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Giovani arte e
cultura
> Media Art
Quando l'arte incontra la tecnologia. Video mapping
spettacolari, installazioni interattive, visual art e
molto altro per un viaggio totale nei nuovi territori
dell'immaginazione.
Articolo di Laura Panarese
Cosa si intende di preciso con l’espressione MEDIA ART?
Difficile sintetizzare: si tratta di una scena artistica
molto vasta e varia che ha come trait d’union l'uso
delle nuove tecnologie, seppure con modalità
d’utilizzo spesso molto diverse fra loro. Recentemente
il termine MEDIA ART è passato ad indicare per lo più
l’arte digitale. In effetti, i sottogruppi che sono nati
negli ultimi cinque\sei anni, la net art, la software
art, la web art, le network installations, possono esser
tutti considerati entità a sé, ciascuna significativa di
per sé, ma, nel contempo, è solo nell’insieme che
riescono a connotarsi come fenomeno culturale
sviluppatosi spontaneamente e irregolarmente, ma
velocemente diffusosi fino a toccare quasi tutto lo
scenario artistico elettronico.
Le relazioni fra le varie componenti sono leggibili in
termini di esplorazione\sperimentazione, e di una
produzione di tipi che perlustra le possibili
opportunità di rapporto con la macchina.
Gli artisti del digitale si confrontano con una "
non-materia"
a cui cercano di dare forma attraverso un continuo
lavoro di adattamento alla sua natura, mutevole per
vocazione. In alcuni lavori si legge chiaramente la
volontà di stabilire un rapporto con lo spazio
circostante, in altri si scorgono le lezioni dell’arte
tradizionale, figurativa e non, esplorata, modificata e
rivisitata attraverso l’occhio speciale dello strumento
elettronico. I confini e gli ambiti che si uniscono per
la realizzazione di questi prodotti non sono precisi, ma
fluttuanti, sospesi fra la capacità di riflettere
seriamente certe contraddizioni dell’ "
era informatica"
e una più leggera e popolare identità di oggetti ludici.
I nuovi strumenti della comunicazione telematica, i suoi
nuovi linguaggi, i suoi effetti sulla cultura e sulla
società non si limitano a modificare i tradizionali
modelli artistici, politici e commerciali, ma
trasformano il modo di pensare e dunque la logica alla
base del pensiero occidentale e globale.
L’arte dei nuovi media digitali ha oramai circa mezzo
secolo di storia; da più di vent’anni è al centro
dell’attenzione delle principali istituzioni dell’arte,
della ricerca e della scienza. Molte istituzioni e musei
nazionali ed internazionali hanno creato al loro interno
un'area specifica dedicata all’arte dei nuovi media e
organizzato mostre e centri di documentazione e di
ricerca in tale settore.
Solitamente ci si concentra sulla forma e sul mezzo
della media art, ma quali sono i temi principali
che questa branca dell’arte utilizza? Secondo Mark Tribe
e Reena Jena ("
New media art", Taschen Brown, 2007) le
opera d’arte mediatica contemporanea di solito
riflettono sul tema della solidarietà, dell’identità,
della collaborazione, dell’appropriazione e della
condivisione, della presenza a distanza (telepresenza) e
dell’attivismo. Internet unisce e divide al contempo. Un
artista che si confronti con questo strumento non può
prescindere da questo tipo di riflessione, a meno che
non ne faccia un mero strumento estetico. Ma Internet
può anche rappresentare il sistema, laddove si rifletta
sullo strapotere dei magnati dei computer, o
l’anti-sistema, per chi vede in internet una "
terra di
nessuno" in cui si può dire e fare quel che si vuole,
nascosti dietro (o, meglio, dentro) l’anonimato della
rete.
Se si vuol tentare una suddivisione in generi per quanto
riguarda la media art si possono elencare una serie di
sottogruppi: l’arte elettronica, l’internet art, la
net art, la computer art, la digital art, l’arte
robotica, la video arte, la virtual art, la sound art,
la software art, l’arte performativa, l’arte
interattiva, la bio art, l’attivismo, l’arte
informativa, l’arte generativa, e molte altre "
ipotesi
di arte".
