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Luigi Capuana - Biografia e Opere
di Massimo Serra
Luigi Capuana
è stato uno scrittore, poeta e critico letterario
italiano, tra i più importanti del XIX secolo, ma
pochi sanno che fu anche un talentuoso fotografo.
Passato agli annali della storia della letteratura
come uno dei massimi teorici del
Verismo ha avuto la particolarità,
non scontata ai suoi tempi, di mostrarsi attento
alla scrittura femminile italiana e ciò costituisce
senz'altro un indizio di sensibilità e apertura
mentale. Il Verismo, movimento letterario di fine
Ottocento, s'interessava alla realtà sociale del
tempo, soprattutto situazioni locali fatte di
povertà, sfruttamento, ingiustizia. |
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Famosi rappresentanti del Verismo, oltre a Capuana,
sono il suo amico
Giovanni Verga e il meno noto
Federico De Roberto.
Tra le donne,
Matilde Serao e
Maria Messina. I personaggi
delle loro storie sono contadini, pescatori,
minatori, donne senza la minima autonomia, gente che
fatica a guadagnarsi il cibo quotidiano, descritta
con minuzia e acume da scrittori interessati a
raccontare la verità della dura vita.
Capuana e Verga amavano la letteratura e la fotografia ed
è un peccato che le loro fotografie siano poco note, perché ci restituiscono un’immagine
del Verismo italiano più variegata e complessa di quanto non riesca a fare la sola
letteratura. Se Capuana fu superato da Verga in popolarità
come esponente del Verismo, egli superò l'amico/rivale nella
fotografia, soprattutto nella ritrattistica. Le sue immagini sono conservate nella
Biblioteca
del Museo di Mineo, suo paese natale. Capuana espresse
al massimo il suo talento come ritrattista, soprattutto nei ritratti femminili.
Famoso è uno straordinario scatto del giovane Luigi Pirandello.
Di Pirandello esistono molti altri ritratti ma quello di
Capuana è tra quelli più amati e noti e rappresenta un
Pirandello moderno, che sembra quasi un contemporaneo,
inquieto e tormentato.
Capuana insomma, fuori dalle aule scolastiche ci appare
come un personaggio complesso, versatile, aperto alle
innovazioni, coraggioso, capace di muoversi liberamente
dalla poesia alla critica militante, dalle novelle al
saggio, interessandosi di teatro dialettale, linguistica,
fotografia e occultismo. A proposito di occultismo, la foto più stravagante di Capuana è il suo
autoritratto in posa "da morto" intitolato "Autoritratto
profetico".
Una narrativa speciale quella di Capuana, attratta dal meraviglioso,
dal surreale,
concentrata nell'osservazione psicologica,
aperta allo spiritismo e all'innovazione. Poi c'è un altro
Capuana, il narratore di fiabe, l'uomo a cui piaceva
recuperare la tradizione popolare. Le opere per le quali è
più famoso sono i romanzi come Il Marchese di Roccaverdina
(1902), Giacinta (1879), le numerose
fiabe e gli Studi sulla letteratura contemporanea
(1880).
Nato a Mineo,
Catania, in Sicilia, il 27 maggio
1839, Luigi Capuana era figlio di ricchi proprietari terrieri
e ricevette un'educazione
classica, frequentando il Reale Collegio di Bronte a
12 anni. Ebbe un'infanzia serena anche se, per motivi di
salute, non completò mai gli studi nell'istituzione
scolastica. Continuò gli studi come autodidatta, iscrivendosi
da grande alla Facoltà di
Giurisprudenza di Catania nel 1857.
Si avvicinò progressivamente al mondo dei letterati
locali e abbandonati gli
studi giuridici, divenne segretario del comitato
clandestino insurrezionale garibaldino locale, e narrò le
vicende di Garibaldi in un dramma in versi (1861,
editore Galatola). Il giovane Capuana difatti si fece
coinvolgere notevolmente dal clima politico di quegli anni e
appoggiò Garibaldi, abbracciando l'ideale patriottico
risorgimentale e sognando l'unità italiana.
Successivamente dopo il 1861 intensificò la sua attività
letteraria componendo i sonetti di Vanitas vanitatum (1863)
e interessandosi al folklore siciliano.
Nel 1864 Capuana si stabilì a
Firenze avviandosi nel pieno della carriera
letteraria. La città all'epoca ospitava alcuni tra i più importanti
salotti culturali d'Italia, e fu qui che ebbe la
possibilità di conoscere alcuni dei letterati dell'epoca,
tra cui il conterraneo
Giovanni Verga. Sempre qui, ebbe modo di
appassionarsi alle commedie di Augier, Sardou e di Dumas,
che poi recensì per il quotidiano locale La Nazione, con
il quale strinse una collaborazione come critico
teatrale. La famiglia difatti gli inviava una somma
mensilmente ma per migliorare la sua situazione economica,
lavorò come cronista teatrale. In questo periodo Capuana
scrisse Il dottor Cymbalus, 1867, ispirandosi
a Dumas.
Soggiornò a lungo a Firenze, ma anche a
Milano e a
Roma, fino a quando non ritornò in Sicilia. Nella città natale rientrò nel
1868 per problemi di salute. Ci restò per sette lunghi anni,
anche dopo il decesso del padre. Diventò ispettore scolastico
nel 1871 e
successivamente sindaco di Mineo nel 1872. Come
ispettore scolastico si appassionò ai problemi
dell'istruzione obbligatoria e come sindaco s'impegnò con
molta energia nell'amministrazione pubblica.
