|
Sei qui:
Aneddoti,
curiosità e pillole di Storia >
Per
secoli gli italiani furono più esuli che viaggiatori per
diletto. Fa eccezione il Petrarca, primo turista culturale in
Germania e Francia nel 1333. Il poeta Marino ci ha lasciato un
vivido "libretto di viaggio" della sua avventura del 1615 verso
Parigi. Anche Goldoni fu incantato dai boulevard di Parigi nel
'700. Alfieri eterno "vandalo" fugge dalla noia con cavalli e
navi, invaghito della libertà inglese che trova a Londra.
Baretti in Spagna procede tra sole e deserto con il suo
destriero mentre inveisce contro Prussia e Russa. Mentre Da
Ponte e Casanova collaborano al Don Giovanni di Mozart, l'abate
Casti smaschera miti sui turchi dopo un viaggio a
Costantinopoli. Insomma, tra tormenti e delizie, una schiera di
spiriti inquieti solca l'Europa in cerca di sé. Un Grand Tour
involontario che precede i reportage di De Amicis e l'avvento
del turismo di massa.
Quei turisti all'estero si
chiamavano Petrarca, Alfieri e Foscolo. Il
primo viaggiatore italiano all'estero che ci abbia lasciato il
racconto del proprio viaggio fu Giulio Cesare, romano
classe 101 a. C, che attraversò una prima volta le Alpi nel
marzo del 58 a.C, diretto a Ginevra, dove fece tagliare il ponte
sul Rodano.
Ci si può azzardare a dire che, fino a
tempi recenti, di veri viaggiatori all'estero, partiti come noi
per vacanza o per istruzione, non ve ne sono stati più di due o
tre. Mentre la ricchezza, il costume o lo spirito riversavano
nella nostra penisola i nobili francesi del Cinque e del Seicento, gli
illuministi e i romantici inglesi del Grand Tour, i tedeschi
malati di archeologia o di agrumi, la povera Italia non aveva
che esuli o emigranti, per i quali il viaggio non manca di
essere una scoperta, ma all'origine è una necessità, e i luoghi
una faccenda seria da affrontare piuttosto che una piacevole
realtà.
Il caso del Petrarca e
di Vittorio Alfieri è rarissimo, agiati e diversamente
inquieti in due differenti stagioni, l'uno alla nascita
dell'Europa, l'altro al tramonto del vecchio mondo, l'uno in
cittadine di mercanti e frati, l'altro in capitali politiche e
sociali, l'uno condendo le sue lettere e la strada di citazioni
classiche e bibliche, l'altro incalzando la sua prosa
memorialistica quanto i cavalli in
Hyde
Park a
Londra
(dove, come ricorderà anche il Foscolo sul posto,
nell'ostinarsi a voler saltare una sbarra si spezzò un braccio).
Petrarca ci dà nella quarta e
quinta delle Familiari il
perfetto bollettino di un itinerario turistico e il programma di
un autentico viaggio culturale, compiuto "non per affari ma
per il desiderio di conoscere e per ardore giovanile. Così io
sono arrivato fino in Germania e sulle rive del Reno, studiando
con amore i costumi degli abitanti, dilettandomi alla vista di
un paese sconosciuto e facendo confronti con i nostri", per
concludere che, "sebbene in ogni luogo abbia visto cose
meravigliose, quanto più viaggio più provo ammirazione per la
mia terra natale".
