Viaggio nel tempo a Firenze

Viaggio nel tempo a Firenze

 

Viaggio nel tempo in Firenze, usando… l’olfatto

Viaggio nel tempo in Firenze, usando… l’udito

Viaggio nel tempo in Firenze, usando… il gusto

Viaggio nel tempo in Firenze, usando… il tatto

 

"Al tempo di cui parliamo, nella città regnava un puzzo a stento immaginabile per noi moderni. Le strade puzzavano di letame, i cortili interni di orina, le trombe delle scale di legno marcio e di sterco di ratti, le cucine di cavolo andato a male e di grasso di montone, le stanze non aerate puzzavano di polvere stantia, le camere da letto di lenzuola bisunte, dell'umido dei piumini e dell'odore pungente e dolciastro di vasi da notte. Dai camini veniva puzzo di zolfo, dalle concerie veniva il puzzo di solventi, dai macelli puzzo di sangue rappreso. La gente puzzava di sudore e di vestiti non lavati, dalle bocche veniva un puzzo di denti guasti, dagli stomaci un puzzo di cipolla e dai corpi, quando non erano più tanto giovani, veniva un puzzo di formaggio vecchio e latte acido e malattie tumorali. Puzzavano i fiumi, puzzavano le piazze, puzzavano le chiese, c'era puzzo sotto i ponti e nei palazzi. Il contadino puzzava come il prete, l'apprendista come la moglie del maestro, puzzava tutta la nobiltà, perfino il re puzzava, puzzava come un animale feroce, e la regina come una vecchia capra, sia d'estate sia d'inverno."

 

Questa insolita descrizione di Parigi è l’incipit del fortunato romanzo di Patrick Süskind, Profumo dedicato alla vita di Jean-Baptiste Grenouille, nato il 17 luglio 1738 nel luogo più puzzolente di Francia, il Cimetière des Innocents di Parigi, rifiutato dalla madre fin dalla nascita, rifiutato dalle balie perché non ha nessun odore, che, crescendo, scopre gradatamente di possedere un dono inestimabile: un olfatto finissimo, una prodigiosa capacità di percepire, distinguere e catalogare gli odori. Avrebbe potuto descrivere qualsiasi altra città, per esempio la nostra Firenze.

 

Si tratta di una descrizione insolita, in quanto il paesaggio urbano dei secoli passati è giunto fino a noi solo con testimonianze visive: edifici o loro tracce archeologiche, ma anche immagini di antiche stampe e quadri. Sono andati per sempre perduti i suoni, gli odori, i sapori che nelle varie epoche storiche hanno caratterizzato le nostre città. Oggi possiamo vivere la città, percependone i rumori del traffico congestionato, delle trasmissioni televisive dalle finestre aperte delle case d’estate, della musica assillante nei bar, i richiami dei venditori nei mercati, gli schiamazzi degli studenti all’uscita della scuola, l’allegro vociare dei bambini nei parchi gioco… Possiamo gustare un cornetto e un cappuccino al bar prima del lavoro, un gelato o una bibita per ristorarci nei caldi pomeriggi estivi, un panino nella pausa pranzo, un piatto tipico quando ci concediamo il lusso di un ristorante, un aperitivo prima di cena… Possiamo sentire gli odori "i profumi e le puzze" nelle strade cittadine: quello del catrame steso a coprire le buche per le strade; dei rifiuti nei cassonetti; dei gas di scarico delle autovetture; dei fiori nei giardini pubblici; dei marciapiedi dopo una pioggia estiva; del cuoio esposto nelle bancarelle del mercato; del cibo dalle cucine dei ristoranti…

 

Di seguito una visita in una Firenze che non c’è più, utilizzando non solo la vista, ma gli altri sensi…

 

Allegoria dei cinque sensi - Theodor RomboutsQuesta suggestione serve a invitare tutti a esplorare la città di oggi con tutte le nostre finestre sul mondo aperte. Tenendo gli occhi aperti (osservando e non semplicemente vedendo), ma anche orecchie, naso… Poi, come è ovvio, si tornerà al nostro senso primario "la vista" per raccontare ciò che di Firenze si ritrova, pressoché immutato, nei secoli: la presenza del fiume Arno e dei suoi ponti; dei palazzi del potere civile; dei mercati come centro di aggregazione dei cittadini (oggi sostituiti dai centri commerciali); delle diverse cinta murarie che hanno marcato lo sviluppo urbano nei secoli e le cui tracce sono ancora ben visibili nel paesaggio della città.