In Sicilia, ebbe una lunga relazione di venti anni con la
domestica di famiglia, una giovane donna di umile estrazione
sociale, Giuseppina Sansone, dalla quale ebbe diversi
figli, che tuttavia non vennero mai riconosciuti e che
infatti furono messi tutti in un orfanotrofio di
Caltagirone (la donna andò quindi in sposa ad un altro
uomo nel 1892).
Nel 1877, seguendo l'esempio del Verga, Capuana lasciò
nuovamente la Sicilia per andare a Milano, città in
fermento dove si respirava l'atmosfera culturale più viva
della nuova Italia. È questo il periodo milanese dello
scrittore (1877-81). Lavoratore instancabile, iniziò a
collaborare come critico letterario e teatrale al
Corriere della Sera. Nel 1872 scrisse il Teatro
italiano contemporaneo.
A contatto con
le nuove istanze letterarie del tempo, la Scapigliatura e le
correnti dell'avanguardia post-romantica, Capuana ampliò
sempre più il suo orizzonte creativo. Pur affermando la
necessità che l'arte e la letteratura non siano estranee
alla società Capuna appoggiò la necessità di un rinnovamento
formale. Insieme all'amico Giovanni Verga, divenne una delle
figure di spicco della giovane letteratura italiana.
Il suo primo libro di narrativa
è del 1877, Profili di donne, a cui seguì, nel 1878,
Giacinta, un romanzo tipicamente verista che fu rappresentato
in atti, con
un buon successo, per la prima volta al Teatro Sannazaro
di Napoli, nel 1888. Ambedue i romanzi prendono
spunto dalle influenze di scrittori francesi come Dumas
figlio e Zola. Da entusiasta divulgatore del
naturalismo francese quale era, Capuana raccolse diversi
articoli letterari nei volumi Studi sulla letteratura
contemporanea (1890-1892).
Nel 1882 andò
a Roma è gli fu affidata la direzione del celebre giornale
Il Fanfulla della domenica. Al giornale restò circa
due anni e fu un periodo denso di lavoro e di incontri
interessanti con personaggi importanti della sua epoca, in
particolare Edoardo Scarfoglio, Matilde Serao e Gabriele
D'Annunzio.
Dal 1884
ritornò a Mineo, dove nel 1885 venne rieletto sindaco. In
questo periodo lavorò alacremente alle novelle, dividendosi
tra la trattazione delle passioni borghesi e l'indagine
realistica nell'ambiente paesano (Le paesane, del
1894 e le Nuove paesane del 1898). In questo campo,
spinto dal suo amore per il folklore e la poesia popolare,
si dedicò efficacemente alla scrittura di fiabe tra le quali
C’era una volta (1882), Il Raccontafiabe
(1894), Fanciulli allegri
(1894), Il drago, novelle, raccontini e altri scritti per
fanciulli (1895), Scurpiddu, racconto illustrato per
ragazzi (1898), Re Bracaleone (1905),
Come Berto divenne buono (1906); ci sono poi
Profumo (1891), Le appassionate (1893), Le
paesane (1894), e 'Ismi' contemporanei (1898), ma
anche opere come Spera di Sole (commedia per burattini),
"Cenerentola" (1893) o ancora La Sicilia e il
brigantaggio (1892), Mondo occulto (1896), Nel
paese della zagara (1903), e numerosi testi didattici
come I fatti principali della storia d'Italia,
raccontati da uno zio ai nipoti scolari IV classe elementare
(1904) e molti, molti altri. Nei primi anni del Novecento,
inoltre, contribuì al genere fantascientifico con
diversi altri romanzi, tra cui Nell'isola degli automi
(1906), Nel regno delle scimmie, Volando
e La città sotterranea (1908),
L'acciaio vivente (1913).
Nel 1900 divenne docente di letteratura italiana a Roma.
Qualche anno prima ebbe modo di conosce
Luigi Pirandello,
poi suo collega, ma anche
Gabriele D'Annunzio ed
Emile Zola. Si trasferì nuovamente in Sicilia nel 1902,
diventando docente presso l'Università
di Catania in lessicografia e stilistica. Sposò la giovane scrittrice umbra
Adelaide Bernardini (nota con lo pseudonimo di
Chimera), conosciuta nel 1895 a Roma (Verga gli fu testimone di
nozze). Lavorò all’ultimo romanzo, Delitto ideale (1902), ad
altre novelle ed alla produzione teatrale dialettale,
ottenendo notevoli consensi con il dramma Malia e con
le commedie Lu cavaleri Pidagnu (1909) e Lu
paraninfu (1914). Con Adelaide visse gli ultimi anni della vita in Sicilia,
dove morì il 29 novembre 1915. Capuana appoggiò sempre
l'attività di scrittrice della moglie. Le sue spoglie
riposano nel cimitero di Mineo, sua città natale.
Intervista di
Ugo Ojetti a Luigi Capuana
Ojetti è stato un letterato e critico d'arte
molto importante nella prima metà del XX secolo.
Roma, ottobre del ’94.
Quelli che lo conoscono da molto tempo mi dicono che venti
anni fa egli aveva il medesimo aspetto: calvo, coi baffi
bianchi non folti, roseo, un poco obeso, con una espressione
dolce di lavoratore serio e solitario. Le molte battaglie
anche maligne, contro lui e contro l’opera sua combattute
non hanno mutato il suo sorriso e il suo colorito. Egli
abita nel cuore della vecchia Roma, a via in Arcione, alle
falde del Quirinale, e lavora in una stanza grande, ariosa,
con quattro finestre e con molti eleganti scaffali dove
molti libri, tutti sotto una bella veste di pergamena
candida, sono allineati.