Petrarca visitò
allora (primavera-estate del 1333)
Parigi "di giorno e di notte" per vedere e
controllare la fama di cui godeva la città; passò nelle
Fiandre,
coperte di filature e tessiture, ad
Aquisgrana
visitò la tomba di Carlo Magno, a
Colonia, "città
educata in un paese barbaro", odorò il profumo e
osservò le mani
candide delle donne, poi attraversò da solo a cavallo la "cupa
e orrenda" selva delle Ardenne, per giungere il 9
agosto a
Lione e di
lì, in barca, ad
Avignone seguendo il Rodano. Subito dopo Petrarca, i
prelati come Enea Silvio passano
piuttosto in Svizzera o
Germania per missioni e concili, i filologi come il filosofo e
umanista Aurispa riportano da
Costantinopoli o da
Magonza, non
vedute ma codici. L'artista viaggia a sua volta per commesse o
per lavoro:
Leonardo da Vinci finisce ad Amboise
in vista non dell'Arno ma della Loira, e
Benvenuto Cellini lo segue nel 1537 e poi nel 1540 presso lo
stesso re Francesco I, lasciando del primo viaggio un
racconto colorito nella sua autobiografia. Decisa la partenza
una sera per la mattina dopo, all'alba del 2 aprile 1537
Benvenuto lascia Roma con due garzoni, quattro cavalli e una
valigetta; via
Bologna-Padova
passa attraverso l'attuale cantone dei Grigioni in Svizzera,
supera il Bernina e l'Albula ancora coperti l'8 maggio di
neve, dice lui, "grandissima", e fra burroni e laghi in
tempesta raggiunge
Zurigo, città
già allora "pulita guanto un gioiello", e di lì, "sempre
cantando e ridendo",
Losanna,
poi Ginevra e, da Ginevra, Lione e la corte francese, sempre
ancora "cantando e ridendo".
A Parigi più di mezzo secolo
dopo sbarca anche il poeta napoletano Giovan Battista Marino,
reduce da un viaggio altrettanto o forse più avventuroso. La sua
partenza avviene da
Torino al
principio del 1615 su invito di Maria de' Medici. Un
poeta eccelso, turista di non rara disinvoltura per la sua
totale ignoranza del francese, cavalca una cavalla rozza mezzo
cieca in un occhio e orba del tutto nell'altro, ma galante di
passo. Pranza a Sant'Ambrogio, pernotta alla Novalesa
molto stanco. L'indomani, il cambio della cavalcatura butta il
quarantacinquenne viaggiatore dalla padella nella brace:
scala
il Moncenisio in groppa ad "una mulissima votata
all'ordine delle pinzocchere riformate" tant'era macerata
nella carne, di corpo diafano, e ad ogni passo "inginocchioni
baciava la terra". Si aggiunga una bufera di vento che
assiderava e "portava via di peso". La discesa, in
carretta, avviene di notte tra lo svolazzare di pipistrelli e
i rintocchi di barbagianni, capitomboli e un cozzo col naso nei
piedi di un impiccato appeso ad un albero in mezzo alla strada.
Cena nel piccolo villaggio (di Lanslebourg oggi al
confine tra Francia e Italia) con tre uova e dorme in un lurido
letto dentro una camera topesca. Attraversata la Savoia,
Chambéry accoglie il poeta con sorrisi e baci di dame, Lione
coi suoi traffici e la sua opulenza; a Roanne, lasciate
le cavalcature, il viaggio prosegue in barca sulla Loira e
conduce finalmente "a questi vastissimi abissi di Parigi".
Circa Parigi, che debbo
dire? - attacca Marino in una lettera successiva a
Lorenzo Scoto a Torino - Vi dirò ch'egli è un mondo,
perch'egli è mirabile per le sue stravaganze. Le stravaganze
fanno bello il mondo. La Francia è tutta piena di ripugnanze e
sproporzioni, le quali però formano una discordia concorde che
conserva costumi bizzarri, furie terribili,
mutazioni continue, disordini senza regola, estremi senza mezzo,
scompigli, garbugli, disconcerti e confusioni: cose insomma, che
la dovrebbero distruggere, per miracolo la tengono in piedi...".
Anche il clima, "conformandosi all'umore degli abitanti, non
ha giàmai fermezza né stabilità", e quanto alla lingua, "l'oro
s'appella 'argento', per colazione si dice 'digiunare', le città
son dette 'ville', il brodo 'un buglione', come se fossero della
schiatta di Goffredo...".
Carlo Goldoni arriverà
invece a
Parigi per mare e dal sud della Francia, senza fare del
viaggio un esercizio di descrizione della neve o dei ronzini, da
semplice "poeta di compagnia" alla Comédie-Italienne.