 

Viaggio nel tempo in Firenze, usando… l’olfatto

 

Nel 1498… Il viaggio comincia in Oltrarno, nelle casupole addossate sullo sdrucciolo di Pitti, una discesa di ciottoli perennemente attraversata da due rivoli maleodoranti d’acque luride. L’odore pungente del’orina si mescola a quello delle colle e delle vernici provenienti dagli sporti dei fondachi aperti sulla strada, dove i calzolai e i falegnami lavorano. Voltato l’angolo, dov’era la casa del famoso matematico Paolo Toscanelli, si imbocca via de’ Giudei; qui, guardati con sospetto dalle autorità, vivono "quasi confinati" gli ebrei. Girato l’angolo su borgo San Jacopo una zaffata di sudore ed escrementi arriva alle narici. Proviene dalle finestre delle case dei piani terreni, private delle impannate per far entrare un po’ di luce; qui, la povera gente, per sbarcare il lunario, immagazzina "nell’unica stanza che compone il misero appartamento" lo sterco dei cavalli e degli umani raccolto per le strade. Una volta che se ne farà una carrata, lo si potrà portare in campagna per venderlo come concime. Imboccato il ponte vecchio, la brezza che risale il fiume dal mare non riesce a scacciare l’odore del sangue e del grasso animale che proviene dalle botteghe dei beccari. Si sono trasferiti qui ormai da più di cinquant’anni, ubbidendo a un’ordinanza della Signoria che voleva evitare il passaggio in città dei maleodoranti carretti contenenti gli scarti della macellazione; si era pensato che sul ponte i beccari avrebbero potuto scaricarli direttamente in Arno, senza brutture per Firenze, ma il rimedio non ha sortito l’effetto sperato. Di qua d’Arno, nella loggia della piazzetta l’odore degli escrementi rimasti sulle spallette del fiume quando vengono vuotati i pitali della notte si mischia a quello del pesce proveniente dal piccolo, affollato mercato. Sotto la loggia, sui banchi i pesciaioli espongono il loro bottino, ricavato nella pescaia di Santa Rosa a valle e venduto ai fiorentini quale unica integrazione animale alla povera dieta.

 