In quella camera egli mi ricevette con la cordialità
consueta; le quattro finestre erano aperte sul mite cielo
d’ottobre e davano a quella stanza l’ampiezza di una
veranda; dall’architrave di una finestra pendeva una gabbia
d’uccelli, e nessun romore saliva giù dalla vecchia strada
stretta. Una pace grande ottima, propiziatrice al lavoro. Da
una porta aperta intravedevo in una stanza contigua tutto un
armamentario fotografico: macchine diverse, bacinelle,
scatole di lastre, bocce, boccette.
Così pensai che Luigi Capuana in quella quiete non potesse
essere che un ottimista, e non mi ingannai.
— Quelli che vivono lontani da noi che scriviamo hanno tutte
le ragioni per piangere su la misera sorte della nostra
letteratura, che in fondo il pubblico nostro scarso di
lettori giudica più che dai libri letti, da quel che si dice
dei libri e specialmente da quel che se ne dice sui
giornali. Ma guardi un po’ i tempi di Sommaruga! Quanti
belli ingegni son fioriti allora e come il pubblico li ha
accolti e li ha sentiti! Adesso, silenzio mortale. E pure
gli stessi che allora menavano gran romor di fama con opere
minori, scrivono ancora e scrivono meglio. Le do un esempio
solo: Gabriele d’Annunzio, che nella poesia e nel romanzo ha
tanto progredito da essere un altro uomo. I giornali
politici che soli sono letti, si astengono dal parlare di
letteratura come si asterrebbero da un crimine; e, quando ci
dicono su qualche sciocchezza, si atteggiano a pessimisti
pel presente e pel futuro e anche pel passato. Per due
ragioni ciò avviene: perché i giornalisti non leggono mai
nulla di quel che noi scriviamo e ci considerano inutili
lavoratori; e perchè essi, abituati a veder nero in
politica, vogliono veder nero anche in letteratura. È molto
comodo rispondere: «Se ci occupassimo d’arte, il pubblico si
stancherebbe.» Già ciò è falso, perchè bisognerebbe trovare
il modo per parlare col pubblico di certe cose; e poi quel
ragionamento è un giro vizioso, perchè il pubblico si
allontana dall’arte appunto perchè essi non ne parlano,
trattano il pubblico da bimbo, per strenna gli donano dei
giocattoli e dei gingilli invece di donargli dei belli e
buoni e dilettevoli libri, e il pubblico docile rimane
bimbo. Ci portano l’esempio della Francia, ma io per bacco,
ho visto tempo fa sul Temps parecchi articoli di sopra Hegel
e gli hegeliani! Così noi produciamo meno. È naturale. Quei
pochi pazzi che si occupano di letteratura che guadagnano"Danari". Treves che è tra i più ricchi editori (se pure non è
il più ricco) dà al massimo duemila lire per un grosso
romanzo di un autore già ben noto. Gloria? Mi rammento che
una volta Telemaco Signorini in una gita presso Firenze
presentò a signore toscane Neri Tanfucio, credendo di farle
felici e di udire subito esclamazioni di ammirazione e di
complimento; siccome esse tacevano quasi mostrando di udir
quel nome la prima volta, il Signorini ripetè il nome
traducendolo in Renato Fucini; e le signore aprivano gli
occhi meravigliate che quel signore ignoto avesse due nomi.
E proprio a quell’anno il Fucini era salito in fama pei suoi
sonetti in dialetto pisano. Insomma, lavora, lavora e
lavora, si finisce per fare, come faccio io all’età mia, la
vita da studente, in due camere al terzo piano, tra i libri.
E pure si seguita a lavorare, e, come le dicevo, se noi
produciamo meno, produciamo meglio.
Io non credo che tra i romanzi di Emilio Zola ce ne sia uno
che valga, per verità e per impersonalità, I Malavoglia o
Mastro don Gesualdo.
— E i giornali letterarii?
— Quali? Que’ pochi che vivono stentatamente, fanno
l’articoletto o amichevole o maligno all’uscir del libro, e
poi... zitti! Mai uno studio largo, complesso, intero,
comparato.
— Dunque ella crede che il romanzo italiano sia sopra una
via ascendente?
— Certamente. In quest’anno abbiamo avuto dei buoni libri.
Ne cito tre: L’Anima di Enrico Butti, il Trionfo di Gabriele
d’Annunzio, I Viceré di Federico de Roberto.
Tre libri saldi, nuovi, vitali.
— Di Gabriele d’Annunzio ella che pensa?
— Penso che è un grande poeta, ma che nel romanzo, per ora,
è troppo uniforme. Il Piacere, L’Innocente, Il Trionfo
mostrano tre faccie d’una stessa persona. Solo nel Giovanni
Episcopo egli s’è innovato, ma ci si sente troppo
Dostojewski e Krotkai. Del resto l’osservazione psichica, l’introispezione,
come egli dice, diviene in lui esagerata, spesso ostentata e
inutile allo svolgimento del romanzo. Ma il d’Annunzio è
giovane, ha grandissimo ingegno e non ha ancóra detto la sua
ultima parola.
— Ella con molta fortuna ha scritto parecchi libri per
bimbi. Mi dica qualche caso della letteratura infantile.
— Le prime mie fiabe furono scritte così. Ero a Mineo, in
Sicilia, nella casa paterna, e i miei nipotini (che adesso
sono grandi e grossi) una sera mi chiesero una favola. La
mattina dopo ne avevo scritto una: e così via, una per
giorno, per dodici giorni. Le riunii in un volume del
Treves, riédito poi dal Paggi-Bemporad di Firenze. Vidi che
la letteratura infantile era davvero la più remunerativa, e
anche questo mi incitò a fare un secondo volume di fiabe, il
Racconta-fiabe. Ultimamente poi son venuto pubblicando sul
mio giornaletto La Cenerentola parecchi racconti, che non
son fiabe, ma presentano semplicemente osservazioni di
psicologia infantile, le quali a volta possono interessare
anche gli adulti. Questi racconti radunerò in un volume del
Voghera, col titolo Il Drago.