Imbarcatosi a
Genova su una
feluca dirètta ad
Antibes
-
primavera del 1762 - arriva a
Nizza e di lì prosegue
alla volta di
Marsiglia, città piacevole per posizione, ricchissima
per commerci, amabile per abitanti (Marsiglia piacerà anche a
Niccolò Tommaseo: brutte chiese ma belle donne: "pensate
alla Francia, e al porto di Marsiglia, e all'ultima luce che
rosseggiava tra la selva delle navi, e a me che, fermo,
guardando il mare, meditava Isaia, l'Italia, e voi": lettera
al Capponi del febbraio 1834). A Lione anche Goldoni è colpito
dalle manifatture, e il seguito fino alla capitale, per la
bellezza della strada e la fertilità delle regioni, lo mette di
buon umore e "lusinghiere speranze". (Tommaseo invece,
sulla medesima strada: "Dio mio, che natura e che verde
povero! che campagna scipita! Questo sole sì vispo sopra una
natura sì stupida, mi pare un bell'articolo di giornale sopra un
libro cattivo").
Parigi è tutta una meraviglia e un incanto
per gli occhi istintivi di Goldoni: l'immensità delle
Tuileries con la grazia delle terrazze, delle fontane e dei parterres
fioriti; o dei Giardini di Lussemburgo, ritrovo degli
ecclesiastici e dei filosofi; o degli
Champs Elysées
lunghi e diritti; o la
Senna intersecata di ponti e i boulevards alberati da cui si scorge la
campagna, percorsi instancabilmente da una folla sterminata e da
una fila di carrozze, con le sedie dei caffè disposte sui
marciapiedi e le orchestrine italiane che rallegrano gli
avventori, e pasticcerie, trattorie, ristoranti, marionette,
equilibristi, strilloni... "Parigi è bella, i dintorni
deliziosi, gli abitanti amabili. Si dice che per goderne occorre
gran spesa; non è vero; nessuno ha meno denaro di me, eppure ne
godo, mi diverto e sono contento". Un piccolo vademecum di
Goldoni: "Ci sono piaceri per tutte le condizioni, limitate i
desideri, misurate le forze e qui starete bene; o altrimenti
state male dappertutto".
Sempre a Parigi più di
vent'anni dopo, nella primavera del 1784, Goldoni viene visto da
Vittorio Alfieri di ritorno da Londra: un "buon
vecchietto", dice di lui, "ingolfato" proprio
nell'impresa di scrivere le sue Memorie. Tre anni dopo è
Goldoni ottantenne e malato a riceverlo a Parigi e a ricordare la
visita di quel giovane letterato coltissimo, eruditissimo:
Alfieri; un viaggiatore precoce, "vandalo perpetuamente
spronato e incalzato dalla noja e dall'ozio", com'egli
stesso si descrive nella Vita. Già prima dei vent'anni,
appena uscito dall'Accademia di Torino, se ne va per diverso
tempo: fa i bagni di mare in
Provenza,
critica Parigi, o "Lutopoli" come la chiama, gli edifici
sgraziati quanto le "pessimamente architettate facce"
delle donne, mentre ammira subito l'Inghilterra, "fortunato e
libero paese" dove s'innamora, per la prima volta, di una
baronessa. Nel 1769 è la volta dei paesi germanici: "Vienna
mi parve avere gran parte della picciolezza di Torino, senza
averne il buono". Era la
Vienna del
Metastasio, notoriamente disdegnato dal fiero astigiano per le
sue genuflessioni a Maria Teresa e per le soporifere
letture dei classici latini che teneva in casa; una Vienna
fredda insomma.
