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Giovani
arte e cultura
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Dopo
gli eccessi barocchi torna il rigoroso equilibrio classico, tra auliche
citazioni dell'antico e richiamo agli ideali eroici della polis greca. Un
movimento di grande eleganza formale.
Se per il
Barocco ho
scelto Roma come centro
propulsore del linguaggio artistico dominante, scelgo un
artista francese per il discorso sul Neoclassicismo.
Prima qualche generalità…
Per Neoclassico si intende quel fenomeno di
gusto, di costume, ma anche quella congiuntura storica e
di pensiero che tra Settecento ed Ottocento portò
il mondo europeo alla ripresa dei classici come
repertorio privilegiato di idee, opere d’arte, gusti e
modi di vivere. Il discorso è complicato e lungo, ma basti accennare, per quanto
riguarda l’arte, alle scoperte archeologiche di Pompei ed Ercolano.
Queste avvennero tra 1879 e
1748, che fornirono un enorme patrimonio di modelli figurativi, oltre che
infinite suggestioni antiche che alimentarono il sogno utopico della
ri-creazione di quel mondo, ovviamente morto per sempre, ma vivo nel ricordo e
nel culto, seppur artificioso, dei suoi amatori.
Intellettuali come il
Winckelmann furono responsabili di
un’operazione consapevole di teorizzazione della
superiorità degli antichi sui moderni e della necessità
per i contemporanei di ispirarsi a loro per migliorarsi.
A proposito dell’arte W. sosteneva nei suoi "
Pensieri
sull’imitazione dell’arte greca" (1755):
"L’imitazione del bello della natura o si attiene a
un solo modello o è data dalle osservazioni fatte su
vari modelli riunite in un soggetto solo […così…] si
prende la via del bello universale […] ed è questa la
via che presero i greci"
ed ancora:
"A chi vorrà raggiungere la conoscenza del bello
perfetto lo studio della natura sarà per lo meno più
lungo e più faticoso che non lo sia quello dell’antico".
Questo significava scordarsi della natura ed
ispirarsi direttamente ai classici per
raggiungere la perfezione e la bellezza ideale.
Questo è l’arte neoclassica. Ma diversi furono i modelli
cui gli artisti di questo periodo si ispirarono per
raggiungere questi obiettivi. Qualcuno riprese la
statuaria greca classica, per lo più attraverso le copie
romane presenti nella città eterna, Roma.
Evento fondamentale fu anche il trasporto dei marmi
del Partenone a Londra, tra il 1802 e il 1812,
voluto da Lord Elgin, archeologo e uomo di stato (vedi
la riproduzione del dipinto sotto: A. Archer, 1879, olio
su tela,
British Museum, Londra). Tuttora il British
Museum li conserva. Fu un evento epocale per il gusto
europeo. Gli artisti inglesi (e non solo) ne furono
fortemente condizionati.
L’idealizzazione
del mondo classico si nutrì di ulteriore linfa per
credere nell’utopia della rinascita di quel mondo. Altri
artisti si rifecero ad altri generi di "
classici", ad
esempio all’arte romana, come dicevo a proposito di
Pompei ed Ercolano, o all’arte etrusca, fino ad
arrivare, con Napoleone e le sue campagne d’Egitto, all’egittomania,
seguita dalla mania dell’orientalismo, che ebbe il suo
centro propulsore nella Parigi della metà
dell’Ottocento, dove aprirono i primi negozi di
cineserie, così pieni di suggestioni per artisti come
Manet, Van Gogh, Toulouse Lautrec ecc.
