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Tra
il 1728 e il 1729 il filosofo francese Charles Louis de Secondat,
barone di La Brède e di Montesquieu, intraprese un fondamentale
viaggio in Italia che ebbe una notevole influenza sul suo
pensiero illuminista. In questo articolo ripercorriamo le tappe
di quel viaggio, soffermandoci in particolare sui soggiorni a
Venezia, Roma, Napoli e Firenze, città che colpirono la sua
immaginazione e gli fornirono numerosi spunti di riflessione.
Guido Piovene (1971)
Quando ci si lagnava con lui perché
guidava la brigala per svariate strade e paesi ( ) rispondeva che ( ) per
conto suo non andava se non appunto là dove si, trovava; che per lui era
impossibile sbagliare o allungare la strada, non avendo egli altro progetto
se non girare per luoghi sconosciuti.... Parole che
Montagnie scrive nel suo Viaggio in Italia, forse il più bello tra i
diari di viaggio pubblicati sotto questo titolo. Meraviglioso viaggiatore,
ancora ariostesco, Montaigne ha il gusto del viaggiare (cioè del vedere e
conoscere) per se stesso. Vi provava un tale piacere "che l'approssimarsi
del luogo dove doveva riposare gli era odioso". |
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Un secolo e mezzo dopo,
il barone di Montesquieu è viaggiatore d'altra razza. Col titolo
Viaggio in Italia l'editore Laterza ne pubblica i diari riguardanti il
nostro paese; ma il curatore, Massimo Colesanti elimina per la prima volta
molti orrori del manoscritto, specialmente nei nomi, rimasti anche
nell'ultima edizione francese. Il viaggio (1728-29) precede di poco quello
di Charles de Brosses, personaggio minore. Goethe arriverà a
fine secolo. Quello di Montesquieu (e di Goethe) è un viaggio egocentrico.
Completare la propria formazione intellettuale, convalidare è sviluppare le
proprie idee al confronto dei fatti, costruire la propria opera, insomma non
il viaggio ma il ritorno a casa, sono le ragioni del muoversi,
indipendentemente dal piacere che si può trarne.
Gli autori di «Viaggi in Italia» finora
nominati avevano un punto in comune. Erano osservatori esatti di politica,
di costumi, di tecniche industriali e agricole; la buona educazione antica
li teneva lontani, anche Goethe, da ogni genere di confusione tra
l'immaginario e il vero. Per così dire, erano tutti anche giornalisti
onesti. Nella serie dei grandi autori di «Viaggi in Italia», il primo che
traligna è proprio, nell'Ottocento, Stendhal, il più estroso ed
amabile. La sua Italia è un romanzo, un pretesto per dare vita a una sua
personale mitologia d'artista. La cura principale dì Montesquieu,
ragionatore di politica, era definire, distinguere, giudicare città e
governi; così Venezia e i veneziani, Torino e i torinesi sotto i Savoia, Ro-
laguna che si asciuga ma governata dal Papa. Ogni soggiorno gli forniva
illustrazioni nuove ai principi teorici che andava elaborando. Differisce
anche in questo dal suo grande predecessore, Montaigne, che cerca
soprattutto, con un gusto già d'antropologo, comportamenti, opere, discorsi,
invenzioni, tecniche, tradizioni, usanze, e tutto registrato con curiosità
equanime come facente parte dello spettacolo del mondo.
A Montesquieu l'Italia piace, benché poco
vi trovi che sia politicamente stimabile. Giovanni Macchia, un
critico che sa cogliere i trasalimenti d'umore che la pagina cela, nella
bella prefazione al libro, penetra molto bene questo contrasto. Non si
tratta soltanto di tolleranza liberale. Contraddittorio è Montesquieu,
diviso tra l'«aspirazione a una dignità incorruttibile», con un «sentimento
profondo dei gravi problemi della giustizia e della storia», e una
sensualità già libertina per cui, d'una civiltà, lo attrae la forza erotica
che sprigiona, ed a
Roma lo incanta tutto, musiche, quadri, statue, amori
licenziosi, perfino i cantanti castrati che hanno sembianze d'angeli. Un
paese, nel complesso, straccione, ignorante, arretrato, con una nobiltà ed
un clero tirchi e vanesi, ha dalla sua la bellezza, l'arie di vivere ed una
grazia morbida ai limiti dell'oscenità. L'ambiguità di Montesquieu rimane
però sotto, come un tremolio d'acque sotto le sue parole, e non modifica i
giudizi, non altezzosi ma severi. A parte le inclinazioni segrete,
Montesquieu resta un moralista. L'Italia che descrive è un paese senza virtù
(senza valori, si direbbe nel linguaggio d'oggi), con molti pregi ma non
quelli più nobili, cioè intellettuali e politici; ha i sensi «intelligenti»,
ma il cervello opaco.
A
Venezia (dove
già si parla dell'umido e del salso che rovinano le pitture; per di più in
un momento, dal quale si riprenderà, di decadenza anche come città
turistica) i piaceri degli occhi non compensano il vuoto del cuore e dello
spirito, anzi cominciano a spiacergli: «Non posso amare una città dove
nulla ci imponga di essere gentili e virtuosi». «Non si sono mai
visti muti devoti e così poca devozione come in Italia», ma a Venezia
l'abilità di mettere insieme in un sacco messe e prostitute è suprema. Tutto
vi è permesso, ed è male; «Qualche costrizione bisogna averla; l'uomo è
come una molla; più è tesa, meglio va».
Milano e l'unica città che pare a
Montesquieu (oggi si direbbe) europea. C'è una vera aristocrazia, ricca, con
donne belle e colte, perfino dotte. «Signorilità dei salotti milanesi: vi
danno cioccolato e rinfreschi, e non si pagano le carte».
