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"La giovinezza senza i giovani" di ILVIO
DIAMANTI Analisi sociologica impietosa ma lucida della
condizione giovanile contemporanea, stretta tra aspettative tradite e rinuncia
al cambiamento.
da "La Repubblica" del 3 luglio 2005
I concerti che hanno riproposto l'esperienza del
mitico Live Aid, vent'anni dopo, hanno suscitato grande
mobilitazione, grande emozione. Ma a noi (a me) hanno fatto
tristezza. Come quelle feste a tema, in cui si rivivono i
"favolosi anni passati". E, per animare la manifestazione,
si invitano gli artisti di allora. Con la differenza
(rispetto alle rievocazioni stile "Anima mia", la
trasmissione televisiva di successo condotta da Fabio Fazio), che questi concerti non guardano
al passato, ma al presente.
Non si propongono di curare il vizio della nostalgia, ma i
mali del mondo attuale. E i protagonisti dell'evento non si
propongono da testimoni del tempo andato... ma da interpreti
del "nostro" tempo, costruttori del futuro.
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Perché il messaggio inespresso e implicito, in una
manifestazione come quella di ieri, è che i "giovani"
protagonisti della nostra epoca non sono cambiati. Vent'anni
dopo, sono gli stessi. Le stesse facce, le stesse voci.
Vent'anni dopo. McCartney, i Pink Floyd, Elton John, gli
Who (che, peraltro, si esibivano anche 30 o quarant'anni
fa), poi gli U2, Sting. E, in Italia, De Gregori, Zucchero,
Baglioni, Renato Zero. Hanno quarant'anni, talora cinquanta. Alcuni di più.
Vent'anni dopo: il centro della scena culturale e musicale
non sembra essersi spostato di molto. I giovani e gli
adulti: ad ascoltare gli stessi musicisti. Che hanno l'età
dei genitori. Quasi che le generazioni più giovani non
fossero più in grado di imporre tendenze, gusti,
protagonisti. Espropriate, per questo, del diritto a
trasgredire e a innovare. Che è specifico della giovinezza.
D'altronde, la gioventù, oggi, sembra essersi
allungata fino a quaranta-cinquant'anni. Visto che molti
cinquantenni, per non dire dei quarantenni, vestono come
i figli, magari come i nipoti (anche se con difficoltà,
per via dei pantaloni a vita bassa). Ascoltano la loro
musica. Anzi, la fanno e la interpretano. E la impongono
- o si illudono di imporla - a tutti. Come "consumo
giovanile". In altri termini: si tende ad affermare l'eterna giovinezza
al prezzo di abolire i giovani.
In Italia, questo processo
appare particolarmente chiaro. Dal punto di vista
demografico, vista la caduta del tasso di natalità degli
ultimi vent'anni. Tanto che la lieve ripresa registrata
negli ultimi anni (grazie al contributo determinante degli
immigrati) ha fatto gridare al miracolo. Ma ha suscitato
anche un po' di inquietudine. Tanti bimbi, in un condominio abitato da anziani,
potrebbero disturbare, fra qualche anno. Tuttavia, i
giovani e i giovanissimi, nel nostro paese, vivono una vita
sospesa, fra dipendenza, protezione e incertezza. L'abbiamo
scritto tante volte: studiano fino a oltre venticinque
anni, poi lavorano, passando da un co.co.co a un contratto
di formazione a progetto, a uno stage in azienda o in
qualche ente… Magari all'estero. Flessibili per necessità
e, progressivamente, per abitudine e per esperienza. Si
sposano, o vanno a convivere, tardi. Dopo i trent'anni.
Ancor più tardi hanno il primo (spesso unico) figlio. Per
questo, comprensibilmente, restano legati alla famiglia e
ai genitori molto a lungo. Risiedono con loro, nella grande maggioranza, fino
oltre trent'anni. Il che non significa che siano davvero
stanziali; che coabitino con i genitori in modo permanente.
No. Vanno e vengono. Fra uno stage e un corso
universitario. Un viaggio di studio e un'esperienza di
lavoro lontano dalla città. Poi tornano. E ripartono. La
famiglia di provenienza, fa da porto, salvagente.
Garantisce loro il soccorso nei momenti di necessità.
Permette loro questa vita spericolata. E loro, i giovani,
accettano di buon grado questa "dipendenza" dai genitori.