A poca distanza, nella piccola piazza di Santo Stefano al Ponte, il tanfo del mercato è sostituito dall’odore dell’incenso bruciato in chiesa nelle funzioni mattutine. È un profumo abituale in città, dove le funzioni religiose: le messe, i rosari, le novene si susseguono quasi senza interruzione "dalla laude del mattino al canto del vespro la sera" nelle innumerevoli chiese fiorentine, anche ora che fra Girolamo è stato impiccato, lapidato e arso in piazza grande, nel maggio scorso, condannato per eresia . In borgo dei Tintori, verso il quartiere di Santa Croce, sono le esalazioni della robbia e del guado che sobbollono nelle caldaie per tingere i panni lana ad accogliere i viandanti. L’odore intenso delle radici di robbia, del trito di cocciniglie e delle piante di guado si mescola a quello stucchevole dell’orina utilizzata con la cenere per la follatura e del grasso sciolto nelle vasche per il lavaggio delle lane, in un caratteristico odore di fondo che accompagna per tutto il cammino. Di là della piazza di Santa Croce l’odore dell’orina preannuncia che si sta per entrare nel quartiere dei conciatori. Via delle Conce, dei Pelacani, dei Conciatori sono viuzze strette, con fondachi angusti dove i conciatori calcinano le pelli con l’orina e le conciano bollendole assieme alle scorze di 5 quercia e d’abete in grosse caldaie di ferro. Dalle botteghe esce un odore nauseabondo, ma ancor più ve n’è in strada, dal momento che i conciatori "per il poco spazio a disposizione al coperto" appendono le pelli per la via, in modo che s’asciughino. Gente strana i conciatori di pelli: l’odore dell’urina penetra nei vestiti e nella pelle, cambiandone il colore e facendo diventare abito e epidermide simile al cuoio che lavorano. Non c’è modo di togliere quest’odore fetido, che li rende riconoscibile ovunque, anche lontano dal luogo in cui operano. Rientrati nel traffico operoso della città, lungo la via di Calimala, giunti sotto all’edificio dell’Arte della Lana, i passanti sono assaliti dall’odore acre dei friggitori di roventini (i sanguinacci che scottano le lingue di chi incautamente ne fa un sol boccone), di gnocchi, di pesce fritto, di sommommoli (le frittelle di pasta di pane che riempono lo stomaco con poco). C’è anche il trippaio, che vende tazze colme di maleodorante brodo di cottura del lampredotto, di cui i garzoni del quartiere vanno golosi. Poco innanzi altri effluvi di cibo preannunciano i banchi del mercato vecchio (sì, perché c’era già al tempo degli antichi romani). Dalle taverne disposte al centro della piazza esce l’odore acidulo del vino andante, quello pungente delle cipolle nella carabaccia, quello sgradevole delle farinate di cavolo nero. Tutt’intorno fruttivendoli, civaioli, ortolani e pollivendoli espongono le loro merci: chi in ceste poggiate a terra, chi sul pianale del carro, chi in gabbie di vimini intrecciato. È una miscela di aromi e fragranze: l’odore di latte dalle ricottine poste su foglie di fico; quello acido dell’olio nuovo dagli orci degli oliandoli (nella piazzetta verso l’Arcivescovado); il profumo delle pesche, delle melangole, delle susine, delle azzeruole; l’odore pungente delle cipolle, degli agli; quello dolciastro dei lupini, dei poponi e dei fichi…

 

Superato il mercato, dirigendosi lungo la via dei Ferravecchi verso la grande fabbrica voluta da Filippo Strozzi (hanno cominciato più di dieci anni fa a lavorarci e ancora non si vede il primo piano), e voltato l’angolo del largo di Santa Trinita che è detto dei Legniaiuoli (qui si svolgono le partite di pallone col bracciale), ecco il canto dei Tornaquinci. Dalla bottega dello speziale esce un intenso odore di cannella, di chiodi di garofano, di noce moscata e di altre erbe provenienti da paesi lontani. Lo speziale è Luca di Antonio Landucci, una persona schiva, ma molto stimata nel quartiere: pare che stia scrivendo un diario di tutto ciò che è accaduto in Firenze negli ultimi 6 cinquant’anni. Dalla sua farmacia e dalle altre cento in giro per la città escono i costosi profumi dalle delicate fragranze di rosa e radice di giglio bianco o dagli intensi sentori di zibetto e aloe. Sono le essenze di cui i nobili, uomini e donne, si cospargono generosamente gli abiti e i corpi, senza riuscire a scacciare l’afrore di sudore di cui le vesti sono impregnate. Ma è in chiesa, nei giorni di festa, quando poveri e ricchi si ritrovano a prender messa insieme in cattedrale, che si conclude questo viaggio olfattivo nella Firenze del XV secolo. Qui c’è la sintesi di tutti gli odori della città: le bocche guaste e quelle odorose di salvia usata per nettare i denti; le camicie luride di unto e quelle fragranti di spigo; i corpi sporchi e sudati e quelli unti di olio di mirto e nardo indiano; gli abiti infangati e bisunti e quelli spolverati e cosparsi di polvere di rose selvatiche.

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Viaggio nel tempo in Firenze, usando… l’udito

 

