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La
Cappella degli Scrovegni ospita uno dei grandi capolavori
del Rinascimento italiano: un impressionante ciclo di affreschi
di Giotto. Dante, Leonardo da Vinci e Vasari onorarono Giotto
come l'artista che pose fine al Medioevo con questi dipinti del
1303-05, la cui rappresentazione umanistica delle figure
bibliche era particolarmente adatta alla cappella che Enrico
Scrovegni commissionò in memoria di suo padre (al quale fu
negata una sepoltura cristiana in quanto usuraio).
Avvicinandosi da fuori a questa semplice chiesetta è
difficile credere che al suo interno si trovi uno dei più
grandi capolavori dell'uomo...
La Cappella degli Scrovegni a Padova (spesso chiamata
"Arena" per la sua vicinanza alle rovine di una precedente
arena romana) è un capolavoro assoluto dell'arte, uno
dei capolavori di Giotto di Bondone,
pittore immortale,
che la affrescò interamente su 900 metri quadri di superficie.
La cappella fu completata nel 1305, in appena in 855
giorni, per la famiglia del ricco banchiere
Enrico Scrovegni, sul cui stemma araldico
campeggia una scrofa, da cui il nome. Gli affreschi che adornano le pareti
e il soffitto della cappella rappresentano un complesso
racconto emotivo sulla vita di Maria e di Gesù, tratte
dal vangelo apocrifo di San Giovanni.
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La cappella dei primati
La cappella
vanta nella sua decorazione molti particolari rivoluzionari:
la presenza di figure poste in movimento, e di schiena,
per generare un'idea di casualità e di vita comune;
forse il primo
bacio rappresentato nella pittura post-classica (quello
che si scambiano i genitori di Maria, Gioacchino e Anna); le finzioni
architettoniche per creare prospettive e dare un senso di profondità;
la prima rappresentazione della cometa, che poi si sarebbe chiamata
di Halley, di cui Giotto fu testimone, come simbolo natalizio;
il primo trompe-l'œil della storia, dove Giotto dipinse in grisaglia
le Allegorie del Vizio; la prima lacrima nell'arte (una donna
affranta dalla morte di Cristo); per la prima volta un privato
cittadino italiano, Scrovegni appunto, patrocinava un
grande artista.
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La storia
Alla
fine del 1200 Enrico Scrovegni, acquistò un’arena romana
quasi decadente e su di essa fece costruire un palazzo dedicato
alla sua famiglia e la Capella, realizzata con un intento ben
preciso: allontanare da sé l'accusa di eresia ed espiare i peccati
che Rinaldo (o Reginaldo), suo padre, un usuraio, aveva
commesso, arrivando ad essere citato persino nell'Inferno di
Dante pochi anni dopo (tra il 1308 e il 1320).
Come nei precedenti lavori di Giotto, si definiva un netto e
deciso cambiamento rispetto alla tradizione bizantina; a questo
si accompagnava un'altissima qualità pittorica, segno anche
della raggiunta maturità dell'artista. Già in corso d'opera,
la Cappella stupì i contemporanei per la sua bellezza, al punto
che il pontefice di allora, Benedetto XI garantì l'indulgenza
ai fedeli che l'avessero visitata. Probabilmente, anche il progetto
architettonico della cappella fu dello stesso Giotto. Il 25
marzo del 1305 la cappella venne solennemente consacrata, dedicandola
alla annunciazione. In quella occasione si tenne una sacra rappresentazione
dell'annuncio alla Madonna, episodio che Giotto privilegiava
affrescandolo sull'arco trionfale appena sotto il Cristo in
trono.