— Ella ha un romanzo già da molti anni annunciato.
— Si, Il marchese di Roccaverdina. Ma del concetto primitivo
ormai resta solo il titolo, che tutto è mutato. In esso
cercherò di contemperare i due metodi del naturalismo
fisiologico e psicologico. È la vita di un nobile siciliano
che commette un delitto e resta impunito.
— Mi dica qualche cosa sul teatro, che ella ha tentato con
la Giacinta e con Malia.
— Qui mi pare che il progresso sia anche più potente. Ma i
giovani sono troppo preoccupati o da una tesi o dall’effetto
di una singola scena, cui tutto il resto del dramma è
sottomesso. Bisogna, scrivendo pel teatro, prescindere
dall’applauso. Esso verrà se verrà. Mutate le qualità
estrinseche, bisogna scrivere un dramma come si scriverebbe
un romanzo, liberamente, senza la tesi che monchi la verità,
senza l’ossessione di una sola scena bella che forse avrà
gli applausi.
— Il Fogazzaro, la Serao e altri mi hanno parlato con
entusiasmo che par sincero, di un misticismo che va
pervadendo l’arte e la letteratura odierna come un fluido.
Molti danno a questo fenomeno nuovissimo una causa
estrinseca, ciò è «gli abusi di vero» fatti dal naturalismo.
Ella che col Verga è stato a capo del movimento verista in
Italia, che risponde?
— Rispondo accettando anche l’opera dei neomistici. È
fatale. Io, vede, da studente ero ateo, adesso sono un
credente. La scienza non è bastata, e in ogni modo appaga
soltanto l’intelletto, e non sempre. Alla religione adesso
che si può sostituire? Il dovere? Parola incerta, senza
sanzione. E della religione la forma maggiore è certo il
cattolicesimo. Io studio volentieri gli scrittori di
dottrine religiose. Vede là? Swedenborg, Vacherot, Lefèvre,
Tolstoi... Mi occupo anche di spiritismo e tanto da formarmi
intorno a questi fenomeni una convinzione spassionata.
Questi che adesso parlano di indurre nell’arte nostra il
misticismo sono sinceri? Io ne conosco uno, Giulio Salvadori.
Egli è convinto e convince. Rammento una nostra convinzione
viva di affetto una sera su la sua terrazza, larga, aperta
su la vista di Roma... E l’arguto novellatore parlò, parlò a
lungo di quell’amico, di quel colloquio, di quel sentimento
nuovo... Che miracolo è questo che stupisce i migliori e i
più forti di noi, e fuor dalla luce li induce a guardar
nelle tenebre, ansiosi, temendo o sperando? Che aspettano
essi? Che vedono?
Ricordi di
infanzia e di giovinezza (1906)
Scritto di Luigi Capuana
Un giorno, il Babbo mi condusse, vestito da festa, in casa
del parroco cavalier Morgana — cavaliere gerosolimitano. —
Il salone rigurgitava di gente, che parlava animatissima;
tutti avevano una coccarda tricolore al petto; ne fu
appuntata con uno spillo una anche a me. In un canto,
appoggiata al muro, una bandiera tricolore con gran nastro a
frange d'argento attirava gli sguardi e l'ammirazione di
tutti. Poco dopo, arrivò la banda musicale; una specie di
processione s' istradò, in coda alla quale il cavaliere —
come lo chiamavano — portava in ispalla la bandiera, fra le
grida di: — Viva Pio IX! Viva la Costituzione! Abbasso i
Borboni! —
Così assistetti al primo fatto politico, senza capire che
significassero e la coccarda, e la bandiera, e le grida
frenetiche udite, e il "Te Deum" cantato solennemente nella
bella chiesa di Santa Agrippina. Sentivo dire che s'era
fatta la rivoluzione e che Pio IX era il papa. Del papa
sapevo soltanto che rappresentava il Signore
quaggiù e che ogni mattina un angelo scendeva dal cielo a
lasciargli sul tavolino una polizzina dove stavano scritte
le cose che il Signore gli ordinava di fare; mia Madre mi
aveva detto così e forse lei lo credeva davvero.
Qualche mese dopo, capii che rivoluzione per noi fanciulli
voleva dire: libertà di fare a sassate. Ci eravamo divisi in
tre partiti, distinti col nome dei tre quartieri della
città; i due partiti di San Pietro e Santa Agrippina erano
spesso alleati contro quello di Santa Maria, che possedeva
nel suo territorio una fortezza, le mine della torre maestra
dell'antico castello. Occuparla primi o prenderla d'assalto,
ecco le nostre
imprese giornaliere, appena usciti di scuola.
Quei di Santa Maria figuravano i “regi", cioè i borbonici.
Ci eravamo costruiti fucili, cartucce ripiene di gesso ben
calcato, giberne di cartone, sciabole di legno. Per
fabbricare un facile si sceglieva una canna grossa e si
tagliava della lunghezza d'un metro rasente a un nodo;
nient' altro. Nel momento della battaglia, vi s' introduceva
la cartuccia, che andava giù pel proprio peso e che,
lanciata con tutt' e due le mani, era capace di produrre
contusioni e ferite.