Nel 1898… Il lungarno fra la Sardigna e porta San Frediano: qui, dalla riva dell’Arno, arrivano le grida, le risa e gli scherzi degli scaricatori al porto dei navicelli. Stamane all’alba è giunto un nuovo carico di carbone dal porto granducale di Livorno e, una volta attraccato il navicello ai pignoni, bisogna scaricarlo in fretta per portarlo in fonderia. Il cigolare delle gru si alterna con il tonfo sordo dei sacchi che cadono sui carri, mentre al porto gli scaricatori interrompono gli schiamazzi: è arrivato un operaio del Pignone. I portuali fiorentini, più informati, lo sussurrano ai marinai livornesi: è un socialista… una testa calda. L’operaio sale su un carro e grida forte: il dazio del pane è un furto perpetrato alla povera gente, mentre i padroni, i ricchi rispondono a cannonate alle proteste degli operai. Vedete quel che è successo a Milano" Centinaia di morti ammazzati, centinaia di donne e vecchi feriti, migliaia gli arrestati e il generale boia" Decorato da re Umberto per il servigio reso alla Patria! Più avanti, senza curarsi della propaganda del loro compagno, gli operai del turno di mattina varcano in bicicletta i cancelli della «Fonderia di ferro di seconda fusione» per dare il cambio ai compagni del turno di notte. Sono accolti dai consueti rumori: la sirena del fine turno; il soffiar dei mantici; il sibilo del ferro fuso versato dal crogiuolo; il battere ritmato delle mazze sulle forme per liberare i profilati; il fragore delle traversine di ferro che cadono a terra; il cigolare dei carri carichi di rottami… Poco più in là le officine del gas: anche qui un via vai di carri pieni di carbone fossile, di operai che vanno al lavoro o che smontano dal loro faticoso turno. Sono tutti vecchi, tra i cinquanta e i sessant’anni: la gassificazione del carbone è un lavoro pericoloso e i giovani non sono disposti a correrne i rischi… Qui il ritmo è dato dall’alzarsi e dall’abbassarsi del tampone che segna la pressione del gasometro, dalla fiamma eternamente accesa sulla ciminiera, dal fischio del vapore acqueo in eccesso che esce violentemente dalla valvola della caldaia. Girato l’angolo, il panorama cambia radicalmente: i porcari con i loro maiali legati per gli anelli infilati alle narici attendono nel gran piazzale antistante l’ammazzatoio pubblico che i cancelli si aprano. Le voci dei contadini sono coperte dai grugniti delle bestie e dal loro rumoroso razzolare fra le immondizie della Sardigna. Tornati sulla via Pisana si giunge alfine al ponte sospeso di ferro: si chiama ancora San Leopoldo, come ai tempi dei vecchi duchi di Lorena. Segno che il nuovo governo italiano non è molto diverso dalla vecchia dinastia tedesca. Ancora il frastuono delle ruote dei carri sulla passerella del ponte. C’è sempre un gran traffico qui, perché il ponte di ferro è l’unico che unisca le strade regie che vengono da Pisa e Livorno con il centro della città e, di qua d’Arno " alle Cascine" con la grande 8 stazione ferroviaria Leopolda. C’è anche sempre un gran frastuono qui, perché "nonostante lo si paghi da sempre" i carrettieri non si assoggettano volentieri al pagamento del pedaggio: sorgono sempre discussioni accese con i dazieri preposti alla riscossione.

 

Di tanto in tanto gli animati battibecchi vengono interrotti dagli sbuffi e dal fischio della locomotiva di un convoglio in partenza per Livorno o dallo stridere delle ganasce dei freni di un treno in arrivo nella vicina stazione. Sul viale del parco passano veloci i calessi, con il caratteristico suono degli zoccoli al trotto, accompagnato dal tintinnio dei campanelli alle briglie e dallo schiocco ritmato della frusta del conducente. Le carrozze imboccano la discesa del viale esterno " dove fino a pochi anni fa c’erano le mura " e si dirigono verso la stazione Maria Antonia (anche quella si chiama ancora così, come l’aveva chiamata il vecchio granduca Leopoldo, dedicandola alla moglie). Qui ancora sferragliare di ruote di ferro sulle rotaie, il fiato pesante delle caldaie a vapore e gli immancabili fischi che annunciano la partenza. Di là dalla stazione della Pistoiese, verso il quartiere di San Giovanni, il tappeto sonoro cambia nuovamente: si rincorrono i richiami dei contadini che hanno portato le loro merci per venderle al mercato nuovo di San Lorenzo, si intrecciano le contrattazioni con gli ortolani e i civaioli che intendono spuntare un prezzo più vantaggioso, mentre molti mocciosi si offrono di scaricare i carri per pochi spiccioli. Di qui, imboccata via Panicale, via Guelfa e giunti in via Larga si cominciano a udire le note di una piccola banda che suona in piazza San Marco, sotto un gazebo posto al centro del quadrilatero in faccia al convento, proprio a fianco del capolinea del tramway. È una meraviglia della tecnologia moderna! La linea, che unisce il centro di Firenze alla collina di Fiesole, è stata inaugurata meno di dieci anni fa ed è il primo tram elettrico in funzione in una città italiana. È silenzioso nella marcia: si sente solo lo sferragliare delle ruote quando passa su uno scambio e lo stridore dei freni in prossimità della fermata, accompagnato dal suono della campanella e dalla voce del bigliettaio che annuncia la successiva sosta. È sul tram che sale verso Fiesole, assieme alle voci dei turisti inglesi che si recano a visitare alle rovine della cittadina collinare, che lasciamo i rumori della Firenze di fine Ottocento.