La
conferma della volontà da parte di Enrico Scrovegni di riscattare
l'anima del padre usurario (e forse la sua, visto che fu accusato
della stessa infamia), si palesa nella scena della dedica della
Cappella alla Vergine. In essa è rappresentato lo Scrovegni,
vestito di viola, il colore della penitenza, che consegna alla
Madonna un modellino della Cappella (vedi foto a lato). Il gesto
aveva appunto il significato di restituire, anche simbolicamente,
quanto era stato lucrato mediante l'usura (condizione posta
dalla Chiesa per rimettere il peccato di usura). Altre conferme
di questa volontà di riscatto, si possono trovare nella presenza
di moltissimi usurai nelle tavole con le scene dell'inferno e del Giuda impiccato, che fronteggia
la tavola con il Giuda che riceve la borsa
dei trenta denari. Essendo il committente, lo Scrovegni non
manca di farsi collocare nel settore destinato ai beati, sotto
l'immagine protettrice della Croce. Fin dall'inizio tuttavia
Enrico dovette avere anche un'altra intenzione, cioè quella
di adibire il nuovo edificio a cappella funeraria, come sembra
si possa desumere dalla copertura a botte simulante un cielo
stellato, simile ai monumenti sepolcrali paleocristiani di
Ravenna.
Tuttavia, la dimensione pubblica era preponderante rispetto
a quella privata e finì per prevalere.
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L'affresco
La tecnica dell'affresco utilizzata nella cappella aveva
come presupposto l'assoluta necessità della rapidità di esecuzione.
In pratica bisognava realizzare l'affresco prima che si asciugasse.
I collaboratori del pittore stendevano l'intonaco bagnato e
l'artista doveva disegnare le figure prima che l'intonaco diventasse
secco. Ecco perché si chiama affresco, perché il colore doveva
entrare nell'intonaco, impregnarlo, quando era ancora fresco.
Era una lotta contro il tempo. L'unica cosa rifinita "a secco"
è il cielo stellato fatto con del lapislazzulo disposto a secco
su una base di altro colore. Gran parte della cappella fu dipinta
dagli assistenti di Giotto, ma il volto di Scrovegni è uscito
dalla mano dell'artista. È indubbio che quell'uomo non avrebbe
raggiunto i dannati all'Inferno. Quanto a Giotto, anch'egli
aveva ricevuto un notevole riconoscimento economico: possedeva
case a Firenze e a Roma, comprò delle tenute agricole e ricavava
notevoli profitti dall'affitto dei propri telai.
La
meraviglia di questa Cappella si trova nel percorso del
racconto. Giotto dispose le diverse scene in ordine cronologico,
in fasce orizzontali. La vita di Maria appare per prima, seguita
dalla vita e dal ministero di Gesù, e, infine, si conclude con
scene raffiguranti la Passione. Tuttavia, i vari passaggi si
leggono in verticale. I visitatori rimangono sempre colpiti
nel rendersi conto che ogni scena prefigura quella successiva.
Molti affreschi di questa cappella vi sono forse familiari per
averli visti in molti libri di storia dell'Arte. Il
Compianto, ad esempio, è una rappresentazione commovente
del lutto attorno alla figura del Cristo in croce, soprattutto
per l'emozione evidente sui volti dei soggetti. Avendo passato
anni della sua vita a dipingere San Francesco, Giotto
probabilmente intuiva che il rinnovatore dell'arte europea fosse
proprio il santo di Assisi, che nelle sue prediche, all'inizio
del 1200, sostituiva all'immagine del Cristo trionfale bizantino
(immagine che nella cristianità ortodossa non si sarebbe più evoluta
rimanendo la stessa ancora oggi) il Cristo dolente. Il Cristo
bizantino e trionfante nella morte, esiste in un mondo astratto
e divino. Il corpo del Cristo dolente si fa invece umano
nella sofferenza.
La Cappella degli Scrovegni è la prova evidente della capacità
di Giotto di utilizzare le immagini per raccontare una storia
complessa. Bisogna anche tenere in considerazione il fatto che,
oltre alla difficoltà tecnica di realizzazione di un'opera di
queste dimensioni, c'era anche il fatto che ogni singolo personaggio,
con la sua gestualità, esprimeva un simbolo preciso. Tutto era
simbolico, e ogni gesto e ogni atteggiamento, in questo periodo
storico, avevano un preciso significato. Non si potrebbe arrivare
a comprendere un affresco di Giotto senza considerare la gestualità
dei personaggi.