La mia casa segnava il limite fra i due quartieri di San
Pietro e di Santa Maria; ma io avevo scelto il partito dei
miei compagni di chiasso; il piano di San Pietro era,
infatti, il luogo di convegno di gran parte della scolaresca
pei giuochi di ogni sorta. A nove anni, poco ardito e
intraprendente, non avevo nessun grado nella milizia;
qualche volta facevo da alfiere, ma nelle parate soltanto;
forse perchè, sapendo tingere in
rosso e in verde le bandiere di carta, pareva giusto che
almeno avessi l'onore di portarne una.
Le fazioni diventavano, e non di rado, zuffe pericolose,
quando vi si mescolavano giovinastri
sfaccendati, operai e contadini che prendevano sul serio
l'onore del rispettivo quartiere.
— Chi vive?
— San Pietro!
— Santa Maria! —
E subito botte da orbi, sassate, cartucciate, lividure,
teste rotte.
Un giorno, ci venne il capriccio di rappresentare, a modo
nostro, la scena della "Costituzione". Rizzammo un trono di
seggiole sovrapposte a seggiole, fatteci prestare dalle
donne del vicinato; uno scolare — il più grullo e che era,
quantunque maggiore di età di tutti noi, il nostro zimbello
— doveva fare da "Re Bomba" e
ricevere gli ambasciatori che sarebbero andati a chiedergli
la Costituzione. Nessuno di noi
sapeva precisamente che cosa fosse la Costituzione; ma non
voleva dir niente.
"Re Bomba", seduto in cima a quel trono, a ogni richiesta
degli ambasciatori rispondeva un "no" nasale, che il popolo,
poco distante — cioè noi — accoglieva con urli e fischiate.
Gli ambasciatori andavano e venivano inutilmente; "Re
Bomba", più duro che mai, all'ultimo ne ordinò l'arresto e
la fucilazione. Era stato convenuto così; ma era stato anche
convenuto — e questo egli non lo sapeva — che il popolo
sarebbe insorto e lo avrebbe buttato giù dal trono. Il trono
era pochissimo solido; bastò un urto perchè re e seggiole
capitombolassero con fracasso; e mentre "Re Bomba" si
tastava tutto, piagnucolando, noi ci vendicavamo del rifiuto
della Costituzione, buttandogli addosso manate di terra,
bucce, sassi, dandogli pugni e spintoni, finché non gli
parve più prudente darsela a gambe.
Le battaglie, però, minacciavano di farsi sanguinose. Alcuni
ragazzi s'erano armati di lunghi coltelli a molla; due o tre
mafiosi, che la rivoluzione aveva liberati dalla galera,
davano di nascosto lezioni di scherma, col coltello e col
bastone, a parecchi dei più svelti sui tredici o quattordici
anni, e lezioni di gergo carcerario, apprese più lestamente
che non quelle d'italiano e di latino. Intervennero i nostri
parenti, e il "Chi vive"» a un tratto finì. Cartucce,
sciabole, giberne, bandiere, fucili di canna rimasero
qualche tempo ammonticchiati nell'arsenale, magazzinaccio
d'un collega, e poi servirono per una bella fiammata nel
forno di casa sua.
Anche la rivoluzione diventava sanguinosa. Un fratello della
Mamma "Nené" era stato ammazzato a tradimento con una
fucilata, e si temevano rappresaglie e vendette. Il Babbo e
gli zii rincasavano all'avemmaria e facevano mettere
spranghe e catenacci alle porte.
Un giorno, uscendo di scuola, avevo assistito a un tentativo
d' assassinio contro il cavaliere Morgana. Alla vista
dell'assassino, che, sbraitando, inarcava il fucile tra il
fuggi fuggi della gente, avevo badato soltanto a turarmi gli
orecchi, per paura del botto; ma l'arma fece cilecca e quel
furibondo venne arrestato. Arrivai a casa, pallido,
atterrito, incapace di raccontare quel che avevo visto, e la
Mamma, la mattina dopo, mi fece prendere la corallina.
Poi, una sera, dai visi sconvolti, dalle parole sottovoce,
dalla fretta con cui la Mamma mettermi a letto, compresi che
accadeva qualcosa di tristo. Mentre la Mamma mi spogliava,
s'udirono scoppii che mi parvero di mortaretti; la Mamma,
con le lagrime agli occhi, balbettava:
— Oh, vergine santa!
Gli scoppii incalzavano, vicinissimi, e per la vìa era un
gridare confuso, un accorrere. Io domandavo;
— Mamma, che è mai?
— Niente mortaretti per la festa di Santa Agrippina.
Addormentati. —
La mattina dopo, appresi dai miei compagni che certe cattive
persone avevano tentato una rivolta contro i "cappelli",
cioè contro i signori, contro i ricchi, e che la guardia
nazionale aveva ucciso uno dei caporioni e feritone
mortalmente un altro; gli scoppii uditi la sera precedente
erano stati fucilate. E quei ragazzi mi condussero a vedere
l'ucciso, omone alto, bruno, dalla folta barba nera, steso
su un cataletto in un angolo della chiesa di San Pietro. Il
cadavere insanguinato era coperto con una coltre di seta
gialla; ma tutti lo sco- privano per osservarlo e nessuno
impediva l'orrido spettacolo.
E dei congiurati e dell'ucciso si raccontava che s'erano
legati con terribile giuramento, cavandosi sangue dal
braccio e bevendone ognuno un bicchiere, e che colui era
morto bestemmiando i santi e la Madonna. Ora so che non c'è
niente di vero in tutto questo; ma allora le nostre
immaginazioni ne rimanevano terrificate. Per qualche tempo,
non osammo più attardarci, come prima, nel piano di San
Pietro, dov'era accaduto l'eccidio. Si raccontava pure che
qualcuno, passando di là verso un'ora di notte, aveva visto
lo spettro dell'ucciso dibattersi e arrotolarsi per terra
nello stesso punto dov'era morto; e nessuno di noi voleva
fare simile incontro.
