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Federico
De Roberto - Biografia e Opere
Federico De Roberto,
è uno dei più grandi scrittori italiani (pochi lo
sanno), che
diversamente da altri artisti, ha goduto in vita di
scarsa
considerazione da parte di critica e pubblico. Come
spesso capita, solo decenni anni dopo la morte,
passata quasi inosservata, i suoi meriti e le sue
qualità sono giustamente, e finalmente,
emerse. Leonardo Sciascia definì "I Viceré"
di De Roberto il più grande romanzo italiano dopo "I Promessi sposi". |
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La scrittrice Stefania Auci, autrice del best seller "I Leoni di Sicilia",
afferma che se oggi siamo quelli che siamo, lo dobbiamo anche ai personaggi
di De Roberto. Lo scrittore Alfio Caruso sostiene che De Roberto
abbia spiegato egregiamente da dove provengono gran parte dei mali, che
ancora oggi, affligge il nostro
paese.

Federico De Roberto nacque il 16 gennaio 1861 a
Napoli;
il padre era un ufficiale napoletano
dell'esercito borbonico di Stato Maggiore di Federico II; la
madre, Marianna degli Asmundo, era di Trapani ma la
sua
famiglia era di origine catanese.
Dopo la morte del padre, nel 1870 la famiglia si trasferì a
Catania.
Nella città siciliana Federico si iscrisse, all’età di 13 anni,
all'Istituto tecnico "Carlo Gemmellaro", dove ottenne il
diploma di geometra. Durante questi anni iniziò a dedicarsi
con grande passione, per proprio conto, allo studio dei
classici e del latino.
Frequentò il corso di scienze fisiche, scienze matematiche e
naturali all’Università degli Studi di Catania dal 1879 al
1882, ed ebbe pertanto una prima formazione scientifica,
anche se non frequentò regolarmente i corsi. Abbandonò
l’università al terzo anno, quando il suo interesse per gli
studi classici prevalse. Le condizioni modeste ma dignitose
della famiglia gli consentirono di dedicarsi agli studi
classici. Non si laureò mai, preferendo l'attività di
scrittore, giornalista e saggista, continuando ad ampliare la sua cultura
anche al latino e agli studi letterari. In quegli stessi anni
iniziò a scrivere come collaboratore di alcune riviste
locali, tra cui "L'Illustrazione Italiana", dove pubblicò un
articolo dedicato alla traslazione delle ceneri compositore
siciliano Vincenzo Bellini, dal
Cimitero di Père-Lachaise a
Parigi, dove si trovavano a Catania, sua
città natale.
Nel 1881,
appena ventenne, attraverso la
collaborazione alla rivista letteraria "Don Chisciotte"
entra in contatto e stabilisce rapporti di amicizia con
Luigi Capuana. Nello stesso anno
esordisce con la sua prima opera critica letteraria, il
saggio Giosuè Carducci e Mario Rapisardi, Polemica,
pubblicato dall’editore catanese Niccolò Giannotta, nel
quale auspicava la riappacificazione tra i due poeti. La
prefazione non piacque però al Carducci, che se ne risentì a
tal punto da farla rimuovere dalle edizioni successive.
Tra il 1881 e il 1883
collaborò a varie riviste nel ruolo di consulente
editoriale, critico e giornalista: il Don Chisciotte,
del quale, dal 1881 al 1882, fu anche Direttore, e la Fanfulla
della domenica, sulla quale scrisse 1882 al 1883,
firmandosi sotto lo pseudonimo di Cardenio o Anonimo, vari testi, poi raccolti in
un volume dal titolo Arabeschi (articoli su
letteratura e arete dedicati a Zola,
Flaubert,
Matilde Serao,
Luigi Capuana stesso). Curò
poi una collana, i Semprevivi, per l'editore catanese Giannotta;
durante la scrittura della collana ebbe modo di conoscere
Giovanni Verga, con il quale instaurò una forte amicizia.
Nello stesso periodo venne incaricato dal Comune di gestire
la Biblioteca Civica ex benedettina di San Nicola l’Arena di
Catania, dove De Roberto trascorse molto del suo tempo.
All'inizio dell'82 diventò il
corrispondente da Catania del Fanfulla di Roma,
producendo una
serie di lettere intitolate "Echi dall'Etna" che
firmò con lo pseudonimo Hamlet. Nella primavera dell'83
scrisse una novella, La malanova, che fu però rifiutata dal
direttore Capuana perché ritenuta troppo ricca di sicilianismi.
Manifestò a pieno la propria
vocazione di scrittore negli anni Ottanta, in piena
espansione del
Verismo. Nel 1887 apparve la prima la
sua prima opera narrativa: La Sorte, raccolta di
racconti che si inserisce nel filone verista
ottenendo un elogio nella recensione di Capuana; pur alterno
nei risultati, questo esordio già manifesta una notevole
perizia formale e stilistica.
Nel 1888 venne pubblicata la raccolta di novelle Documenti umani (la
stessa che susciterà in seguito l'entusiasmo di Vitaliano Brancati),
provocando notevole scalpore: nella lunga e importante prefazione al volume,
l'autore dichiara di mirare a una difficile sintesi tra l'impianto verista e
le teorie "idealiste" ma le atmosfere allucinate e un certo soggettivismo
portato all'estremo, contraddicono in parte gli assunti della poetica
verista; Verga stesso intervenne per invitare l'amico a un ritorno al
precedente stile.
Nel decennio 1888-1897 De
Roberto soggiornò a Firenze e soprattutto a
Milano, dove attraverso Verga strinse rapporti di
amicizia con diversi scrittori, tra i quali Marco Praga,
Arrigo Boito, Giuseppe Giacosa e Giovanni Camerana e
maturò l’adesione alla narrativa naturalista. Questi
soggiorni, talvolta anche prolungati, lo aiutarono a evadere
dalla dorata ma angusta prigione di Catania, e
dall'ossessivo amore materno. Conobbe e strinse una profonda
amicizia anche con Luigi Albertini, redattore capo e
quindi direttore del "Corriere della Sera": con il
quotidiano milanese collaborò dal 1896 al 1910. Nel 1889
De Roberto pubblicò il romanzo Ermanno Raeli,
caratterizzato da elementi intimistici e autobiografici,
storia dei fallimenti di un uomo e del suo declino.