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Viaggio nel tempo in Firenze, usando… il gusto

 

Nel 1830… Nelle famiglie del popolo come in quelle signorili, si usava fare il pane in casa: e per la città si vedevano a tutte l'ore i garzoni di fornaio che uscivan dalle case dov'erano stati a prendere il pane, e con l'asse in capo, coperta da un pannolano, lo portavano in forno dal panicocolo. Ai bambini piccini e ai nipoti le nonne con l'avanzo della pasta facevano il chiocciolino, e gli omini a braccia aperte, la ghiottoneria più desiderata dai ragazzi d'allora. (…) In tutte le case si poteva dire che gli usi fossero uguali. La mattina per colazione invece del caffè e latte come si usa ora, si faceva la pappa nel pentolo, spesso affumicato, perché si faceva il fuoco a legna che si accendeva coi trucioli; i ragazzi si mandavano a scuola col paniere della merenda, la quale consisteva soltanto in una fetta di pan col burro, o un fico secco, o una mela, o una diecina di baccelli, o un mazzetto di ciliege o una fetta di pattona a seconda della stagione. Al tocco tutti tornavano a desinare, e le botteghe fino alle tre non si riaprivano. Il pasto frugale si componeva generalmente di minestra e lesso, e le feste il piatto preferito era la coratella nel tegame, il fegato con l'uova, il pollo nella bastardella, o l'agnello. Per carnevale era in gran voga il lombo di maiale arrosto, e i ragazzi giravan lo spiede con lo spago, facendo a gara a chi toccava quell'incarico, che spesso dalle mamme si concedeva al più buono, come un premio. La sera si cenava verso le otto tanto d'estate che d'inverno; ma si aspettava il capo di casa che tornasse da bottega, portando per 10 lo più l’affettato, cioè salame o presciutto o più comunemente la mortadella, che si diceva anche finocchiona, ed era l'insaccato più economico. Nella quaresima si mangiava il caviale che allora lo davano a fette ed era squisito; oppure le aringhe, o i fichi secchi, le noci, e le mele secche: insomma tutto ciò che poteva esservi da spender poco e da far companatico. Il vino a que' beati tempi costava quattro o cinque crazie il fiasco e se era vecchio, sette crazie - cinquanta centesimi! - Quando s'arrivava alla raccolta, se l'annata era stata abbondante non costava quasi nulla. Tant'è vero, che vi furono delle annate eccezionali in cui la gente andava ai conventi delle monache di Santa Maria Maddalena, del Maglio, di Santa Verdiana e ad altri, con certi fiaschi che parevan barili, e glieli empivano per una crazia, cioè sette quattrini - dieci centesimi - e molto spesso la buona monachina regalava una mela alla bambina o al ragazzo che andava a prendere il vino. (…) La festa si desinava alle due, e dopo la girata, le donne coi bambini andavano in qualche chiesa alla benedizione, verso le ventiquattro, oppure alla Madonna delle Grazie, quel chiesino a piè del ponte, di faccia a Via de' Benci che oggi non esiste più, dopo che il ponte alle Grazie è stato completamente rifatto. La sacra immagine però è stata trasportata in una piccola Cappella del Lungarno lì prossimo. Sulle pile del ponte, v'erano delle casupole; in una di quelle nacque il poeta Benedetto Menzini e in un'altra il pittore Gaetano Bianchi, restauratore d'affreschi. Dopo cena si giuocava a tombola e si facevan le bruciate se non le portava il damo alla dama, che ne faceva parte a tutti. L'estate poi la passeggiata o le scampagnate eran lungo il Mugnone sugli argini, dove spesso alcune comitive andavano a far merenda; in Boboli, o nel Giardino de' Semplici, o al Poggio Imperiale. I “lavoranti," quelli che oggi si chiamano operai, da novembre a quaresima vegliavano nelle botteghe fino alle otto. Anticamente, appunto nella stagione d'inverno, giravano per le strade col carretto una quantità di venditori di peperoni e di lupini nelle zangole, che misuravan col romaiolo di legno. E quando quelli delle botteghe che erano a veglia, sentivan gridare: - I' ho' peperoni! Salati, ma boni! - uscivan fuori a comprarli e mangiando i lupini trovavan più presto l'ora di far festa. E anche dalle case uscivan fuori le donnicciuole a comprare i peperoni, i ramolacci della Font' all'erta - tra San Gervasio e San Domenico di Fiesole " i più rinomati per mangiarsi col tonno; o i lupini, che a molta povera gente, specialmente per chi aveva dimolti figliuoli servivano di cena. (…)