Perduto lo spasso del "Chi vive?", da soldati
c'improvvisammo bandisti musicali, con fantastici strumenti
di canna e cartone, cappelli, pennacchi e divisa di carta
colorata. I clarini erano quasi al naturale. Scovate in una
soffitta di casa quattro o cinque cennamelle da cornamusa,
le avevo distribuite ai colleghi bandisti, riserbandone una
per me. Ci eravamo costrutti con canne i deschetti
portatili, e fin scarabocchiate le carte da musica. E si
andava attorno per le vie allegramente, imitando il suono
degli strumenti con la voce; un vecchio tamburone, adattato
alla meglio, serviva da gran cassa.
Eravamo così entusiasmati, che non ci chiamavamo più coi
nostri nomi, ma con quelli dei suonatori della vera banda
musicale, secondo lo strumento adottato da ognuno di noi.
C’infastidimmo presto; e la banda si sciolse da sè, e le
cennamelle vennero riposte nel soffitto donde le avevo
cavate.
Intanto frequentavamo la scuola.
Le scuole comunali erano tre, denominate: Grammatica,
Umanità, Rettorica. Quella di Grammatica conteneva parecchie
classi dal- l'"abbiccì" al "Limen" del Porretti. Io già
sapevo leggere correntemente, e studiavo anche calligrafia
presso un maestro particolare. Ho fatto, per molti anni di
seguito, un'infinità di aste grosse, scempie, chiaroscurate,
e poi alfabeti latini, inglesi, gotici, ma con poco buon
risultato. La mia attuale scrittura dimostra che non son
nato col bernoccolo calligrafico, punto!
In iscuola, mentre i più grandicelli traducevano dal latino
in italiano, io e un compagno di panca ci occupavamo a
imprigionare mosche in una buchetta della parete, turata con
un pezzo di carta. Che stragi, in prima vera e in estate!
I libri latini recavano allora la traduzione a fronte. Lo
scolaro con una mano reggeva il volume e con l'altra,
facendo le corna, teneva dietro alle parole del testo e
della traduzione. Sentendo parlare di Cornelio, io credevo
che il libro si chiamasse così, appunto perchè vi si
facevano le corna sopra.
Prima delle lezioni, nel vasto atrio, dell'ex collegio
gesuitico, dov'erano le scuole, nell'at tesa dei maestri, ci
abbandonavamo d'inverno alla "ferraiuolata", d'estate alla "libriata".
Uno di noi stava in vedetta al portone o a una finestra, per
darci l'avviso dell'arrivo del maestro; gli altri ci
toglievamo d'addosso i ferraiuolini, che usavamo allora, e,
piegatili per lungo, battagliavamo furiosamente con essi.
D'estate mutavamo i libri in proiettili, scaraventandoceli
in faccia, e questa si chiamava la "libriata". Si figuri il
lettore in che stato si riducessero quei poveri libri!
Nell'aprile e nel maggio, la scolaresca diventava il terrore
dei fittavoli dei dintorni. Terminate le lezioni, ci davamo
la posta nel famoso piano di San Pietro, e là si
organizzavano certe spedizioni dalle quali appariva evidente
come non ci fosse entrata in mente nessuna nozione del mio e
del tuo; infatti, quelle spedizioni le chiamavamo
ingenuamente: andar a rubare "minnulicchi" — mandorle
tenere, "càtere", come le chiamano a Firenze — o albicocchine acerbe. Giunti sul posto, dove supponevamo con
qualche probabilità che mancasse la custodia, i più svelti
si arrampicavano sull'albero, scuotevano i rami, e gli altri
raccoglievano i frutti caduti. Spesso i contadini ci
rincorrevano, e allora era fuga precipitosa, sbandamento.
Qualche ferraiuolo qualche berretto abbandonati sul luogo
servivano poi da prova di accusa presso i nostri parenti,
che c'insegnvano a scappellotti il rispetto dovuto alla
proprietà altrui. Confesso, però, che gli scappellotti non
ci impedirono mai di ricominciare. Le càtere, le
albicocchine acerbe, le suggestioni dei cattivi compagni
erano tentazioni irresistibili.
Verso la fine dell'anno scolastico compariva la
"Commissione", quattro o cinque signori, che facevano, in
fretta e in furia, una specie di esame, e distribuivano
immagini sacre più o meno grandi, più o meno allumacate di
rosso; di azzurro e di giallo ai giudicati degni di premio.
Io non ne ebbi mai una. A noi piccini la Commissione
incuteva quasi terrore, forse perchè non la vedevamo mai
durante l’anno.
Meno male che tutte le domeniche avevamo ora lo spettacolo
degli esercizii della Guardia Nazionale. Erano tornati da
Napoli due fratelli, soldati borbonici in un reggimento di
volontari siciliani sciolto dalla rivoluzione, e facevano da
istruttori. Poi assistevamo a bocca aperta ai "front!
marche! on, du'! on, du'!" del battaglione parte in
uniforme, parte no, e che poi andava militarmente ad
ascoltare la messa cantata. Ci schieravamo in file alla
testa del battaglione e marciavamo certamente assai meglio
di molti di quei militi.