A questo periodo risalgono le
raccolte di novelle di ambientazione siciliana La sorte,
(1887), Documenti umani (1888), Processi verbali, dove portò agli estremi la nozione verista di fatto come
processo verbale giuridicamente inteso. Del 1890 è L’albero
della scienza dove si soffermò sulla narrativa
interiore e psicologica. Del 1891 è il romanzo L’illusione
(1891), il primo dedicato dallo scrittore al ciclo della
nobile famiglia Uzeda ("ciclo degli Uzeda"), al quale seguì I Viceré (1894), ritenuto il capolavoro di De
Roberto, e il postumo L'imperio. Nei due anni che
vanno dal 1892 al 1894 i lavori per l'ultimazione de I
Viceré furono intensi ed estenuanti. Scrisse innumerevoli
stesure del romanzo cercando una perfezione ossessiva. La
fatica di questo impegno aggravarono i disturbi nervosi che
avevano cominciato ad affliggerlo.
Alla pubblicazione dei I
Viceré per le edizioni Galli-Chiesa-Guindani di
Milano, l'accoglienza della critica fu contrastante e non
particolarmente favorevole; ancora nel 1939 si ricorda la
celebre «stroncatura» del romanzo a opera di Benedetto
Croce. Benché da parte dei critici ricevesse giudizi
negativi per i temi trattati (sentimentali ed erotici,
compiacimenti ed indagini autobiografiche, profili psicologici di personaggi del mondo
politico ed aristocratico), De Roberto continuò la sua
produzione letteraria, piazzandosi tra gli esponenti più
importanti del verismo.
Nel 1897 uscì il romanzo Spasimo, una sorta di giallo psicologico in
precedenza pubblicato a puntate sul Corriere della Sera. In questa parte
finale del secolo De Roberto intensificò la sua produzione
storico-scientifica, incentrata sul tema dell'amore: La morte
dell'amore (1892) a cui seguono L'amore. Fisiologia. Psicologia. Morale
(1895), Una pagina della storia dell'amore e Gli amori (1898),
Come si ama (1900).
Sono anni nei quali De Roberto
trovò l'amore, a seguito dell'incontro con la giovanissima
Ernesta Valle Ribera (Renata), la moglie
di un avvocato milanese che definì, in una lettera,
"bionda bambina mal maritata". Questa tenera e difficile
storia d'amore durò per circa un decennio, ostacolata
dalla gelosia del marito e dalla distanza con Catania: la
dispotica madre dello scrittore richiamò infatti il figlio
vicino a sé con sempre maggiore frequenza, anche a causa dei
sui crescenti problemi di salute. Lo stesso fece il fratello
Diego, che frattanto si era sposato con la cugina Luisa Moncada e che gli diede l'adorata nipotina Nennella.
Dal punto di vista della produzione letteraria, nel '98 De
Roberto pubblicò il saggio Leopardi e nel 1900 Il
colore del tempo, composto di articoli sia d'argomento
letterario sia sociologico. Per De Roberto era iniziata una fase di declino creativo,
affiancata da problemi fisici e psicologici sempre
più accentuati. I vincoli affettivi di Catania erano sempre
più forti. Lo scrittore passò quindi
sempre più tempo nella città, soggiornandovi per periodi
lunghi, allontanandosi dai circoli intellettuali di
Milano e cercando il calore di quella famiglia che non era
riuscito a costituirsi da sé. Trascorse le estati nella casa
di campagna di Zafferana Etnea, alle pendici del
vulcano.
Cercando di interrompere
questa inerzia, si trasferì a
Roma
nel 1908, frequentando soprattutto gli ambienti
parlamentari, traendo ispirazione da una massa di
notizie che sarebbero dovute servire a completare L'imperio,
terza e ultima parte della trilogia degli Uzeda (uscito nel
1926 come romanzo postumo). Intrecciò una nuova relazione, anche se meno
lunga e intensa della precedente, con un'altra signora sposata, Pia Vigada. Anche
durante il soggiorno a Roma restò, suo malgrado, quasi del
tutto succube della madre, alla quale indirizzava numerose
lettere, alternando nei suoi confronti accuse di
"schiavismo" e "ricatto morale" a dichiarazioni di affetto e
devozione. Nel 1911 pubblicò il saggio Le donne, i
cavalier... l'epilogo della serie di testi dedicati
all'amore, e La messa di nozze, una raccolta di
novelle. Tornò a Catania nel 1913 per assistere la madre
intransigente, che, anche a causa delle sue condizioni di
salute instabili, lo richiamava continuamente a Catania.
Anche l'amicizia con Luigi Albertini si affievolì con l'avvicinarsi del
primo conflitto mondiale: sulle prime, lo scrittore non condivise le
posizioni interventiste del "Corriere". Al termine del conflitto, che
lo videro poi schierato su posizioni nettamente interventiste, uscirono, fino
al '23, le Novelle di guerra; di particolare rilievo la novella La
cocotte e il racconto La paura.
Tra il 1920 e il 1926 De Roberto visse nella malinconica condizione
della figura letterariamente sopravvissuta alla propria epoca. Lavorò in
questi anni ad una "biografia critica" del suo amico Giovanni Verga, che
rimarrà incompiuta (Casa Verga e altri saggi verghiani), pubblicata postuma
nel 1964. Il 22 novembre del 1926 morì la madre novantenne di De Roberto,
assistita devotamente dal figlio. Visse un ultimo momento di gioia
assistendo al matrimonio della nipote Nennella.
