VENEZIA A CARNEVALE
Un serpentone di folla in perenne movimento sul tortuoso itinerario
che dalla stazione e da Piazzale Roma porta a Rialto
e a piazza San Marco, epicentro del Carnevale di Venezia.
Folla vociante, comitive straniere e comitive scolastiche, gruppi
chiassosi con maschere e cappelli buffi, inevitabili ingorghi
nelle strozzature del percorso. L'
allegria sfuma nella fatica
di farsi largo. Qua e là uomini e donne in abiti del Settecento
osservano con ostentata alterigia. La loro inquietante compostezza
stride con l'
andamento sgangherato della folla. |
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Ma
sono loro, quelli imparruccati col mantello nero come il tricorno, col
lungo naso adunco da medici della peste e col bastone, i padroni
di casa, i custodi del Carnevale veneziano. Indossano abiti
settecenteschi perché è nella seconda metà di quel secolo che
il loro Carnevale divenne celebre in tutta Europa. Hanno quell'
aria
un po'
tetra da fantasmi perché in quello stesso periodo iniziava
l'
inesorabile declino della Serenissima.
Repubblica di Venezia addio. Prima arrivarono gli austriaci,
poi i francesi e infine di nuovo gli austriaci. E Venezia non
fu altro che una delle tante città dell'
Impero Austroungarico,
prigioniera del rimpianto degli antichi traffici con l'Oriente,
del libertinaggio, delle mirabolanti imprese di Casanova, dei
tempi in cui la tipica maschera che copre metà del volto non
si usava solo a Carnevale ma ogni volta che si voleva non essere
riconosciuti, qualunque fosse il periodo dell'
anno. Maschera
anche come strumento di uguaglianza sociale. Era tale l'
abitudine
di usarla che in certi periodi nessuno più usciva a volto scoperto.
C'è chi sogna di andarci al Carnevale di Venezia. Per chi ci
si ritrova, invece, spesso è un incubo. Intrappolati in calche
mostruose non si sogna altro che la fuga. Fuga facile però,
perché basta imboccare un vicoletto secondario e perdersi per callette, ponticelli e altre callette per sentire sfumare i
rumori e ritrovarsi in totale solitudine in quella che Predang
Matvejevic, scrittore bosniaco, ha chiamato "
L'altra Venezia"
(Garzanti), dove - scrive - "
l'umidità penetra tutto: il muro,
la pietra, il legno, il ferro e anche l'
anima. Osservo una trave
fradicia, gonfia, zuppa d'
acqua: la stessa acqua impedisce ad
altra acqua di entrarci dentro".
È
la Venezia dove della sarabanda carnevalesca non arriva neanche
un'
eco lontana, pure se è lì a un passo. E che fa sembrare la
Venezia del Carnevale un non luogo che potrebbe essere riprodotto
ovunque. È
la Venezia, questa, dove il veneziano Alberto Toso Fei ("
Leggende veneziane e storie di fantasmi", Elzeviro) disegna
itinerari alternativi non solo al Carnevale ma anche ad ogni
normale guida turistica. Quattro percorsi attraverso luoghi
che evocano storie e leggende talvolta raccapriccianti ma che
perfettamente s'
intonano col fradicio, suggestivamente lugubre
contesto che non potrebbe stimolare fantasie in rosa.
"
Venezia sta sull'
acqua e piano piano muore", cantava tempo
fa Francesco De Gregori. Certo è nell'
"altra Venezia" che gli
è venuta l'ispirazione, osservando le case cadenti e i pali
piantati nel fondo melmoso, zuppi d'
acqua grigioverde e stantia
dalla quale da un momento all'
altro potrebbe spuntare una mano
tesa in una vana ricerca di aiuto, oppure Fosco Loredan che
stringe tra le mani la testa mozzata della moglie, come in una
delle fosche leggende raccontate da Toso Fei.
Oggi una scritta in vernice nera sul parapetto del Ponte dei
Pugni invita ad osservare le pietre e i mattoni tutto attorno
e conclude: "Venezia ha solo pochi ancora".
E in questa chiave, allora, gli imparruccati con abiti settecenteschi
che sorvegliano il Carnevale e lo sovrintendono appaiono come
l'
avanguardia dei fantasmi che saranno gli unici abitanti di
Venezia.
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