Poi giunsero le prime cattive notizie: Messina assediata,
bombardata, presa dai regi, che già s'avanzavano sopra
Catania. Era il giorno di Pasqua, lo rammento come fosse
ora. Mi avevano condotto su la terrazza del Casino di
convegno, insieme coi fratellini, con le sorelline e con
altri fanciulli: e tutti tenevamo in mano l'agnello pasquale
di pasta dolce da far benedire dal Cristo risorto. Quel
giorno si fa in Mineo la festa dell'"Inchinata", specie di
rappresentazione sacra, in cui sono attori le statue della
Madonna e del Cristo risorto. Appena spuntato il sole, la
gente si affolla nella piazza Buglio e attende le statue e
la processione. Avviluppata da un manto nero di seta,
appuntato con spilli, arriva prima la Madonna, preceduta da
una confraternita in sacchi bianchi e mantellette di seta
chermisi, e vien ricoverata in una chiesa vicina. Uno dei
confratelli porta un'asta, in cima alla quale è adattata in
bilico una campanella che egli, tirando un nastro, fa
suonare a brevi rintocchi, incessantemente.
Di lì a poco, ecco il Cristo, con un braccio levato
trionfalmente in alto, lo stendardo di broccato a lamine
d'oro nel pugno sinistro, una gran raggiera di carta dorata
dietro, e ai lati, da pie', manipoli di fave novelle, primi-
zie dell'annata; vien condotto per pochi minuti nella
piazzetta dei Vespri. Intanto colui con la campana, seguito
dai confratelli, va e viene a passi affrettati tra la folla
che gli fa largo, suonando a brevi rintocchi, incessante-
mente, quasi chiedesse alla gente notizie del Cristo risorto
per recarle alla Madre; infatti, dicono che egli simboleggi
San Giovanni, il discepolo prediletto. Non appena il Cristo
vien ricondotto in piazza Buglio, colui va a por- tare la
lieta novella; e subito dopo arriva la Madonna, ancora
avviluppata dal manto nero. A un tratto, il manto casca giù,
e tra lo strepito dei mortaletti, della banda musicale, e le
grida di: "Viva la misericordia di Dio!", il Cristo muove
incontro a sua Madre. Le due statue sono spinte tre volte
avanti e indietro, e fatte inchinare, in segno di saluto;
poi restano un pezzetto l'una di faccia all'altra.
Il momento dell'inchinata è pericoloso per gli agnelli
pasquali dei bambini, che li tengono levati in alto perchè
siano benedetti. C'è sempre qualche amico, qualche parente
che fa loro lo scherzo di levarglieli lestamente di mano e
addentarli. Io ci piangevo ogni anno, quantunque stessi in
guardia.
Quell'anno (1849) il Cristo e la Madonna non comparvero.
Vidi, a un tratto, formarsi capannelli di gente pallida,
gesticolante: guardie nazionali, ufficiali e soldati
abbandonare i ranghi e disperdersi. Nessuno badava a
insidiare i nostri agnelli pasquali; anzi, nessuno si
occupava di noi, che udivamo ripetere desolatamente
d'attorno:
— Catania presa, arsa! —
Uno levò via la bandiera tricolore dal pilastro della
terrazza del Casino di convegno e immediatamente il Babbo e
lo zio Antonio ci ricondussero a casa. La rivoluzione era
terminata, come il nostro "Chi vive?" ; mi pareva. Mi rimase
nell'orecchio un nome non mai udito pronunciare: Satriano;
qualcosa di triste e di pauroso.
Due giorni dopo, all'uscita di scuola, alcuni signori
prendevano per mano gli scolari, li conducevano al Casino e
li obbligavano a Armare certi grandi fogli di carta esposti
su un tavolino; insieme con gli altri dovetti scarabocchiare
il mio nome anch'io. Poi seppi che ci avevano fatto firmare
un indirizzo di sottomissione e di fedeltà a re Ferdinando
II, e per qualche tempo odiai ferocemente chi mi aveva
indotto a quell'atto. Fu questo il mio primo indefinito
sentimento di patriottismo.
Per fortuna, io non sono, nè sono mai stato uomo politico;
altrimenti, correrei, un giorno l’altro, il pericolo di
sentirmi ingiuriare borbonico, su la fede di quella firma
fattami scarabocchiare a nove anni.
Memorie giovanili autobiografiche di letterati, artisti,
scienziati, uomini politici, patrioti e pubblicisti,
Onorato Roux (1908)
Opere di Luigi
Capuana in ordine cronologico
Garibaldi. Leggenda drammatica in tre canti, Catania, Galatola, 1861.
Il bucato in famiglia. Discorso pronunziato il dì 24
novembre 1870, Catania, Galatola, 1870.
Il teatro italiano contemporaneo. Saggi critici, Palermo,
Pedone Lauriel, 1872.
Il Comune di Mineo. Relazione del sindaco, Catania, Galatola,
1875.
Profili di donne, Milano, Brigola, 1877.
Giacinta, Milano, Brigola, 1879.
Studi sulla letteratura contemporanea, I serie, Milano, Brigola, 1880.
Un bacio ed altri racconti, Milano, Ottino, 1881.
C'era una volta... Fiabe, Milano, Treves, 1882.
Studi sulla letteratura contemporanea, II serie, Catania, Giannotta, 1882.
Spiritismo?, Catania, Giannotta, 1884.
Il regno delle fate, Ancona, Morelli, 1883.
La Reginotta, Milano, Brigola, 1883.
Ribrezzo, Catania, Giannotta, 1885.
Homo, Milano, Brigola, 1883.
Manoscritto inedito redatto in occasione del discorso tenuto
durante la premiazione dell'anno scolastico 1885-86 nelle
scuole elementari di Mineo
Vento e tempesta, Palermo, Sandron, 1889.
Fumando, Catania, Giannotta, 1889.