Il Barocco, linguaggio
dominante nel secolo precedente, cominciò ad essere
considerato "
peste del gusto", perché, con le sue
stranezze e le sue deformazioni, aveva stravolto la
perfezione del
Rinascimento, apprezzato perché aveva,
invece, ridato vita alla classicità. Artisti come
Raffaello, in particolare, vennero amati ed imitati
da tanti, primo tra tutti il francese Ingres, che, come
tanti, venne a Roma a studiare in quanto vincitore
dell’ambito Prix de Rome. Cos’era? Un premio che dava
l’Accademia d’Arte francese ai suoi migliori studenti
per venire a studiare a Roma per un periodo, risiedendo
presso la sede romana dell’Accademia, tuttora esistente
ed attiva vicino Trinità dei Monti, al Pincio. Per
questi giovani artisti era un vero sogno che si
avverava, vivere e creare respirando l’atmosfera della
città più classica del mondo, tra passeggiate tra le
rovine e sedute di copia presso i musei e le collezioni
di pezzi antichi dei signori più illuminati, come i
Torlonia ed i Borghese. Tra i giovani pensionnaires
dell’Accademia di Francia a Roma ci fu l’artista di cui
voglio parlarvi, Jacques-Louis David (Parigi, 30 agosto
1748 - 29 dicembre 1825).
Jacques-Louis David si formò in ambito accademico
e raggiunse presto il successo per il suo stile perfetto
e le sue magniloquenti scene classiche, amate dai nobili
e dalla Corona; presto il suo linguaggio piacque agli
uomini della Rivoluzione e se ne fece simbolo, in
particolare laddove alludeva alle virtù romane della
fase repubblicana; quando Napoleone prese il potere, D.
ne divenne in pratica il primo pittore, anche perché
riconosceva in lui una possibile risposta alle esigenze
di cambiamento proprie del popolo francese. Allora
l’antica Roma continuò ad ispirare David, ma questa
volta fu la Roma imperiale, trionfale, celebrativa di se
stessa delle grandi committenze imperiali.
Il primo quadro che vorrei analizzare è "Il
giuramento degli Orazi", del 1784, il più noto di
David. È un olio su tela, di 330 x 425 cm, conservato
al Louvre, il più grande e famoso museo francese (e non
solo).
Fu
commissionato da un conte per farne dono al re. David
scelse di dipingere il momento in cui i tre fratelli
romani giurano che sacrificheranno la loro vita per la
patria. Il fatto accade davanti ad un portico a tre
archi, perfetta cornice per esaltare le virtù morali e
civili dei tre protagonisti. Le figure sono allineate su
di un unico piano, di modo che i gesti risultano
accentuati, oltre che strettamente collegati: i fratelli
giurano col braccio alzato, alla romana; il padre ne
congiunge le spade, retrocedendo per l’intensità del
gesto dei tre ragazzi; le donne, ma guarda un po’,
piangono sconsolate, relegate sulla destra, inquadrate
dall’ultimo arcone. La tenerezza femminile fa da
contrappunto al vigore maschio ed energico dei tre
uomini. Del fatto classico David esaltò solo gli
elementi principali, senza fronzoli, con sobrietà
essenziale, classica, per l'appunto. La retorica dei
sentimenti, per noi piuttosto evidente, non dispiaceva
in un’epoca di grandi cambiamenti, come quelli che di lì
a poco avrebbero cambiato per sempre i sistemi
governativi francesi, ma non solo.
Il precedente stilistico davidiano furono sicuramente i
bassorilievi romani, con il loro rigore, con la
semplicità delle loro linee e dei loro messaggi, ma
furono anche le prime opere del Rinascimento, i
geometrici dipinti di
Piero della Francesca, dalle
atmosfere rarefatte, razionali, rigorose, o Raffaello,
dai contorni divini, dal disegno perfetto.
In epoca rivoluzionaria si vide nel dipinto
l’esaltazione della fede repubblicana, ma va ricordato
che allora la patria, il senso civico, la fedeltà alla
nazione volevano dire fedeltà alla monarchia, ed in
effetti l’opera aveva originariamente questa
destinazione.
Quando Napoleone da Primo Console divenne Imperatore, la fede
repubblicana gli riconobbe il ruolo del continuatore dello spirito libertario
proprio della rivoluzione, nonostante fosse tutt’altro. Il carisma, la forza, la
novità del programma lo mostravano come un novello Cesare, ma al tempo stesso un
liberatore dalle strettoie della monarchia. David se ne fece ritrattista. Opere
come "Napoleone al passo del Gran San Bernardo"
esprimono alla perfezione come il linguaggio neoclassico davidiano si sia adattato perfettamente alle esigenze
della propaganda napoleonica.