La morte lo colse il 26 luglio 1927 all'età di 66 anni, in seguito a diversi
attacchi di flebite, sulla porta di casa. La sua scomparsa passò quasi
inosservata a livello nazionale, tranne il toccante necrologio del suo caro
amico Concetto Pettinato, sul quotidiano La Stampa del 6 agosto dello stesso
anno. A livello locale invece si assistette a una sequela di
manifestazioni enfatiche e roboanti, in particolare durante il funerale,
caratterizzate da un'esaltazione quasi folcloristica, del tutto distante
dalla personalità riservata dello scrittore, lontano per indole da ogni
sfoggio di esteriorità.
Il fascino esercitato da
Federico De Roberto su scrittori siciliani quali
Luigi
Pirandello, Giuseppe Tomasi di Lampedusa,
Leonardo Sciascia, Vincenzo Consolo,
Vitaliano Brancati è incontestabile. Ciononostante, la
critica alla sua opera è stata ingiustamente
tiepida. Solo oggi la vasta produzione letteraria di De
Roberto vive
un revival, dopo essere stata sottovalutata per
molti decenni.
Salvatore Silvano Nigro,
fra i più autorevoli studiosi della letteratura italiana,
professore a Yale, alla École supérieure di Parigi e alla
Scuola Normale di Pisa, ha scritto: "De Roberto è
stato uno scrittore dostoevskiano, ha scritto in realtà uno
dei più importanti romanzi della storia della letteratura
mondiale. Meriterebbe molta più attenzione."
In un recente articolo apparso sul quotidiano la Repubblica, la scrittrice
siciliana Stefania Auci, autrice del romanzo di successo "I Leoni
di Sicilia" scrive che i personaggi derobertiani sono quelli che i
lettori di ogni età dovrebbero amare e "salvare", perché "se noi siamo
quello che siamo oggi, lo dobbiamo anche a personaggi così come quelli che
vengono raccontati nei romanzi di De Roberto".
Anni fa l'altro scrittore catanese Alfio Caruso, così descrisse De
Roberto: "Sono trascorsi centoventi anni dalla stampa de I Viceré di
Federico De Roberto: ogni giorno che passa ha il merito di aumentare il
valore di questo straordinario romanzo. Continua a spiegare da dove proviene
gran parte dei mali, dei quali il Paese non riesce a liberarsi: la scarsa
autorevolezza dello Stato, le divisioni e le incomprensioni tra regioni del
Nord e regioni del Sud, perfino l'accanirsi (oggi così attuale) contro
l'unità nazionale. Nessuno dei famosi detti de Il Gattopardo vale la massima
del duca di Oragua: "Ora che l'Italia è fatta, dobbiamo fare gli affari
nostri".
Lo scrittore, sceneggiatore e drammaturgo siciliano Vitaliano Brancati
nel 1929, due anni dopo la morte di De Roberto, si laureò con una tesi sullo
scrittore siciliano che per lui avrebbe sempre incarnato, le virtù di rigore
intellettuale e morale del secolo precedente.
Lo studioso e professore di letteratura Natale Tedesco è stato uno
dei primi tra gli studiosi italiani ad aver messo in risalto la centralità
di Federico De Roberto nella letteratura italiana; fu anche il primo a
dedicargli una monografia, dal titolo esemplare, La norma del negativo,
dove scrisse che nell'opera derobertiana: "...cominciamo a sentire che non
c'è quello psicologismo che c'era canonico negli autori protagonisti.
Diventa una specie di realismo analitico, analisi del reale, investigazione
della realtà."
Analisi delle
opere di Federico De Roberto
Federico De Roberto ha presentato una serie di temi ricorrenti in tutta la
sua narrazione, primo fra tutti la Sicilia, come paesaggio quasi mitico
popolato da nobili e gente comune. Traendo i suoi personaggi dalla nobiltà
catanese, che vive una vita facile mentre esercita un potere
corrotto, De Roberto ha dato vita a una galleria di personaggi burattini.
Sono uomini e donne
schiacciati dalla loro mancanza di volontà che vivono in un mondo in cui i valori
tradizionali stanno attraversando una crisi devastante. Questa società
dissoluta e corrotta è già presente nei racconti raccolti in La sorte.
Nel racconto La disdetta, ad esempio, la principessa di Roccasciano
disperde la sua fortuna (e la sua vita) giocando a carte. È circondata da
personaggi grotteschi di tutte le estrazioni sociali, da preti avidi e
nobili squattrinati, parassiti sociali attraverso i quali dipinge il ritratto di
un mondo in rapida decadenza. Ma nemmeno i personaggi popolari sono immuni
dalla corruzione generale, come l'Alfio Balsamo protagonista di
"Ragazzinaccio", racconto in cui l'autore non mostra alcun sentimentalismo nella
rappresentazione della gente comune.
Gran parte della narrativa di De Roberto contiene riferimenti agli eventi
della sua stessa vita. In particolare, la frequente rappresentazione della
macchina come mostro è un tema che allude alla morte del padre di De
Roberto, Federico Senior, in un incidente ferroviario a Piacenza.
Un esame della corrispondenza inedita dell'autore, a partire dalle lettere
alle sue amanti Ernesta Valle Ribera, ribattezzata Renata
(perché "rinata" all'amore) o Nuccia (diminutivo di "femminuccia"), e Pia
Vigada, conferma la stretta connessione tra questo tragico evento e gli
elementi della sua opera. La perdita del padre è tematizzata, tra le altre
opere, nel racconto Il Paradiso Perduto, tratto da L'Albero della
Scienza. Una paura ossessiva del padre perduto tormenta lo scrittore
quanto la presenza soffocante della madre.
Catania, città patrizia e d'affari, è anche essa vista come una
mostruosità meccanica, molto lontana da quella amata Milano, dove
De Roberto aveva intessuto alcune vicende amorose. Dopo essere
stato costretto a lasciare la grande città del nord, per tornare a Catania,
Milano sarà spesso vista
attraverso la lente della nostalgia. Il suo inedito Giornale di Bordo
registra le tappe di un rapporto erotico a Milano che aveva consumato totalmente
le energie psichiche di De Roberto.