Profumo, in "Nuova Antologia" 1890, poi in volume, Palermo,
Pedone Lauriel, 1892.
La Sicilia e il brigantaggio, Roma, il Falchetto, 1892.
Spera di Sole (commedia per burattini), in "Cenerentola", n.
7-8-9-10, Roma, 29 gennaio-19 febbraio 1893.
La commedia dei grandi rifatta dai piccini, "Cenerentola",
20 maggio 1893.
Le appassionate, raccolta di novelle, 1893.
Le paesane, raccolta di novelle, 1894.
Il pecoro nero, fiabe e novelle illustrate da D. Lacava
Feola, Giannotta, Catania probabilmente 1894
Il Raccontafiabe, seguito al C'era una volta, Firenze, Bemporad, 1894.
Fanciulli allegri, Roma, Voghera, 1894.
La Sicilia nei canti e nella novellistica contemporanea,
conferenza letta al Comitato bolognese della Società Dante
Alighieri, 12 maggio, 1894.
Il drago, novelle, raccontini e altri scritti per fanciulli,
Roma, Voghera, 1895.
Mondo occulto , Napoli, Pierro, 1896.
Schiaccianoci, novelle e novelline, Firenze, Bemporad, 1897.
Scurpiddu, racconto illustrato per ragazzi. Libro
raccomandato dal Ministero della pubblica istruzione,
Torino, Paravia, 1898.
Gli "ismi" contemporanei, Giannotta, Catania, 1898.
Raccontini e ricordi, Paravia, Torino, 1899.
Avarizia, racconto, Palermo, Sandron, 1899.
Le prodezze d'Orlando, racconto, Palermo, Sandron, 1899.
L'ultima scappata, racconto, Palermo, Sandron, 1899.
Pupattolina, racconto, Palermo, Sandron, 1899.
Tentennone, Barabba, Lanciano, 1900.
Il marchese di Roccaverdina, romanzo incompiuto sul
quotidiano "L'ora" di Palermo, 1900, poi in volume, Milano,
Treves, 1901.
La Sicilia e il brigantaggio, in "L'isola del sole",
Catania, Giannotta, 1903.
I fatti principali della storia d'Italia, raccontati da uno
zio ai nipoti scolari IV classe elementare, Catania,
Battiato, 1904.
Breve storia d'Italia ad uso delle scuole tecniche e
complementari (3 volumi), Catania, Battiato, 1905.
I diritti e i doveri ad uso dei giovanetti delle scuole
elementari superiori, Catania, Battiato, 1905.
Re Bracalone, romanzo fiabesco, con diciotto composizioni di
C. Chiostri, Firenze, Bemporad, 1905.
Storia d'Italia ad uso dei ginnasi inferiori (2 volumi),
Catania, Battiato, 1905-06.
Coscienze, Catania, Battiato, 1905.
La paura è fatta di nulla ed altre novelle, Torino, Paravia,
1906.
Come Berto divenne buono, novellina, Palermo, Corselli,
1906.
Un vampiro, Roma, Voghera, 1906.
Cardello, racconto illustrato da G. Bruno, Palermo, Sandron,
1907.
Prima fioritura, corso di letture educative per le classi
elementari maschili, libro ad uso della III classe, Biondo,
Palermo, 1907.
State a sentire! Novelle, Palermo, Sandron, 1907.
La prima sigaretta ed altre novelle, Torino, Paravia, 1907.
Chi vuol fiabe, chi vuole?, Firenze, Bemporad, 1908.
Prima fioritura, ad uso della IV classe maschile e
femminile, Palermo, Biondo, 1908.
Cara infanzia, racconti per fanciulli, Carabba, Lanciano,
1908.
Sillabario semplicissimo per la I elementare maschile e
femminile, Palermo, Biondo, 1909.
Nel paese della zagara, novelle siciliane, Firenze, Bemporad,
1910.
Fiabe (in collaborazione con P. Lombroso e D. B. Segrè),
Roma, Podrecca e Galantara, 1911.
Gli "Americani" di Rabbato, racconto illustrato da A. Terzi,
Palermo, Sandron, 1912.
Prima fioritura ad uso delle classi V e VI, Palermo, Biondo,
1912.
Si conta e si racconta... fiabe minime, Muglia, Catania,
1912; Catania-Roma, Pellicanolibri, 1989.
La primavera di Giorgio, racconto "La scolastica", Ostiglia,
1913
Testoline!, racconti, Barabba, Lanciano, 1913.
Eh! La vita..., Quinteri, Milano, 1913.
Il diario di Cesare, Palermo, Sandron, 1914.
Buono per inganno, Palermo, Sandron, 1914.
L'omino di mamma, Palermo, Sandron, 1914.
Guerra! Guerra!, Palermo, Sandron, 1914.
Sarta per bambole, Palermo, Sandron, 1914.
Un piccolo fregoli, Palermo, Sandron, 1914.
Istinti e peccati, Minerva, Catania, 1914.
Tiritituf, fiaba, "La scolastica", Ostiglia, 1915.
Prime armi, Palermo, Sandron, 1915.
L'avventura di Liana, Palermo, Sandron, 1915.
Opere pubblicate dopo la morte di Capuana
Le ultime fiabe, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 1919.
Otto novelle per ragazzi, Palermo, Sandron, 1921.
Come l'onda...novelle, Palermo, Sandron, 1921
Ricordi d'infanzia, Palermo, Sandron, 1922.
La fiaba lunga lunga…, Palermo, Sandron, 1923.
La festa dei pastori, Firenze, Bemporad, 1924.
Il figlio di Scurpiddu, Milano, Mondadori, 1933.
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