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Il racconto
La
narrazione
dipinta sulle pareti è suddivisa in 36 riquadri di 2
metri per 1.80, disposti, uno accanto all'altro, su quattro
fasce sovrapposte. Giotto, secondo un programma iconografico
preciso rappresenta, nelle tre superiori le storie desunte dalla
leggenda aurea di Jacopo da Varagine (o da Varazze) e
in quella inferiore le figure allegoriche dei vizi e delle virtù.
Sopra l'arco trionfale, Giotto dipinge l'annunciazione: sulla
destra la visita di Maria a Santa Elisabetta, a sinistra il
tradimento di Giuda. La narrazione inizia con le storie dei
genitori di Maria, Gioacchino a Anna nei riquadri superiori
della parete destra, per proseguire sui quadri superiori della
parete opposta con le storie delle Madonna. Le storie di Cristo
sono narrate nelle parte mediana della pareti. Nella zona bassa
delle due pareti, Giotto dipinse, a monocromo, le
figure allegoriche dei vizi e delle virtù. Li vedete
nell'immagine sopra, nei riquadri dello zoccolo, alternati a
quelli di finto marmo.
I secoli XIII e XIV furono un periodo cruciale nella storia
dell’arte e delle lettere per i tanti cambiamenti nel modo di
vedere la realtà e l'arte. Geni come Giotto (qui a fianco
nell'autoritratto presente nel Giudizio Universale nella Cappella
Scrovegni), Cimabue, Guido Guinizzelli, Pietro
Cavallini, Arnolfo di Cambio e Dante Alighieri
compiono in questo periodo una vera rivoluzione copernicana,
elaborando una nuova raffigurazione artistico - letteraria della
realtà. Una nuova tradizione, nata dal desiderio di rappresentare
gli uomini e il mondo, così come si rendono visibili agli occhi
di ognuno. La mano del pittore, la penna del poeta, compiono
un balzo in avanti nella loro capacità di riprodurre la realtà
in maniera sempre più verosimile, tanto nella rappresentazione
dei temi sacri quanto in quella dei temi profani. Il paragone
tra Dante e Giotto ha un fondamento storico: Giotto, nato presso
Firenze verso il 1266, è stato un coetaneo, un concittadino
e, stando alla tradizione, un amico di Dante.
Il sistema di Dante ha una struttura dottrinale e teologica
modellata sul pensiero filosofico di San Tommaso d'Aquino:
illustrare e difendere le verità di fede con l'uso della ragione;
il sistema di Giotto ha una struttura etica che discende dall'altra
sorgente della vita religiosa del Duecento, San Francesco,
fatto rivivere magistralmente nel suo capolavoro nella Basilica
dedicata al santo ad
Assisi.
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Giotto, una star umile
Giotto
era una celebrità del suo tempo e doveva e deve parte della
sua popolarità proprio a un suo contemporaneo, altrettanto famoso,
Dante, che lo citerà, da vivo nella Divina Commedia. Il Sommo
Poeta si trova nel Monte del Purgatorio quando incontra
un uomo famoso nella sua vita come un miniatore di manoscritti,
Oderisi da Gubbio. Quest'ultimo è stato messo dal Sommo
Poeta in purgatorio per orgoglio. Oderisi operò a Bologna nel
1268-69 e nel 1271, periodi durante i quali, Dante potrebbe averlo
conosciuto. Nel Purgatorio Oderisi mette in guardia Dante sulla
vacuità della gloria terrena, la natura transitoria e senza
valore della fama. E cita un esempio lampante nell'XI canto
del Purgatorio:
"Credette Cimabue nella pittura tener lo campo, e ora Giotto
il grido, si che la fama di colui è scura...". Giotto, il
ragazzo di campagna strappato dalle sue mandrie da Cimabue,
aveva superato la reputazione del suo maestro.