De Roberto è stato quello che si potrebbe definire un realista eretico, che
ha riempito le sue pagine di ossessioni e incubi, creando opere
abbastanza lontane dal presunto realismo, tradizionalmente attribuito alla
sua arte. Infatti, la sua scrittura particolarmente eclettica e sperimentale
era influenzata, non solo dai maestri della tradizione realista, da
Gustave Flaubert a Emile Zola, ma anche dalla musica di
Richard Wagner e dalla narrativa psicologica del suo amico, il
romanziere francese Paul Bourget. Il suo primo romanzo, Ermanno
Reali (1889), in gran parte autobiografico, mostra molti di questi
diversi aspetti.
Un tema molto caro all'autore, l'amore, viene trattato nell'Ermanno
Reali, dal punto di vista psicologico. Il
personaggio del romanzo è il giovane e raffinato Ermanno che cerca di sedurre la bella Massimiliana. La storia si conclude con la tragedia
che affliggerà Ermanno, tragedia come risultato dell'incapacità di vivere la vita. Ermanno rappresenta così il modello
dell'inetto, una figura destinata a godere di grande fortuna nella
narrazione decadente. Altri motivi decadenti si ritrovano in racconti come
Donato del Piano della collezione Documenti Umani (1888), che
dettaglia il travaglio psicologico di uno sconosciuto che si suicida.
La versatilità di De Roberto è evidente nella sua capacità di
produrre opere molto diverse tra loro. L'esempio più famoso di
questa versatilità lo si trova nelle due raccolte, Processi verbali
(1890) e L'Albero della scienza, entrambe realizzate nello stesso
anno ma rappresentative di stili completamente diversi. Nella prima prevale
un'influenza realistica, resa esplicita nella prefazione in cui l'autore
discute l'impersonalità dell'arte, un canone estetico derivato da
Giovanni Verga (secondo cui la voce dello scrittore scompare e i
personaggi si comportano come se avessero una vita propria). Impersonalità
che assume talvolta una struttura dialogica, simile a quella di un'opera teatrale.
In questa raccolta infatti De Roberto spinge alla sua estrema conseguenza la
ricerca dell'oggettività, con storie come Il rosario o I vecchi,
che assumono la forma di puro dialogo. Nei Processi Verbali, De
Roberto chiarisce che questa forma di realismo è incompatibile con l'analisi
psicologica dei personaggi, per i quali la presenza dello scrittore è
fondamentale.
L'analisi in presenza dello scrittore, è al contrario centrale ne L'Alberto della scienza,
una serie di studi psicologici sui temi delle ossessioni amorose ed erotiche
in cui De Roberto, oscillando tra Bourget e Gabriele D'Annunzio,
si avvicina al soggetto o alla femminilità osservando la complessità
sensuale, oltre che emotiva, delle donne. Adriana, pubblicato solo nel
1998, è un altro straordinario esempio di questo approccio, in cui il mondo
femminile viene descritto come esplosivo ed erotico, mentre quello maschile
è spesso descritto come grottesco e popolato da figure rachitiche.
I Viceré
Il capolavoro di De Roberto è il romanzo storico I Vicerè,
pubblicato a Milano nel 1894. Il romanzo racconta le vicissitudini degli Uzeda
di Francalanza, nobile famiglia catanese, ultimi discendenti di
un'antica e rapace nobiltà spagnola, giunta in Sicilia nel XV secolo.
Il romanzo è ambientato nel 1855, nel periodo della transizione dalla
dominazione borbonica all'Unità d'Italia, in cui sfiorito il
Risorgimento, ci si preoccupa solo di
come adattarsi alla nuova situazione politica. In realtà i cambiamenti
attesi si rivelano più illusioni che altro. Nella Sicilia ritratta da De
Roberto nella realtà non cambia mai nulla: la nobiltà continua a esercitare antichi
privilegi su chi sta sotto nella scala sociale e le vicende pubbliche e
private si intrecciano continuamente. Tra i tanti personaggi del romanzo
esplodono conflitti di potere e di ricchezza familiare, e il punto di
partenza dell'azione, è sempre il desiderio di dominare. Tutto si
aggiusta al cambiamento, e attraverso complesse
manovre politiche, la famiglia Uzeda potrà installarsi
all'interno del nuovo regime liberale.
Di lutto in lutto, di sventura in sventura, nel romanzo emerge gradualmente
il quadro pessimistico di una serie di sconvolgimenti familiari e storici
che, alla fine, non cambiano le millenarie strutture sociali della Sicilia.
Semplicemente, come dice un familiare che è diventato il primo deputato di
Catania al Parlamento italiano, il vecchio dominio basato sul denaro, sulla
violenza e sull'ignoranza delle masse è stato sostituito da uno basato sulla
prevaricazione e sulla finzione.
Tutti i personaggi hanno una forte ed eccentrica personalità, alimentata
dalla convinzione di essere superiori alle masse. La loro
superiorità fa eco e parodia della dottrina contemporanea del superuomo (dal
tedesco Übermensch), proposta da Friedrich Nietzsche, che De Roberto
conosceva bene, come dimostra un articolo pubblicato sul Corriere della
Serra il 25 febbraio 1899, (Il Superuomo, appunto) che entrò a far
parte della raccolta di saggi Il Colore del Tempo (1900).
Ispirato da misfatti e fatti reali, e in particolare dall'ascesa politica del
Marchese di San Giuliano, un illustre politico catanese il cui
opportunismo era stato denunciato da De Roberto in numerosi articoli del
1882 (e da cui è tratto il personaggio del Principe Consalvo), I
Viceré è un romanzo policentrico, dove si muove una moltitudine di
personaggi e si basa su più situazioni conflittuali che accadono
contemporaneamente. La tematica principale è la
rappresentazione di una realtà oscura, segnata da un lato dalla crisi dei
valori tradizionali, e dall'altro dall'incapacità del Risorgimento di
mantenere le sue promesse.