L’opera si trova alla Malmaison, a Parigi, è datata 1800
e misura 272x241 cm; è un olio su tela. Napoleone passò
le Alpi entrando trionfalmente in Italia col suo
esercito. Liberatore o conquistatore che fosse, David ne
rese l’aspetto più classico, legandolo direttamente ai
grandi eroi del passato, come Annibale e Carlo Magno,
che pure erano venuti in Italia suscitando grande
ammirazione. Il carisma del condottiero viene
sottolineato dall’ampio panneggio giallo svolazzante,
dalla sicurezza della cavalcata e del gesto, dalla posa
imbizzarrita del cavallo, che sembra non turbare
minimamente Napoleone, dalla sicurezza e forza
dell’espressione del volto di lui. Il cielo coi suoi
colori sembra prepararsi a celebrarne il trionfo. Le
rocce con i nomi incisi sembrano dare il benvenuto al
nuovo dominatore. Questo dipinto non è classico solo
nella citazione dei nomi del passato, ma anche nel
trattamento delle forme, perfette, levigate, belle da
guardare, come pure nella concezione eroica ed
idealizzata del personaggio, visione che potrebbe
rivaleggiare con un ritratto lisippeo di Alessandro
Magno (Grecia ellenistica) o con i rilievi celebrativi
dei trionfi imperiali sugli archi o sulle colonne
dell’antica Roma.
Ma il neoclassico non fu solo eroismo napoleonico o
ripresa dei valori civili e morali propri della
classicità; fu anche lo stile impero nella moda,
nell’arredamento, nell’architettura, oltre che la grazia
e la perfezione dell’opera di alcuni grandi artisti,
come il francese Ingres, pittore, o l’italiano
Canova, scultore.
A
proposito di Canova, propongo una sola opera per
far cenno allo stile della sua produzione: la "
Paolina
Borghese Bonaparte come Venere Vincitrice", 1804-08,
marmo, conservata a Roma presso la Galleria Borghese.
Ancora un personaggio storico come protagonista (la
consorte del principe Camillo Borghese), ancora la
cerchia di Napoleone, ma qui il classico trionfa davvero
in tutta la sua perfezione, in tutta la sua bellezza.
La nobildonna viene ritratta come Venere vincitrice; la
citazione classica non si nasconde, bensì si fa
evidente, nell’assimilazione di un personaggio reale,
vivente, ad una divinità della mitologia greca. Venere
vinse la famosa gara di bellezza di cui Paride fu
giudice, meritando il noto pomo d’oro della discordia di
cui si fregia in questa scultura. Tuttavia, a parte il
soggetto, anche la forma è classicamente pensata e
realizzata: un marmo perfetto, levigato, trattato poi
con cera rosata per rendere ancor più umanamente divino
l’effetto di somiglianza con la vera carne di una donna;
la posa, poi, ricorda quella dei banchettanti romani, o
dei defunti dei sarcofagi etruschi, come quello degli
Sposi conservato sia al Louvre che a Villa Giulia a
Roma; l’acconciatura, come pure i gioielli, sono di
classica fattura; anche la scelta del panneggio che
copre solo la parte bassa, lasciando il petto nudo,
rivela una mancanza di censure che finalmente libera il
gusto e l’estro degli artisti dopo il periodo buio della
censura post-tridentina. Il letto, poi, è assolutamente
in linea con lo stile impero di cui parlavo a proposito
del periodo napoleonico (nell’architettura,
nell’abbigliamento, nell’arredo, nell’oggettistica).
Sotto il letto c’era tra l’altro un meccanismo ideato
dal Canova che permetteva all’opera di ruotare sotto gli
occhi degli spettatori.
Se nel Seicento "la meraviglia" era il fine
dell’artista, ora lo rimane, ma è uno stupore classico,
composto, armonico, da gestire in religioso silenzio,
senza clamori, lontano dalle berniniane estasi,
compostamente, idealmente.
Articolo di Laura Panarese per
Informagiovani Italia
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