Dante sta parlando di un contemporaneo, un concittadino di Firenze,
di qualcuno che probabilmente conosceva personalmente. La sua dichiarazione che la fama di Giotto aveva oscurato quella
di Cimabue passò alla storia, non solo dell'arte. Sette secoli
più tardi, è facile capire perché Giotto fosse tanto popolare
nel suo tempo. L'umiltà era la grazia salvifica di Giotto, secondo
Boccaccio nel Decameron. Nel Medioevo si credeva fermamente
che la fama fosse una cosa inutile e vuota, che finiva sempre
in perdita e angoscia. Era meglio essere modesti, come Giotto.
Nato in montagna, tra le capre, capace di catturare con lo sguardo
la natura, Giotto era celebre per essere un genio umile...Continua
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Giotto.
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Espiare il peccato di
usura
Ritornando
a parlare di Rinaldo Scrovegni, padre di Enrico, fu collocato
dal Sommo Poeta nel settimo cerchio dell’Inferno, a causa dell’usura,
che aveva praticato in vita. Nel terzo girone del settimo cerchio
dell'Inferno, la vista degli usurai che cercano di proteggersi
dalla pioggia di fuoco e dalle sabbie incandescenti fa ricordare
a Dante i cani che, d'estate, agitano ora il muso ora le zampe,
per scacciare gli insetti che li tormentano. Dante non riesce
a riconoscere alcun volto, ma vede che i dannati portano al
collo una borsa contrassegnata da disegni e colori diversi:
E com'io riguardando tra lo vegno,
in una borsa gialla vidi azzurro
che d'un leone avea faccia e contegno.
Poi, procedendo di mio sguardo il curro,
vidine un'altra come sangue rossa,
mostrando un'oca bianca più che burro.
E un che d'una scrofa azzurra e grossa.
Segnato aveva lo suo sacchetto bianco,
mi disse: "Che fai tu in questa fossa?"
L'uomo
che interroga il poeta era Rinaldo Scrovegni. La cappella, appunto,
venne eretta proprio per espiare questi suoi peccati. Affinché
l’espiazione fosse più efficace, vennero chiamati a decorare
l’interno della cappella, gli artisti più famosi dell’epoca.
Giovanni Pisano si occupò, per esempio, di realizzare
alcune sculture in marmo, che si trovano ancora oggi sull’altare.
Il capolavoro più grande fu quello realizzato da Giotto
di Bondone, che in due anni riuscì a dipingere ben
38 immagini, in tutte le pareti interne della
cappella.
Gli affreschi di Giotto ritraggono alcune Scene di vita della
Vergine Maria e di Gesù. Sotto il portale Giotto dipinse
il Giudizio Universale e sull’arco è possibile ammirare
l’immagine di Dio che incarica l’arcangelo Gabriele, di dare
l’annuncio a Maria. Tutti i personaggi che Giotto ha ritratto
in queste pareti sembra abbiano vitalità; egli, infatti, riuscì
a rompere tutti gli schemi e le regole, che fino a quel momento
i suoi predecessori avevano seguito. Sotto l’altare è presente
la tomba di Enrico Scrovegni con il cielo dipinto di
blu, sopra di essa. Enrico Scrovegni, inoltre, è stato raffigurato
in una scultura, che si trova nella sagrestia, nell’atto di
pregare.
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La stella cometa
Qualche
anno fa, nel 1986, in vista della ricomparsa della Cometa di
Halley, scienziati di tutto il mondo che la studiavano, vennero
a osservare la scena della Natività, nella quale faceva bella
mostra di sé una grande e bella stella cometa. La Cometa di
Halley, ricompare nelle vicinanze della Terra ogni 76 anni.