Lo scrittore proietta questa crisi nel nuovo secolo, ma cerca anche di
sfruttare la prospettiva della scienza per infondere dinamismo all'arte e
contrapporla alla condizione statica della tradizione, cerca insomma un po'
di speranza nel progresso. Il romanzo prevede, descrizioni cupe e
ambientazioni macabre, parodie viziose e anticlericalismo, elementi espressivi e ritratti ironici di un mondo privo di
ideali; sullo sfondo la storia scorre in modo lineare e lo scrittore segue le vicende
esistenziali dei numerosi personaggi.
Se, nella loro materia, sono un'estensione diretta de i Malavoglia e
Mastro Don Gesualdo (i due capolavori di Verga), I Viceré, per
ammissione del loro stesso autore, segnano una nuova tappa nell'evoluzione
del verismo italiano. "Vent'anni di psicologia e naturalismo hanno
esaurito molti argomenti", scrive; "il lettore che apre un libro per
leggerlo e non per sezionarlo e criticarlo, in tutti i romanzi moderni, e in
particolare nei cosiddetti romanzi psicologici, trova sempre più o meno la
stessa cosa, lo stesso tema, e se ne stanca; e dal suo punto di vista ha
ragione."
Al posto del punto di vista specificamente regionale di Verga, I Viceré
sostituiscono una prospettiva più ampia, in cui i problemi siciliani
acquisiscono una risonanza nazionale. Il piccolo mondo siciliano dei
Malavoglia e di Mastro Don Gesualdo assume così, sotto la penna
scrupolosa e severa di De Roberto, una dimensione veramente storica; ed è in
questo senso che si è potuto dire dei Viceré che è stato più un romanzo
storico che veristico.
De Roberto aveva progettato un seguito de "I Vicerè", un romanzo
ambientato a Roma che denunciava gli intrighi e l'opportunismo della
politica italiana di fine Ottocento, visti attraverso la vita e il sentimento
reazionario del Principe Consalvo (che a conclusione de I Vicerè viene
eletto in Parlamento). Tale romanzo, rimasto incompleto, fu pubblicato solo postumo nel 1929,con
il titolo L'Imperio.
I tentativi con il teatro
In un'intervista del 1894 a Ugo Ojetti pubblicata su Alla scoperta dei
letterati (1895), De Roberto aveva definito il teatro una forma d'arte
inferiore, ma la prospettiva di un pubblico più vasto lo portò a cimentarsi
nella composizione di alcune opere teatrali più tardi nella sua vita. Il suo
primo tentativo, un libretto per Giacomo Puccini, in collaborazione con Verga,
e basato su un'opera teatrale di quest'ultimo "La Lupa" (1896), fallì
(fu pubblicato nel 1919). Seguirono "La tormenta", la versione
teatrale del suo stesso romanzo "Spasimo" (1897) e altre opere
teatrali che però ebbero scarso successo.
di Massimo Serra per Informagiovani Italia
Necrologio di Concetto Pettinato, Parigi 6 agosto 1927
Non tocca a me scrivere la necrologia di Federico De Roberto, lo so.
Per l'amico dilettissimo non avrò potuto fare neppure questo. Mi sia
concesso almeno ricordarlo, col solito ritardo dei lontani, per quei pochi
nella cui memoria il suo nome non si risolve oggi, tanti anni dopo il suo
ritiro dal mondo, in una semplice firma un po' scolorita appiè di una pila
di romanzi e di novelle, ma evoca ancora l'immagine arguta di un uomo vivo e
preciso. Ce ne sono di certo, fra Milano e Torino e Bologna, di questi
memori compagni d'arme: voi, Marco Praga, e voi. Sabatino Lopez, lo sapete.
De Roberto era il letterato tipico dell'epoca umbertina e parlare di lui
vuol dire varcare il ponte dell'Eliso verso l'Italia modesta, seria e un po'
agghindata di Rovetta, di Botto, di Fogazzaro, di Emilio Treves, di Oliva,
di Verga, e vostra. Quella lì, e non un'altra. Matilde Serao, morta lo
stesso giorno di lui, apparteneva già a una zona diversa. La Serao non era
stata a Milano, e per essere di quell'Italia bisognava aver ricevuto il
battesimo del Cova e del salotto di donna Vittoria Cima, della Scala e dei
saloni del Giardino, di San Siro e di Stresa. De Roberto aveva grandeggiato
d'un colpo con un romanzo siciliano, ma il suo istinto e la sua educazione
lo attiravano irresistibilmente verso la capitale morale e, in un'epoca in
cui l'abitudine del viaggiare non era così grande come adesso "li sarebbe
parso impossibile vivere altrimenti che con un piede a Milano e uno a
Catania."
Il letterato e le dame
A Catania De Roberto salì in fama insieme per la sua
letteratura come per le sue cravatte. Allora parlo degli anni 1895-1905,
"usavano cravatte larghe di raso intorno agli alti solini militarmente insaldati, aperti
sula gola solo quanto bastava a permettere di respirare.
Sopra quel punto esigente la testa pighiava in compenso un'autorità e un
sussiego singolari. De Roberto sottolineava una e l'altro con la fissità del
monocolo perennemente incastrato nell'orbita, e l'eleganza mondana della
coda di rondine, del gilé bianco e dei pantaloni cascanti senza una grinza
sulla ghetta chiara, ma li temperava entrambi col duplice rabesco sorriso
motteggiatore e del fiore all'occhiello. Il fiore all'occhiello: tutta
un'epoca. Nulla, comunque, in quest'uomo di effeminato: le sue mani belle e
ben curate si ombravano, al contrario, di virili ciuffetti di peli sul dorso
dei polpastrelli, la sua voce un po' nasale aveva quell'inflessioni robuste
e calde che piacciono alle donne. Per Catania egli era un orizzonte, una
finestra sul mondo. A quei tempi la città non era la metà di oggi: chi
avesse letti I Viceré non aveva bisogno di cercar molto per
riconoscerla. Provincia: e tanto basta a dispetto di Rapisardi e di Capuana.