Le lettere di
Metastasio, là
trasferito da quarant'anni come poeta cesareo, descrivono una
metropoli quasi sempre sotto rigori invernali, coltri di neve e
lastre di ghiaccio: "Io so che per reggermi in piedi
(inverno 1731-32) ho dovuto far mettere le sòie di feltro
alle scarpe, perché in quel solo passo indispensabile che debbo
fare per montare in carrozza ho dato solennemente il cui per
terra, senza danno però della macchina"; in gita ad un
castello di caccia in Moravia, 23 ottobre di diciotto
anni dopo: "(Qui) con aria bellicosa vado esercitando la
pazienza de'fagiani e delle lepri: delle quali peraltro non
ìscemérà molto per colpa mia l'abbondanza... Da quattro giorni
in qua è comparso inaspettatamente l'inverno teutonico con tutto
il suo magnifico treno. Il fiume, nonché i laghi e gli stagni,
si sono in un tratto solidissimamente gelati: ed una
sottilissima auretta ci rende i suoi omaggi fin dentro alle
nostre più interne e custodite camere, nelle quali ci siamo
fortificati... (Ma) mi diletta quell'uniforme candore che per
così gran tratto di terreno io mi veggo d'intorno: mi piace quel
concorde silenzio di tutti i viventi". Da dietro ai vetri
appannati delle finestre, senza abbandonare le fide stufe e con
indosso un "mantello badiale" di sua invenzione (13
febbraio 1758), Metastasio contemplava la capitale di un impero
con i suoi teatri, i parchi e le parate, da cui confessa di non
sapersi più staccare. Appena apre un battente, il 12 aprile del
1782, per osservare il passaggio del papa Pio VI, si
busca un raffreddore e trapassa da questa vita.
L'Alfieri invece, via al
galoppo. A settembre di quello stesso 1769 corre sulla strada di
Dresda poi di
Berlino, inorridito dalla
Prussia militaresca e schiava; a novembre è ad
Amburgo, di lì in Danimarca
e Svezia, paese che gli va finalmente a genio, sia per gli
abitanti sia per il governo "equilibrato". Le foreste, i laghi
percorsi in slitta, l'immensità della natura, lo sciogliersi
delle nevi sotto il sole e il riapparire fulmineo del verde lo
inebriano. Anche in Finlandia "un certo vasto, e
indefinibile silenzio che regna nell'atmosfera" lo fa
sentire fuori dal globo, le pianure sterminate e la luce
intramontabile lo sottraggono al tempo. Lassù l'Alfieri parla a
tratti come
Leopardi e certamente come Foscolo
in successivo tuffo in Russia, a
San Pietroburgo, lo
riammette nella realtà e fa nuovamente scattare la reazione di
un viaggiatore ancora più attento alle società e ai regimi
politici che ai paesaggi e alle atmosfere. Gli piacciono solo le
barbe e i cavalli di quei "barbari mascherati da Europei";
i soldati e la polizia onnipresente lo fanno ripartire presto, "bestemmiando
fra me, e Russi, e Prussi", alla volta
dell'Inghilterra che
gli piace sempre più, anche a dispetto di un altro "fierissimo
intoppo amoroso" e il rischio, addirittura, di un matrimonio.
Per salvarsi l'Alfieri, e per quell'andare che era per lui "il
massimo dei piaceri, e lo stare il massimo degli sforzi",
lascia le isole britanniche e scende in Spagna lungo
l'itinerario: Parigi-Orléans-Tours-Poitiers-Bordeaux-Tolosa,
"attraversando senz'occhi la più bella parte della Francia",
poi
Barcellona e
Madrid. Anche questa Spagna
alfieriana solitaria e triste, percorsa quasi sempre a piedi "col
mio cavallo per mano, facendo insomma una vita da zingaro" e
leggendo il Don Chisciotte di
Cervantes nell'originale, ha una
tinteggiatura di luoghi e d'anima intensissima. Dopo il
passaggio a Lisbona,
Siviglia nei primi mesi del 1772
fa godere all'Alfieri una "faccia originalissima di
spagnolismo...un non so che di elastico, e di amoroso nell'aria",
e le donne "con gli occhi protervi" gli faranno tornare
alla memoria quel paese più di ogni altro.