Giotto, nell'affresco della Natività rappresentò l'astro con
una palla infuocata, tralasciando l'immagine della stella con
le punte. Il grande pittore, sostennero gli studiosi, doveva
aver assistito realmente al passaggio della cometa, per darne
quella rappresentazione. Gli scienziati di tutto il mondo provarono
istanti di intensa emozione nell'ammirare lo splendore della
Cappella degli Scrovegni. Anche per questo motivo chiamarono
la
missione europea che studiava la cometa "missione Giotto".
Fu Giotto insomma a rappresentarne una cometa per la prima volta
in modo realistico, cioè non stilizzata ma proprio come appare
a chi la guarda direttamente in cielo. Da allora la stella cometa
divenne il simbolo del Natale e oggi la si trova in tutti i
presepi e negli alberi natalizi. L'Adorazione dei Magi nella
Cappella degli Scrovegni fu insomma la prima nella quale la
'Stella di Betlemme' era rappresentata come una cometa
e Giotto fu il primo a interpretarla come tale. Fino ad allora,
per secoli, era stata sempre rappresentata come una vera e propria
stella, quasi sempre a otto punte. Gli studiosi in seguito appurarono
che era la cometa che solcò il cielo nel 1301 e che poi avrebbe
preso il nome dal grande astronomo inglese di Halley.
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Il Giudizio Universale
Il
più importante Giudizio universale del XIV secolo forse
non sarebbe mai esistito se Giotto non avesse preso più di uno
spunto dal Giudizio Universale che si trova nella Basilica
di Torcello, nell'isola omonima nella laguna di
Venezia,
che sicuramente l'artista fiorentino aveva visto e ammirato.
Ma è altresì quasi certo che senza Enrico Scrovegni, e la sua
importante commessa privata, nessun affresco di questo tipo
avrebbe visto la luce. Giotto non avrebbe mai avuto la stessa
libertà di manovra se il committente fosse stato, come era d'abitudine
a quei tempi, la Chiesa. Avremo avuto un altro capolavoro, trattandosi
di Giotto, ma probabilmente non con questa eccezionale portata
rivoluzionaria. Come abbiamo già accennato, il banchiere
Enrico Scrovegni era un uomo molto ricco,
secondo
a nessuno in tutta Padova. La cappella che quest'ultimo
commissionò a Giotto, doveva rappresentare una volta per sempre,
all'interno dell'ambiente padovano e veneto, il consacramento
della propria altissima posizione sociale. Questa fu forse la
prima volta che un privato cittadino italiano patrocinò un grande
artista. Certo si trattò del primo Giudizio universale in cui
la doviziosa offerta di un noto usuraio fu graziosamente accettata
dalla Vergine Maria: nel Giudizio universale di Giotto - in
posizione prominente - Scrovegni offre in dono alla Vergine
un modello della sua cappella. L'enorme rappresentazione del
Giudizio Universale, secondo la tradizione medievale, venne
affrescata da Giotto sulla intera parete della controfacciata,
l'ultima cioè a essere vista dai fedeli all'uscita dalla chiesa
(per far si che servisse come monito). In essa si vede beatitudine
degli eletti, e le sofferenze atroci di chi, al contrario, aveva
meritato l'inferno.