Perché parlo di "
ipotesi di arte"? Perché, nel mio
piccolo, continuo a pensare che l’arte sia della gente
e, sebbene i media come il computer, il video ecc. siano
ormai molto diffusi tra la gente come strumenti d’uso
quotidiano, l’arte che li usa come unica forma
espressiva è ancora ben lontana dall’essere riconosciuta
come tale dalle masse. Non credo basti un convegno
specialistico, un archivio specializzato, una mostra
tematica, un bel libro concettoso o un articolo su di
una rivista specializzata (cartacea od on line, per
rimanere in tema…) per decretare la pubblica
accettazione ed il riconoscimento corale di questa forma
di arte.
Per tanti l’arte rimane bellezza, incanto, magia, oppure
sentimento, poesia, unicità.
È un discorso vecchio come l’arte contemporanea (che ha
due secoli ormai, secondo la codificazione accettata
dagli storici dell’arte), quello dell’opera d’arte come
prodotto non riproducibile, dotato di una sua aura unica
ed irripetibile, ma credo che sia un dato di fatto che
la Media art abbia ancora moltissima strada da fare
prima di essere unanimemente riconosciuta come arte pura
e semplice e non come fenomeno sociale, culturale, di
costume, quindi effimero, legato ad un momento storico
specifico, il nostro.
Inoltre, quanti artisti usano questi strumenti per una
reale, innata propensione verso queste forme espressive,
e quanti lo fanno per vezzo, per moda, per forzata
adesione al linguaggio più "
nuovo" e apparentemente
complesso dell’arte di oggi?
È passato molto tempo da quando i primi video-artisti,
pionieri della Media art, scelsero di cominciare a
riflettere sulla TV e sul suo potere infinito. L’origine
della Media Art si colloca solitamente negli anni 60,
quando artisti come Wolf Vostell e Nam June
Paik, per lo più in collegamento con il gruppo
Fluxus, cominciarono a fare del video e dei media
come la televisione e il computer non solo mezzi di
espressione artistica, ma veri e propri oggetti d’arte
di per sé, ready made, o "
oggetti già pronti", alla
maniera di Duchamp, di diritto antenato degli artisti
sopra citati. Già altri movimenti ed artisti negli anni
50-60 avevano cominciato a denunciare in più modi
l’urgenza profonda di "
uscire dal quadro", di esplorare
lo spazio circostante: dal giapponese gruppo Gutai,
con le sue performance tra natura e simbolismo, al
Nouveau Realisme, dall’arte cinetica e programmata a
Fluxus, le istanze centrifughe cominciano ad andare per
la maggiore. L’azione diventa protagonista, ed essa
comporta una reazione, che va esplorata, indagata, o
semplicemente mostrata, tra performance artistica e
spettacolo teatrale. Lo spettatore non è più passivo, ma
gioca un ruolo fondamentale, occupando uno spazio che
non è più lontano dall’artista, ma è il medesimo, un
tutto unico. In questo sconvolgimento della tradizione
rientra il rifiuto del vecchio medium artistico: la
pittura, la scultura, la tecnica costruttiva, tutto
sembra piccolo e limitato, dinanzi ad un nuovo mondo di
possibilità da esplorare. La ricerca diventa arte.
L’arte si fa esplorazione. In questa fase si è consumata
una delle rivoluzioni più epocali della storia
dell’arte, come quella prospettica nel Quattrocento, il
naturalismo caravaggesco nel Seicento, la pittura
impressionista nell’Ottocento, le avanguardie ai primi
del Novecento.
Fu
Lucio Fontana, a noi noto per i tagli ed i buchi nelle
tele, a teorizzare per primo un’arte che si servisse di
tanti strumenti per comunicare, tra i quali egli
nominava la TV. Ma fu il neo-dada gruppo Fluxus a creare
le prime forme di video-arte. In Fluxus si inserisce
l’attività del tedesco Wolf Vostell: l’artista-performer
già nel 1958 inseriva i televisori nei suoi decollages,
che erano manifesti strappati, bruciati, cancellati,
immagini della TV distorte, a volte abbinate a simboli
dello sterminio nazista.
Vostell polemizzava contro l’azione omologante della
televisione, contro la banalità dei contenuti, contro lo
schiacciamento dell’individuo in questa nuova logica
mediatica. La sua era dunque una riflessione polemica
sul mezzo tecnologico.