Un gran viaggiatore dell'Europa
fu anche in quel periodo Giuseppe Baretti, critico
letterario, traduttore, poeta, scrittore, drammaturgo. Baretti
va a Londra a trentadue anni nel 1751 come insegnante d'italiano
e scolaro d'inglese (ma parlerà e scriverà ben presto in
inglese, francese e spagnolo con la stessa padronanza
dell'italiano, capace di tener testa nella conversazione al
dottor Samuel Johnson autore di celebri aforismi
al pari di Baretti come "Chi è stanco di Londra
è stanco della vita"); nove anni dopo, al séguito di un
giovane e "matto" signore inglese percorre la penisola
iberica: sino a
Plymouth
montando su un "cocchio" del servizio postale, poi per mare fino
al Portogallo, dove l'assetto degli alberghi e i servizi di
trasporto gareggiano in pulizia ed efficienza "e nelle
descrizioni barettiane" con quelli francesi del Marino d'un
secolo e mezzo innanzi.
Il paesaggio, ora piantato a viti ora
deserto e infuocato "e questa costante solitudine, col non
vedere altro che di quegli arbusti e di quei pini, con quel non
sentire altro che quelle meste canzoni de' mulattieri, ... con
quel sole che riverbera tanto ardente da quel perpetuo sabbione:
tutto questo messo assieme, dico, ne rende il viaggiare tanto
doloroso, che bisogna di certo avere una frega estrema di vedere
il mondo per sostenere tanto disagio senza smarrirci"
(Lettere ai familiari, 18-9-1760). Anche il Baretti preferisce
spesso le gambe al calesse. Smonta e procede da solo sotto il
sole ardente, osservando la scarsa flora lungo le scorciatoie,
finché all'apparire da lontano di qualche città o villaggio si
arresta all'ombra di un albero e aspetta il sopraggiungere della
vettura per passare i gabellieri e far l'ingresso nelle mura. Va
allora squadrando col suo occhialino le donne che si affacciano
al davanzale, attratte dal raro rumore degli zoccoli e delle
ruote.
Le lettere "odeporiche", cioè i
"Racconti di Viaggio" nel Settecento sono addirittura un
genere letterario, coltivate dallo scrittore e saggista
veneziano Francesco Aigarotti in Russia come dal
prestitero e storico Carlo Denina e da Giovanni
Ludovico Bianconi in Germania o dal gesuita mantovano
Saverio Bettinelli in Inghilterra solo per citarne
alcuni; e senza indugiare negli epistolari di viaggiatori come
lo scrittore e letterato Alessandro Verri (che fu a
Parigi nel 1766 con Cesare Beccaria, poi a Londra).
Chi va più lontano, in opposte
direzioni, sono due emuli drammaturghi e affini avventurieri:
l'abate e poeta Giovan Batista Casti da Acquapendente
e Lorenzo da Ponte, da Cenesa, frazione di
Vittorio Veneto, librettista di Mozart per il Don Giovanni,
Le Nozze di Figaro e Così Fan Tutte. Alla stesura
del libretto del Don Giovanni collaborò anche Giacomo
Casanova, grande amatore e altro grande viaggiatore.
Giovan Batista Casti fu trascinato a Vienna da
Giuseppe II nel 1769, di lì visitò l'Europa con un giovane
signore, poi si trasferì a San Pietroburgo. Ma fece il suo
viaggio più ardito, nel 1788, in Oriente, narrandolo in una
relazione pubblicata nel 1802. Il 30 giugno di quell'anno il
sessantaduenne Casti partì da Venezia con la comitiva dell'ambasciatore
Foscarini e approdò a Costantinopoli il 19 ottobre.
Gli bastarono venti giorni di permanenza da turista sul
Bosforo per tracciare un quadro assai lucido, sobrio e anche
pittoresco, di quell'impero su cui invece cavalcava la
fantasia degli Europei del tempo. I dervisci (simili agli
ordini mendicanti cristiani come i francescani per i musulmani) e
i santoni incuriosiscono ma non ingannano il navigato
abate viterbese; la società ottomana è resa "seria,
taciturna, monotona" dalla rigida separazione dei due sessi,
per cui "il soggiorno fra i Turchi non può essere piacevole a
quei che son nati e cresciuti fra usi e costumi totalmente
diversi. Ordinariamente accade veder gli uomini seduti
gravemente in circolo a gambe incrociate colla pipa in bocca,
sorbendo di tempo in tempo del caffè senza zucchero, passar gran
parte della giornata in ozio spensierato e silenzioso... Le
donne turche sono ordinariamente di carnagione bianca, di
fisionomia dolce e di occhio espressivo, (ma) poco posso
diffondermi su questo articolo che è meno suscettibile
dell'esame del forestiero". Al confronto di questi viaggi
agiati quelli avventurosi di Lorenzo da Ponte furono
peregrinazioni accidentate, che attraversano tutte le sue
Memorie.
