le hanno
detto che avrò anche un posto al paese". Poi si mise a piangere:
"Ma non posso, non lo faccio, tradirei i miei compagni"».
«C'è un personaggio che lei ha conosciuto bene e che oggi è
molto discusso: Togliatti. Come lo giudica?». «Quando uno
è morto è facile dirne bene o male. Togliatti non sentiva la
Resistenza come noi che eravamo al Nord; chi è in guerra, in
trincea, non ha le stesse reazioni di chi sta in città. Anche
Nennni, anche Buozzi rivelavano, credo, lo stesso atteggiamento,
lo stesso stato d'animo. Era freddo, qualcuno dice anche cinico.
Scrisse un articolo contro Saragat dicendo che prendeva soldi
dagli americani; ero direttore dell' Avanti! e lo difesi. Quando
incontrai Togliatti, mi disse: "Ti ho mandato una lettera che
devi pubblicare, tu proteggi un venduto". "Io, replicai,
dissento da Saragat, non approvo la sita posizione, ma non ti
posso permettere di dire questo"».
«Che cosa è per lei il
socialismo?». «Il riscatto dell'uomo da ogni catena di
carattere ideologico, economico, confessionale. Deve essere
padrone dei suoi pensieri e dei suoi sentimenti, protagonista
del lavoro, non strumento».
«E il fascismo?». ' «
La negazione della dignità umana ».
«Quali sono i difetti e
le qualità degli italiani? Chi siamo?». «Sono
italiano in tutto e amo molto il mio popolo: peccati e virtù.
Non lo considero superiore agli altri, ma non lo riconosco
inferiore agli altri. È spesso soggetto all'esaltazione ma è
anche generoso. C'è sempre uno tra noi che si fa accoppare per
una causa giusta ».
«Cosa c'era di buono nel passato; e
oggi? ». «Oggi abbiamo questa democrazia che
stentatamente cammina. I giovani sono delusi, questi scandali
umiliano il Paese. Il psi in passato aveva dei dirigenti che
erano grandi galantuomini: bisogna dire a tutti che chi è
canaglia nella vita politica lo è anche in quella privata ».
«Lei crede, è religioso?». «No, ma rispetto la fede di
mia madre. I Vangeli sono per me una sorgente di verità eterne
».
«Cosa pensa della morte? ». «Credo si preoccupi
di morire chi non ha vissuto bene. Molte volte mi sono trovato
di fronte a quel momento risolutivo: per malattia, per volere
degli altri. Sento che l'accetterei tranquillamente».
«Qual è il gesto più gentile che ha ricevuto?». «Ero
nelle Marche, durante un'azione partigiana, c'era tanta neve,
avevo addosso un febbrone che mi divorava, non sapevo dove
rifugiarmi, fui ospitato in una povera casa, c'erano marito e
moglie, mi diedero il loro letto, mi curarono, non accettarono
niente».
«E l'offesa più grave?». «Quando,
nel 1948, dopo essermi battuto contro il Fronte, contro la lista
unica coi comunisti, diffusero la voce che ero un traditore
della classe operaia. Quella notte piansi».
«Si è mai
sentito vinto?». «No. Anche in prigione, ero lì per le
mie idee, e non ero solo ».
«Le doti che più apprezza?».
«Lealtà, onestà, coerenza».
«E le miserie più
spregevoli? ». «La superbia, la presunzione, l'invidia».
«Cosa vorrebbe dicessero di lei? ». «È stato un
uomo che non ha mai tradito i suoi ideali, il movimento dei
lavoratori e la democrazia ». Per la prima volta,
un'intervista finisce con un abbraccio. Non mi era mai capitato.
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