Torino è ben
costruita, ma piccola, «il più bel villaggio del mondo». È avara, e
non si mangia; un pranzo a uno straniero è un avvenimento; una corte
meschina la riempie di spie. «Non vorrei essere per nulla suddito di
questi piccoli principi! Sanno tutto quello che fate; vi hanno sempre sotto
gli occhi; conoscono esattamente le vostre rendite; trovano il modo di
jarvelc spendere...». Più avara ancora è
Genova («Ci sono dei privati
ricchi di parecchi milioni, perché non spendono; e in questi bei palazzi
spesso c'è una sola serva, che fila »), con signorotte pretenziose che
dicono: la duchessa di Modena, (una Borbone-Orléans a cui assomigliano come
i pipistrelli alle aquile) non sa il cerimoniale. Firenze: «..Nessun
caminetto, e, nel cuore dell'inverno, niente riscaldamento. Dicono che il
fuoco è malsano ».
L'estrema parsimonia dei fiorentini è però più
accettabile dell'avarizia genovese. Non è avarizia mercantile capitalistica;
ha invece un certo stile, nascendo dalla sobrietà, da una disciplina antica.
Poi Firenze «ha un governo abbastanza mite» e, col granduca Gian
Gastone, un buon principe, intelligente, molto pigro, incurante dei suoi
ministri e sbevazzone. «Nessuno conosce o avverte la presenza del
principe e della corte. Questo piccolo paese ha, da questo lato, l'aspetto
di un grande paese». A Roma Montesquieu trova lo stesso pregio, che
attira, in mancanza di meglio, il teorico della separazione dei poteri.
Tanto più in un paese miserabile, senza né commercio né industria, nel quale
i servitori chiedono l'elemosina appena si entra nelle case. Il Papa
Benedetto XIIl Orsini, frate triste e zelante e prossimo alla morte,
odiato dai romani e disprezzato anche per la sua devozione che li fa morire
di fame, viene chiamato «un pazzo che fa l'imbecille». Dice
Montesquieu «Non so, se credere infallibile il Papa sia obbligatorio; ma
sono certo che è impossibile ch'egli lo creda di sé stesso». L'Italia
essendo piena di conventi di monaci, ed essendosi rilassata la loro
disciplina, si riversano fuori, e riempiono le strade, a Roma e altrove, le
carrozze, le imbarcazioni: girano in perpetuità. Ma Roma, lo abbiamo già
visto, affascina Montesquieu. Resta la città eterna, «metropoli di gran
parte dell'universo», « un tesoro immenso messo insieme », patria
di tutti, la più bella città del mondo.
Nessuna ha tanto numerose e
splendide opere d'arte. Di fronte all'arte il gusto di Montesquieu ha la
parzialità del secolo; e del resto mi chiedo se il liberalismo critico, per
cui ci è dato di apprezzare egualmente tutti gli stili e tutte le epoche,
non sia il frutto di una breve stagione di cui già vediamo la fine. Il
gotico, categoria estesa anche al Duomo di Pisa, per Montesquieu è di
cattivo gusto, salvo il gotico fiorentino. Gli piace naturalmente l'antico,
il
Rinascimento anche tardo (San Fedele a Milano), scendendo
fino al Barocco non estremista. Anche nella natura confonde il bello con
l'ameno-fecondo, due concetti che una piccola minoranza ha dissociato e solo
in tempi più vicini a noi; i monti del Tirolo, sterili e sempre nevosi, gli
sembrano brutti. Il più alto vertice dell'arte è per lui Raffaello, «pittore
di una eccellenza suprema perché è il solo che non sia manieralo». «Non
e pittura, è la natura stessa. Non sono colori artificiali, ricavati dalla
tavolozza; sono proprio i colori della natura ». Non tanto
quest'ammirazione, ma le ragioni che ne dà, dimostra come ogni epoca e ogni
cultura «vede» diversamente la natura e il vero prima ancora
d'interpretarli. Lasciamo stare Napoli con San Gennaro e i
dottori che «mostrano i luoghi dove Cicerone diceva messa». La
conclusione implicita è sempre eguale: molta bellezza e poca testa,
intelligenza crepitante, ma ignoranza e nessun rigore.
La ricchezza italiana non ha utilità
pubblica. «C'è molta differenza fra la ricchezza degli italiani
accumulata con l'avarizia di cinque o sei generazioni, e la ricchezza dei
grandi paesi, che si fa in un giorno, e che viene consumata; ( ); lo stesso
spirito che porta ad accumulare, porta a conservare». «Le repubbliche
italiane non sono che miserabili aristocrazie, che si reggono solo per la
pietà che si ha per loro, e in cui i nobili, senza alcun senso di grandezza
e di gloria, ambiscono soltanto a conservare il loro ozio e i loro privilegi».
«Non c'è principessa del sangue più
orgogliosa di una principessa romana; dipende dal fatto che le nobildonne
romane non hanno mai viaggiato ». Altri «Viaggi in Italia» di
stranieri sono più belli, ma questo ha una curiosa caratteristica. L'Italia,
e specialmente Roma, appare a Montesquieu un paese incantevole, ma scarso
d'orgoglio intellettuale, senza conversazioni utili; un paese, cioè, nel
quale tra bei monumenti, discorsi spiritosi, condiscendenze erotiche e
pigrizia mentale, si potrebbe insabbiarsi nel modo più civile. I tanti
italiani che dicono: «Sì, l'Italia è quello che è, però rimane un bel
paese: e dotato di poche qualità superiori, ma in compenso è molto umano»
non la vedono diversamente. È un attaccamento un po' imbarazzato di cui
questo straniero ci ha dato fin da allora la definizione.
Guido Piovene 1971
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