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La rappresentazione
del Diavolo
Nel
suo Inferno completamente isolato, il convenzionale Satana giottesco
è un essere grottesco e irreale che divora i dannati come si
suppone dovesse fare. Privo di originalità sia nei dettagli
importanti quanto in quelli minori, è probabile che questo sovrano
dall'Inferno non sia che una debole copia del famoso mosaico
risalente ai primi anni del XIV secolo, noto a Giotto, che si
trova nel Battistero di Firenze (forse almeno in parte dovuto
alla mano del suo maestro Cimabue). Il Diavolo che divora
le proprie vittime comparve per la prima volta nel Giudizio
universale di Torcello e, dopo Giotto, non cessò
di essere raffigurato per secoli. È possibile che il Diavolo,
sovrano del pozzo nero e della lordura di papa Leone, sia rappresentato
seduto per alludere alla defecazione dei peccatori, un soggetto
che, apparso per la prima volta in un momento non definito della
fine del XII secolo, avrebbe esercitato un notevole fascino
su Bosch. I Diavoli di Giotto, vecchi pelosi e barbuti, dotati
di artigli da rapace e di coda (provenienti con ogni probabilità
dai costumi usati nelle sacre rappresentazioni), sono intenti
a tormentare i dannati nudi. Uomini sventrati sono appesi a
un albero; una donna è impiccata per i capelli, un uomo per
il pene.
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Le torture
Dietro alle torture dell'Inferno non ci sono soltanto la teologia
o delle perverse fantasie, ma anche gli strumenti progettati,
ed effettivamente usati, nelle torture giudiziarie. La
morsa per stritolare ossa rappresentata nel salterio è una riproduzione
fedele del vero strumento di tortura. La mano mozzata caduta
in terra illustra un ulteriore particolare di una pratica reale.
Giotto rappresenta sia l'ordalia dell'acqua sia la ruota. Il
bastone uncinato impugnato per secoli dai Diavoli era uno strumento
di tortura corrente e gli artisti avevano avuto modo di assistere
(o ne avevano sentito parlare) all'uso di denudare i criminali
e staffilarli per le strade. Questa singolare combinazione di
reale e irreale, di metodi effettivi di tortura in una scena
di fantasia, è elemento caratteristico di un gran numero di
figurazioni dell'Inferno. Sono in pochi a rendersi conto che
le torture dell'Inferno sono rappresentazioni assai accurate
della pratica contemporanea. Questo spiega perché le punizioni
e le sofferenze appaiono reali, anche se i diavoli non lo sembrano.
Il Giudizio universale di Giotto nella cappella dell'Arena era
diverso, ed esercitò una grande influenza soprattutto perché
semplificava l'intero fatto. Ridurre una scena agli elementi
monumentali essenziali è caratteristico della grandezza di Giotto;
in genere, la sua semplificazione è un arricchimento, anche
se non forse nel Giudizio universale, tema poco adatto a impegnare
le sue forze.
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Il rapporto tra Dio e
l'uomo
Il principale cambiamento strutturale operato da Giotto è stato
quello di avere attenuato le gerarchie interne allo scopo di
semplificare il rapporto dell'uomo con il divino. Cristo
non è il giudice supremo, ma un uomo serio, cortese, paziente.
Cristo è vestito di tutto punto e seduto comodamente; le sue
mani aperte mostrano le stigmate, ma non sono minacciose. Niente
pesatura delle anime, nessun giudizio. Maria accetta i doni
dello Scrovegni e quindi non può, contemporaneamente, agire
come intercessore (del resto con il Cristo rappresentato da
Giotto non sembra che i suoi appelli siano necessari). Gesù
è affiancato dai suoi apostoli e sotto di lui, alla sua destra,
ci sono i santi; sotto questi ultimi, infine, si trovano gli
eletti (ciascun livello è di dimensioni decrescenti rispetto
a quelli soprastanti; un antico simbolismo che Giotto abbandonò
nelle altre pitture dando corpo alle sue capacità d'espressione
particolari).
I morti resuscitati si arrampicano fuori da crepacci aperti
nel terreno: a malapena sono visibili all'interno dell'affresco,
come se Giotto avesse preferito lasciare fuori questa immagine
standardizzata, ma si fosse sentito in obbligo di non trascurarla.