L'estate durava eterna, i pomeriggi non finivano mai, del massimo giornale
milanese non si vendevano se non poche copie e della cultura europea non
giungeva se non quanto ce ne stava negli articoli di Rustignac, che gli
avvocati leggevano ad alta voce nei salottini del "Gabinetto" la sera,
all'ora del gelato. Ma in quell'aridità assolata dove finivano di calcinarsi
le ultime fronde dell'autunno accademico e della primavera romantica, mezza
dozzina di figure riassumevano il resto dell'orbe, e davano ai cittadini che
le incontravano alla passeggiata l'illusione di comunicare con le capitali
lontane: la principessa Mirto, che usciva tutte le domeniche guidando
incipriata una coppia di cavalli bianchi come i suoi cappellini cabriolè di
vecchia e matta lionne del Secondo Impero; la marchesa Schininà, che si
faceva recare attorno sdraiata, dura dura, in mezzo a una domnont con un
cuscino di seta dietro le reni; il principe Manganelli, che portava a spasso
tutti i giorni, a piedi, il proprio tic cervico-occipitale, alzando fra
l'indice e il medio un sigaro d'Avana, la cui cenere pareva indispensabile
al buon mantenimento della sua barba da Nettuno, e pochi altri. Nel novero
di questi passeggiatori d'alto bordo, or si or no figurava lui, De
Roberto, dritto, lento, fiorito, un po' ironico: e le signore fatte
segno a quelle scappellate che parevano da grande di Spagna, ed erano
semplicemente da uomo educato, dell'educazione di allora, diventavano rosse
e si sentivano, un attimo, a mille miglia dal loro marciapiede di tiepida
lava: al Pincio al Valentino, sul Prater, ai Campi Elisi. Diventavano
rosse, naturalmente, perchè Federico De Roberto non era un figurino
dell'anno prima, come la principessa Mirto o il principe Manganelli, ma un
uomo giovane come loro, un uomo del giorno, e l'aria del Continente spirante
da lui la sapevano rinnovata tre o quattro volte l'anno, vale a dire sempre
fresca, sempre vient de paraître (una novità).
"Avanti, Ciocio!"
Ce n'era, insomma, abbastanza per giustificare il batticuore di uno scolaro
di prima o di seconda ginnasio nel tirare il campanello della sua porta, i
giorni di libera uscita. Le domestiche di casa De Roberto, manco a farlo
apposta, si tramandavano la strana tradizione di non rispondere all'appello
se non dopo un tempo immenso. Immenso, almeno, sembrava a me per l'ansietà;
e quando alla spia apparivano gli occhi e il naso arcigni della tardigrada,
ero bell'e in sudore. Ma si trattava di un brutto momento da passare, e poi
basta. Sin dall'anticamera, che nel vecchio casone del Crociferi, dove lo
conobbi io, riboccava di libri, di quadri e di fotografie con la dedica, mi
sentivo preso e trapiantato nel suo mondo, a Milano, in Europa. E la
distanza che ci divideva spariva d'un colpo, perchè di dietro a un uscio
socchiuso era sonata la sua voce chiara e allegra: — Avanti, Ciocio.
Come e perchè Federico De Roberto mi aspettasse, i giorni di libera uscita,
e perchè mi avesse ribattezzato, per suo uso, con quel nomignolo affettuoso
son cose che non interessano nessuno. Non voglio parlarvi di me ma di lui.
Egli era fatto così. Milano, la fama, le belle dame lontane avrebbero potuto
sciupargli l'anima, come la sciupano a tanti: a lui la lasciarono intatta.
Dietro la sua maschera brillante di scrittore mondano batteva il più candido
e fresco cuore che dovessi mai scoprire nel petto di un letterato. Per
questo, all'uscire dai mesi intensi di laggiù — le battaglie di tavolino,
l'editore, la collaborazione al corriere, gli amori, le cene — Catania, con
il suo sole e la sua solitudine, non lo annoiava. Egli disponeva di riserve
di indulgenza inesauribili. Sua madre lo ritrovava a ogni ritorno altrettanto
tenero, gli amici altrettanto fedele, chi era amico suo, lo era per la vita.
Aveva anche la vena paterna e gli occorreva, per gioco, un figlioccio.
Scelse me. Avrebbe senza dubbio potuto scegliere peggio: ma gliene detti
povero Federico, delle delusioni!
Passeggiate... al rosolio
Le prime cose belle intravvedute a Catania, me le fece gustare lui. Per
allungarmi la gioia delle "escursioni" che avremo fatte insieme, mi mandava
a casa in precedenza un programma redatto e calligrafato in forma
umoristica, con l'ordine delle tappe. L'ultima tappa s' intitolava
invariabilmente: "Pioggia d'oro", che era il nome di un rosolio insegnatomi
da lui, il quale serviva a mandar giù delle paste alla crema che per verità
sarebbero andate giù anche da sole: ma mi sarei ben guardato dal
contraddirlo su un punto su cui mi sentivo tanto disposto a dargli ragione.
Non so se nel versarmi tanta pioggia d'oro egli pensasse, malizioso qual'era, di esser Giove, e io Danae, e ne augurasse la nascita di qualche
cavallo alato: il certo è che la mia fanciullesca versatilità, che mi faceva
perpetuamente ondeggiare fra un'arte e l'altra e scoprirmi oggi la vocazione
della pittura, domani quella delle lettere e domani l'altro quella della
musica, lo teneva in continuo allarme, essendo inevitabile che la
responsabilità della riuscita del "figlioccio" gravasse sullo «ziamo».
Quando, non contento di studiare il pianoforte, volli mettermi anche al
violino, gli cascarono le braccia e disse, a guisa di addio: - Uomo del
Rinascimento!
Per vendicansi mi fece girare da solo l'intera Catania, da casa sua al
Convento dei Benedettini, e di qui allo studio dell'incisore Di Bartolo,
servendosi di ingegnosi biglietti di scuse e di invito, scarabocchiati a
matita e disseminati sul mio percorso. Nascosto dietro le cantonate stava
intanto a godersi il mio furore. Ma era un primo d'aprile e non potei
negargli che la vendetta fosse legittima.