Anche quando non sono più giovani. Anche quando si sposano
e hanno figli (come farebbero, senza i nonni?). Un po' non
possono fare altrimenti, i giovani. Un po' fa loro comodo.
E li tollerano, li guardano con affetto, questi anziani,
che non ne vogliono sapere di invecchiare. Ma soprattutto
pretendono di essere giovani come loro. Accanto a loro.
Fratelli maggiori, non genitori. In grado, ancora, di
battersi per le cause più giuste, marciare con loro contro
la guerra. E di promuovere megaconcerti per aiutare i
poveri del terzo mondo. Oggi come venti trent'anni fa.
Il problema è che, in questo modo, i giovani veri, quelli
che hanno 20-30 anni (e anche meno), restano segregati,
quasi sospesi. E non riescono a scalare le gerarchie
professionali, sociali, politiche, senza il nostro aiuto.
Senza di noi.
D'altronde, basta frequentare i piani alti - e medi - dei
palazzi della politica, delle professioni, dell'impresa,
della finanza, dei media, dell'Università, per incontrare
giovani dai cognomi noti, spesso famosi. "Figli e nipoti
di". Magari - non si discute - all'altezza dei genitori e
dei nonni. Ma che, senza di loro, difficilmente avrebbero
avuto l'opportunità di accostare - se non di raggiungere -
le posizioni che occupano.
Non sorprende, allora, che solo due persone su dieci, in
Italia, oggi ritengano che i giovani avranno, in futuro,
una posizione economica e sociale e migliore dei loro
genitori. Questo atteggiamento riflette, certo, la
difficoltà di superare il livello di benessere raggiunto
dalla società, dal dopoguerra ad oggi. Al tempo stesso,
risente del senso di incertezza che pervade la realtà
globale e locale. Sconta la crescente inquietudine per il
futuro. Ma riassume, indubbiamente, anche la chiusura
intergenerazionale, che rende immobile la nostra società.
Giangiacomo Nardozzi, sul Sole 24ore, ha parlato, a questo
proposito di una "gioventù sprecata": a causa dei genitori
che assecondano la "pigrizia" dei figli, inducendoli a
restare a lungo con loro; a causa delle politiche localiste
che ispirano scuola e Università, e inducono,
ulteriormente, i giovani a non allontanarsi troppo di casa.
Filippo Andreatta e Salvatore Vassallo parlano, anch'essi,
di una "generazione sprecata", perché le rendite dei
genitori condannano i giovani "a invecchiare prima di
diventare adulti". Anche perché i loro genitori - gli
adulti - rifiutano di invecchiare.
Così i giovani (veri) crescono in un recinto invisibile.
Dove hanno ampia possibilità di movimento, ma restano
attaccati, con fili sottili e resistenti, ad alcuni ganci
solidissimi. La casa, la famiglia, i genitori, il lavoro
(precario) avviato sotto il loro sguardo vigile.
Le ricerche sull'argomento, peraltro, suggeriscono che
questa situazione non susciti in loro senso di angoscia.
Tutt'altro. Proprio loro, i giovani, soprattutto quelli con
meno di 25 anni, guardano con maggiore ottimismo al futuro
personale, ma anche alle prospettive economiche del paese;
sono più fiduciosi negli altri, più soddisfatti della vita.
Non hanno nostalgia del passato. Il che, in fondo, è
prevedibile. Visto che la nostalgia è un vizio coltivato da
chi ha una biografia più lunga. Visto che il futuro
intristisce di meno chi ce l'ha davanti, invece che dietro
alle spalle. E per gli adulti, per gli anziani, per quanto
si illudano di non essere tali, il passato pesa molto più
del futuro.
Tuttavia, colpisce questa condizione di felice insicurezza,
in cui versano i figli. Controllati da genitori occhiuti,
che ne proteggono il percorso. E in questo modo proteggono
anche se stessi. Colpisce, questa generazione a
responsabilità limitata e in libertà vigilata. Dall'identità
incerta. Che non può dirsi giovane perché gli adulti non
accettano (e non si accorgono) di invecchiare. Che non può
dirsi adulta, perché non le è permesso di crescere e
maturare.
Questa società sterile, che pretende di cambiare e di
innovare. Per via tecnologica, ma non biologica.
D'altronde, come è possibile cambiare, innovare, se i padri
"non" invecchiano, le mamme "non" imbiancano e i figli
"non" crescono?
da "La Repubblica" del 3 luglio 2005 articolo di Ilvo
Diamanti
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