Non vi è la separazione dei beati e dei dannati. I dannati non
si dirigono verso l'Inferno: ci sono già. Non sono in movimento
neanche i beati, perché l'atto critico della separazione non
è rappresentato. La rimozione di ciò che non è essenziale, la
rappresentazione dei rapporti tra gli individui piuttosto che
tra i livelli e l'eliminazione del movimento tra i livelli mediante
l'esclusione dell'atto della separazione, sono le innovazioni
giottesche che maggiormente influenzarono i due più importanti
Giudizi universali precedenti quello di Michelangelo: il Giudizio
del Beato Angelico e, soprattutto, quello attribuito
a Hubert van Eyck che si trova nel Metropolitan
Museum of Art di New York (fratello di Jan van Eyck,
autore del celebre
Ritratto dei Coniugi
Arnolfini) Sia il Giudizio del Beato Angelico,
sia quello di van Eyck furono entrambi dipinti verso il 1430.
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Il male
Giotto creava lo spazio attraverso i volumi delle proprie figure.
I drappeggi riflettono il movimento di braccia e gambe,
in un mondo talmente reale da non richiedere traduzione (così
come gran parte dell'arte romanica e, in parte, l'arte gotica).
Giotto non provava alcun interesse particolare per tutto ciò
che era al di fuori della terra, perché avvertiva come non vero
l'irrealistico (come i diavoli). Il modo in cui Giotto rappresentava
il Diavolo è molto interessante, perché il suo trattamento del
Diavolo era non eccezionale, non riusciva ad immaginarlo in
modo fantastico.
Il tradimento di Giuda è una delle scene del ciclo della
vita di Cristo che, come il grande Giudizio universale, si trova
nella cappella dell'Arena. A differenza dell'opera più grande,
l'affresco di Giuda fu eseguito dal solo Giotto. Giuda tiene
in mano la borsa con i denari che ha appena ricevuto; dietro
di lui c'è il Diavolo, che gli artiglia la spalla destra con
una mano. Se si osserva l'affresco dimenticando l'iconografia,
tralasciando la teologia e ignorando la storia, la differenza
più sorprendente è di natura tecnica. Tutti e quattro gli uomini,
Giuda compreso, sono ritratti nello stile naturalistico
tipico di Giotto: i loro abiti, i loro corpi che riempiono lo
spazio, i loro gesti, i volti, l'interazione tra i personaggi.
Giotto non sapeva dipingere il Diavolo perché il male per lui
era spiritualmente reale ma il Diavolo non lo era. Gli angeli
che rifiutarono la luce, spiega Sant'Agostino nella Città di
Dio (XI, 9), diventarono spiriti impuri e immondi: "Il male
non ha alcuna natura positiva; ciò che chiamiamo male non è
altro che la mancanza di qualcosa che è bene". Questo tipico
credo secondo cui il male è soltanto assenza di qualcosa,
è un problema insolubile per gli artisti, e in particolare per
Giotto, le cui figure solide occupavano uno spazio reale. Se
il male e il Diavolo sono la mera assenza di qualcosa, come
si potrebbe dipingere una simile mancanza? Giotto poteva localizzare
il male in un attore umano, ma non al di fuori di esso. Nelle
sue pitture il male è incarnato in forma umana, ma questa
percezione non era soltanto prerogativa di Giotto. Essa è la
ragione principale per cui, prima del XIX secolo, le immagini
memorabili del Diavolo eseguite da artisti occidentali sono
così poche.
Nella Cappella degli Scrovegni la rivoluzione di Giotto, la
scoperta del vero, anatomico, dei colori, delle luci, e la rivoluzione
dello spazio con la rappresentazione della profondità e della
tridimensionalità, cambiano per sempre l'arte europea e occidentale,
cambiando per sempre anche la nostra prospettiva della realtà.
"Studiare la natura e non copiare gli altri pittori, questo
è ciò che fa un vero pittore. Giotto non solo supera tutti i
pittori della propria epoca, ma anche tutti quelli dei secoli
a venire". Questo è il giudizio di un artista non molto
incline a lodare gli altri:
Leonardo da Vinci.
M. Serra
Per Informagiovani-Italia.com
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