Il tormento dello scrittore
Un anno andai a raggiungerlo a Milano. Era l'estate del 1898, e da per tutto
non si parlava se non delle giornate tragiche del maggio precedente. Mi
condusse sul corso Venezia a vedere i buchi delle pallottole sulle colonne
di Palazzo Saporiti: i primi buchi di pallottole che si vedessero in Italia
dopo la "breccia di Porta Pia" Lo spettacolo non mi colpì eccessivamente.
Più mi colpì la mattina dopo il trovar lui, De Roberto, nel suo
appartamentino di piazza Venezia, all'ultimo piano del palazzo, dov'era
forse e forse è ancora il Puntigam, disteso sul letto in disordine e intento
a divorare accigliato le pagine di un romanzo che sapeva ancora di stampa.
Era mezzogiorno e non accennava affatto a ricordarsi di avermi invitato a
colazione. Poi fu la mezza, poi l'una. Se ne ricordò, quando Dio
volle, solo dopo che i suoi occhi ebbero letto in fondo alla pagina la
parola «fine». "È un romanzo uscito ieri" — mi disse confuso, togliendosi
il piega baffi, di cui nella foga della lettura si era dimenticato. — "Oggi,
capisci, potrebbe capitarmi di incontrarne l'autore". Giacché egli era di
quegli ingenui che non concepiscono la possibilità di parlare di un libro
senza averlo letto dalla prima all'ultima riga. La qualità che apprezzava di
più in un'artista era certamente lo scrupolo, Maupassant, Flaubert lo
sbalordivano soprattutto come due eroi di quella incessante battaglia interiore senza
della quale non nasce arte. Il famoso carteggio dell'autore di Madame Bovary all'autore di Boule de suif "Mettiti davanti a
quel caminetto e descrivilo col minor numero di parole possibile, ma in modo
che non si possa confonderlo con nessun altro caminetto", costituiva per
lui il non plus ultra dell'arte dello scrivere. Quanti problemi, ad
ogni frase. La giustezza della visione, la sobrietà delle immagini, la
proprietà del linguaggio. Il linguaggio, soprattutto; l'italiano, scrivere
in italiano, liberarsi dalle forme dialettali, evitare il francesismo, la
ripetizione, l'allitterazione: ecco il suo travaglio continuo. Essere
partito dai Vicerè ed accorgersi a un certo punto che "quello non è
italiano", che il regionalismo letterario ha fatto il suo tempo, che bisogna
lavorare a dotare l'Italia di un romanzo che abbia corso a Milano come a
Catania, che porti la letteratura nazionale al grado di dignità della
letteratura francese; quale dramma e quale cimento! Gli scrittori della
nuova generazione non possono più rendersi adeguato conto di quel che
significasse per un artista della fine dell'Ottocento il creare un romanzo
italiano in un'Italia che non c'era ancora. De Roberto, persuaso che
D'Annunzio non avesse risolto il problema, se non per proprio uso e consumo,
si tormentava nella ricerca della formula salvatrice.
Con Verga e Boito
Con tutta la sua ammirazione per Verga, foderata di un'amicizia sincera ed
intima, la serena indifferenza del l'autore dei Malavoglia verso
quanto formava oggetto della sua passione non era lontana, a quell'epoca,
dallo scandalizzarlo e un po' dall'adirarlo. Metteva conto di esser Verga per
tenersi pago di fare il romanzo siciliano, della letteratura à coté,
insomma, infischiandosi — egli diceva per verità, "strafottendosi" — del
massimo, dell'unico problema letterario nazionale, della vita o della morte
della letteratura italiana? I suoi manoscritti recavano indissimulabili le
tracce della incessante battaglia di tavolino: nata linda e liscia, colta
in punta di penna da quella sua elegante scrittura minuta, tonda e grassa
che si riconosceva fra mille, la pagina non tardava a coprirsi di
cancellature, di pentimenti, di dubbi. Diffidava della facilità, perché
facilità significava cedere alle mille imboscate del pittoresco solecismo
parlato, mentre quel che voleva lui era un'arte corretta e nobile, un'arte
di garbo signorile, esente così di sciatteria come di pacchiana gonfiezza;
un'arte che gli somigliasse. Spasimo gli era il più caro dei suoi
libri, più caro dei Virerè, perché rappresentava a suo giudizio la
prima prova che la strada prescelta era la buona. E degli amici milanesi il
più caro di tutti gli era Boito, appunto perché egli pure divorato
dal rovello della perfezione, perché egli pure internamente combattuto,
perchè egli pure inchiodato da anni davanti a problemi ed opere che lo
superavano, perchè egli pure entrato in arte con un capolavoro — il
Mefistofele non era i suoi Viceré? — e da quel capolavoro oppresso
e incatenato l'intera vita.
Un giorno — ma eran già passati degli anni e io cominciavo ormai a
scombiccherar prose su pei giornali — mi disse, tra il serio e il faceto: —
Vedi, se non fossi io e mi toccasse scegliere di barattare il mio nome con
un altro, vorrei chiamarmi Boito. E, ricordandosi del buon tempo di Milano,
recitava, con un lampo di canzonatura nella pupilla, una epistola in versi
dell'autore del futuro Nerone all'architetto d'Andrade, rimastagli
nella memoria:
Andrai d'Andrade
Sul verde colle.
Vedrai le strade,
Del patrio suol...