Già esperto di vagabondaggi, il librettista di Salieri
e di Mozart nel 1790 dovette lasciare Vienna e tornare a
Trieste. Ma già il 12 agosto di
due anni dopo, verso le due pomeridiane, all'età di quarantadue
anni e cinque mesi, appena avuta in sposa dai genitori una "bella,
fresca e amorosa compagna", da Ponte riparte su un calessino
alla volta di
Lubiana, dove
consuma la prima notte sotto gli auspici mitologici di Amore e
di Imene (la dea greca tutelare del matrimonio). Persa per
strada una borsa con la dote della moglie, ricevuti a
Praga
ancora da Giacomo Casanova tre consigli in luogo dei quattrini
che quel "vegliardo straordinario" gli doveva, le poche
buone notizie della Francia insorta (la Rivoluzione Francese) lo
dirottano verso Londra con in tasca sei luigi, un
orologio e un anellino poi venduto per sei ghinee. Alti e bassi,
commerci e cambiali, musiche e incontri e scontri ributtano
Lorenzo da Ponte fra Inghilterra e Italia per quindici
anni; finché nel 1805, mandati prima di lui i suoi familiari,
s'imbarca per l'America. Compie la traversata
dell'Atlantico da Londra a Filadelfia su una baleniera
comprensibilmente "disastrosa"; per tre mesi non bevve
che brodaglia e non mangiò che porco salato, dormendo su tavole
di legno.
Altri rovesci non tolgono però al da Ponte il piacere
dei luoghi e della società statunitensi, della campagna e delle
cittadine della Pennsylvania fra colline e alberi
multiformi irrorati dai ruscelli, delle valli ampie e profonde
con le capanne dei pastori e dei carbonai, della selvaggina
copiosa e delle osterie comode, in "una maestosa e solenne
solitudine"; e poi vicini colti e dabbene, conversazioni,
danze e conviti, donne "quasi tutte amabili, sagge e per la
maggior parte assai belle". Un bel vivere insomma, a
dispetto dei tanti fastidi, e quasi un bel morire dopo trentatre
anni, ben addentro ormai in un secolo che dì tipi come questi ne
vede sempre meno. Ma sarebbe stato bello fare il viaggio a
Londra con Ugo Foscolo o con Giuseppe Pecchio
(che di Foscolo scrisse la biografia e che morì a
Brighton), a Parigi con
Alessandro Manzoni o con Niccolò Tommaseo, con
Foscolo così imprevedibile, Pecchio così socievole, Manzoni così
cauto, Tommaseo cosi notturno. Prima che il viaggio diventasse
un'altra cosa, prima che i reportages inaugurati da
Edmondo
De Amicis gli togliessero sapore. Da Ponte, nella città di
Spira in Germania, rischiò di perdere per strada anche la
moglie, altro che i bagagli; e Casti rimase fermo per due mesi,
nell'Ellesponto, vicino ai resti di Troia
aspettando i venti favorevoli per attraversare i Dardanelli
e raggiungere Costantinopoli che brillava sull'altra sponda come
un miraggio.
Copyright © Informagiovani-italia.com. La riproduzione totale o parziale, in qualunque forma, su qualsiasi supporto e con qualunque mezzo è proibita senza autorizzazione scritta.
Se questa pagina ti è piaciuta e ti è stata utile, per favore prenota con noi un hotel o un ostello ai link che trovi in questa pagina, è un servizio di Booking, non spenderai un euro in più, ma ci aiuterai ad andare avanti, per quanto possiamo e a scrivere e offrire la prossima guida gratuitamente. Oppure se vuoi puoi offrirci un caffè (ma non ci offendiamo se ci offri una pizza :) ) con una piccola donazione:.:
Paypal
☕ |