Guru della video arte è tuttavia considerato il coreano
Nam June Paik. A differenza di Vostell, Paik non
polemizzava con la TV, ma meditava sulle sue
potenzialità artistiche ed espressive. Paik gioca con il
mezzo televisivo, usandolo e distruggendolo, mettendolo
su di un altarino e poi smitizzandolo, con un
atteggiamento ironico e sarcastico
degno della migliore tradizione dadaista. Importante
anche il ruolo della musica, che Paik abbinava spesso al
video, creando le prime combinazioni artistiche
suono-video, binomio stra-utilizzato dagli artisti a
venire. Storica la sua "
Exposition of Music-Electronic
Television", svoltasi a Wuppertal, alla Galleria
Parnass, nel 1963.
Fu la prima volta che video e musica elettronica
interagivano in uno spazio unico; coinvolgente e totale
la stimolazione sensoriale dello spettatore. Come in
molta musica contemporanea, l’effetto doveva essere
destabilizzante, quasi fastidioso. Strumenti musicali,
pentole, chiavi, un manichino femminile in una vasca,
una testa di toro che colava sangue e tredici televisori
con immagini diverse creavano l’evento Fluxus progettato
da Paik. E, determinante, un suono, continuo,
incessante, ossessivo.
Paik fu anche il primo a filmare un evento
apparentemente casuale e privo di importanza come il
passaggio della gente per la strada in tempo reale, e
poi a mostrare il filmato conferendogli dignità
artistica, come fece Duchamp con il water o con lo
scolabottiglie.
Dopo e con Paik, tanti furono i grandi della video arte,
da Bill Viola a Joseph Beuys, quest’ultimo
protagonista di una decisa virata verso il concettuale,
il sociale, la riflessione sul tema della comunicazione.
Importante citare anche gli artisti performer, come gli
italiani Marina Abramovic, Gina Pane, Vito
Acconci, ma anche Gilbert e George e Bruce
Nauman, che hanno gioco-forza fatto del video uno
strumento di conservazione e trasmissione del loro atto
performativo, insieme alla fotografia.
Arrivando a tempi più recenti, non posso non citare gli
italiani di Studio azzurro, gruppo milanese nato
nel 1982 dall’unione di tre menti, Fabio Cirifino
(fotografo), Paolo Rosa
(arti visive e cinema) e Leonardo Sangiorgi (grafica e
animazione). Ambiti mediatici diversi si incontrano
nelle opere del gruppo, meraviglioso esempio di fusione
armonica tra arte, tecnologia, poesia e bellezza. Dal 95
è entrato a far parte del gruppo Stefano Roveda, esperto
in sistemi informatici e tecnologie interattive. Il
nucleo fondamentale da sempre si avvale anche di
numerosi collaboratori, nel continuo dialogo tra
competenze diverse che abbracciano i più vari campi del
sapere, per ricreare una sorta di officina, uno spazio
di elaborazione creativa, dinamico e aperto, impegnato
nell’ardua impresa di ricucire la profonda frattura
contemporanea fra arti, scienza e società.
Occorre precisare che "Studio Azzurro" ha spesso
rifiutato l'etichetta di "video-arte", volendo
denunciare così un certo scetticismo verso un uso\abuso
delle nuove tecnologie, ridotte sovente a puri strumenti
espressivi, senza consapevolezza alcuna del mondo
mediatico e culturale che esse rappresentano. Contro
quella che rischiava di diventare una tendenza puramente
formalistico-decorativa l'intenzione programmatica del
gruppo milanese consisteva piuttosto nell’utilizzare il
video come "linguaggio rappresentativo" della
contemporaneità, capace di riassumerne
significativamente il mutamento epocale sia dell'arte,
sia della comunicazione, fino ad arrivare alle modalità
percettive più semplici del singolo individuo.
Il video, il computer, internet, la cibernetica… tutto
questo può in effetti essere utilizzato come forma
artistica, avere dignità poetica, comunicare valori
culturali, ma è necessario, a mio parere, scindere bene
tra quello che ha un senso nell’evoluzione della storia
dell’arte e quello che non lo ha, che è solo legato ad
un momento, ad una moda, ad un futurismo di maniera
freddo, triste ed avvilente quanto mai.
Via libera dunque alla tecnologia, ma che sia usata
dall’uomo per parlare all’uomo, che sia un suo
strumento, che abbia un senso ed un valore condivisi,
che parli a tutti, per sempre, perché questa è l’arte,
senza dubbio alcuno. Un linguaggio universale, un
pensiero eterno, un’immagine indelebile. Non il
bisbiglio o l’urlo isolato di un folle o di un
emarginato, non la voce tra le voci del seguace della
singola tendenza, se alla lunga viene dimenticato dai
più.
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