Il sacrificio
Ma qui i suoi occhi si velavano, e bisognava cambiar discorso. Dal 1904 una
malattia viscerale, la solita nemica degli uomini di tavolino, aveva
cominciato a minarlo. Affrontata dapprima coraggiosamente col fermo
proposito di guarire, a poco a poco l'infermità, senza attingere fasi acute
né mettere i suoi giorni in pericolo, logorò subdola le radici della sua
energia Un viaggio in Svizzera per consultare un celebre specialista non gli
fruttò se non un accesso di entusiasmo per i Durer di Basilea: la malattia
riprese con alti e bassi non appena tornato a Catania, alimentata dalla
lunghezza delle estati, e si aggravò lentamente di una nevrastenia pacata e
sommessa, ma invincibile. Avrebbe, forse, potuto salvarsi abbandonando
l'isola troppo calda per lui, piantando le tende in Svizzera o in Alta
Italia: ma l'impossibilità di condur seco la madre diletta e a lui
attaccatissima, altri legami di famiglia, ragioni fors'anche di bilancio,
gli tolsero sempre il coraggio dell'egoismo. Rimase, e si immolò, purché
nessuno avesse a soffrire o a sacrificarsi per lui, Tentò difendersi alla
meno peggio passando la stagione più calda a mezza costa dell'Etna, tra le
vigne e i castagneti di Zafferana. E li ebbe ancora, povero Federico,
qualche mese sereno, tratto tratto, nella piccola cerchia degli amici
catanesi che lo onoravano e lo amavano, quasi a ripagarlo del precoce oblio
degli amici di Milano. Ma il suo volto aristocratico si era fatto cereo sul
collo scarnito, e gli abiti gli pendevano addosso. Che cosa sia stata per
lui, uomo di tutte le eleganze, artista delicato, cresciuto nella stretta
disciplina borghese del tardo Ottocento, quella decadenza, lo potemmo
indovinare tutti, a Catania; ma a lui non sfuggì un lamento. La guerra, il
ribasso delle sue modeste rendite, avanzo di un patrimonio duramente
provato, lo costrinsero a economie severe. Lo vedemmo portare attorno
pazientemente le sue vecchie code di rondine e le sue ghette dei bei tempi;
e pareva, nella città ingrandita e ormai tumultuosa di traffici, vibrante di
affari, pingue di nuove ricchezze, un sopravvissuto. Ma tanta era la dignità
del gesto e tanta la chiara limpidezza dael'animo, che mai Catania lo ebbe
più caro di quando poté, essa che non aveva saputo dargli, in passato, nè
salotti letterari, nè cenacoli, nè editori, farsi complice del suo supremo
scrupolo letterario: nascondersi, fingersi già scomparso, affinché nessuno
di "quelli" di Milano potesse sospettare un momento che il De Roberto di
Ermanno Raeli e di Spasimo, il De Roberto del Cova e di
casa Cima, perduto di vista da tanto tempo, vivesse ancora e fosse
ridotto così. I suoi ultimi articoli, che erano quelli di un uomo ormai
diviso dal mondo, certo, e tendente l'orecchio verso echi svaniti, ma
recavano pur sempre l'impronta della sua bella cultura e della sua immensa
probità di scrittore, uscirono su un giornale siciliano che non passa lo
Stretto e rispettarono l'incognito. I giornali di Milano si erano
dimenticati da un pezzo di questo collaboratore di Torelli Viollier e di
Domenico Oliva, che Albertini aveva eliminato senza rammarico. Mi parrebbe
di violare il suo pudore squisito richiamando più diffusamente la loro
attenzione su una fine che, se avesse potuto egli avrebbe certamente
preferito tener loro del tutto celata, affinché non potessero mai
rimproverargli di aver voluto morire due volte.
Opere di Federico
De Roberto
Monografie
Leopardi, Milano, Fratelli Treves, 1898. (saggi, Monografia critica).
Casa Verga e altri saggi verghiani, Firenze, Le Monnier, 1964.
(pubblicata postuma).
Ciclo degli Uzeda
L'illusione, Romanzo, Milano, Libreria ed. Galli, 1891.

I Viceré, Romanzo, Milano, Libreria editrice Galli , 1894.

L'Imperio. Romanzo, Milano, Mondadori, 1929. Pubblicato postumo.

Raccolte di novelle
La sorte, Catania, Giannotta, 1887. II edizione: Milano, Libreria
editrice Galli , 1892; III edizione: Milano, Treves, 1910; Milano, Treves,
1919.
Documenti umani, Milano, Fratelli Treves, 1888

L'albero della scienza, Milano, Libreria editrice Galli , 1890.
Processi verbali, Milano, Libreria editrice Galli , 1890.
Ironie. Novelle, Milano, Fratelli Treves, 1920.
Ermanno Raeli. Racconto, Milano, Libreria editrice Galli , 1889; Milano:
Baldini, Castoldi & C., 1902;
La morte dell'amore, Napoli, Pierro, 1892.
L'amore. Fisiologia, psicologia, morale, Milano, Libreria editrice
Galli , 1895. (saggio)
Spasimo, Milano, Libreria editrice Galli , 1897. (giallo pubblicato a
puntate sul Corriere della Sera).

Gli amori, Milano, Libreria editrice Galli , 1898.

Una pagina della storia dell'amore, Milano, Fratelli Treves, 1898.
Il colore del tempo, Milano-Palermo, Sandron, 1900.
Come si ama, Torino, Roux e Viarengo, 1900.
L'arte, Torino, Bocca, 1901.

Catania, Bergamo, Istituto italiano d'arti grafiche, 1907.
Esposizione di Catania, 1907. Albo illustrato redatto sotto direzione
di F. De Roberto, Catania, Galatola, 1908.
Randazzo e la Valle dell'Alcantara, Bergamo, Istituto italiano d'arti
grafiche, 1909.
La messa di nozze; Un sogno; La bella morte, Milano, Fratelli Treves,
1911.

Le donne, i cavalier', Milano, Fratelli Treves, 1913.
Al rombo del cannone, Milano, Fratelli Treves, 1919.

La «Cocotte», racconti, Milano, Vitagliano, 1920.
All'ombra dell'olivo, Milano, Fratelli Treves, 1920.
La paura, del 1921, in cui fornì una rappresentazione tragicamente
realistica della vita in trincea.
Ciuri di strata, Prefazione a Francesco Guglielmino, Catania,
Battiato, 1922.
L'amante dell'amore. Novelle, prefazione a Ottavio Profeta, Milano,
Corbaccio, 1928.
Come Malta divenne inglese, Roma, La nuova antologia, 1940.
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