 

I Caffè si chiudevano la sera alle undici; e soltanto il Bottegone sul Canto di Via de' Martelli in Piazza del Duomo, del quale era proprietario Fortunato Carobbi, aveva il permesso di stare aperto fino alle due di notte “per comodo dei signori che uscivan dal teatro." Il Caffè Doney era il principale di Firenze, e anco quello di Wital in Via Por Santa Maria, chiuso dopo il 1880, non era fra i secondari di certo. Sempre nella stessa strada si trovava il Caffè Elvetico, e l'Elvetichino era in Piazza del Duomo. Gli altri Caffè più frequentati e di una certa fama, erano il Caffè Landini in Via del Proconsolo, il Caffè Bellocci e il Leon d'Etruria di Vincenzo Galanti in via Calzaioli, quello della Vacca dei fratelli Boni in Via dell'Oche, del Giappone in Piazza del Granduca, dell'Orlandini in Via della Ninna e il Caffè dell'Arco demolito presso il Ponte Santa Trinita. Il più antico Caffè di Firenze è il Panone in Via Por Santa Maria. Quel Caffè, che esiste tuttora, ha una storia. Fra i più modesti si notavano il Caffè de' Filarmonici in via del Fosso; del Popolo in Piazza di San Piero, quello degli Svizzeri in Piazza di Santa Croce, del Pruneti in via de' Benci, e l'altro dalle Colonnine da Sant' Iacopo. L'antico Caffè Guarnacci in via del Proconsolo, era rinomato per le orzate nell'estate; e la sera vi era gran concorso della nobiltà che vi si fermava in lunga fila con le carrozze per gustare quella bibita favorita, che oggi a Firenze è uscita di moda, sebbene a Torino sotto il nome di bomba trovi un largo smercio. (…) 11 Basterà rammentare il buzzurro di Piazza Pitti - che stava a far le ballotte, le bruciate e la pattona, dove ora è il tabaccaio - il quale tornando nel 1830 a Firenze, portò la novità del cacio che oggi si dice d'Olanda, e che allora dal popolo si chiamava sbrinze. L'astuto svizzero mise una forma di questo cacio, grande quanto un tavolino tondo da caffè, sotto una gran custodia di vetro; e i ragazzi e anche la gente d'età ci si fermava incantata per diversi giorni, a guardar tanta meraviglia, credendo che ci volessero tesori per poter mangiare di quella delizia; ma quando videro che era una cosa che tutti potevan comprare per pochi soldi, non lo guardaron più nemmeno.

 

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Viaggio nel tempo in Firenze, usando… il tatto

Il 25 giugno 1598… in Piazza che fu della Signoria, oggi Piazza ducale

Una bella mattina di inizio estate e un’esperienza inusuale: chiusi gli occhi, esplorare lo spazio circostante con il solo ausilio delle mani. La pavimentazione della piazza è calda sotto le dita: il sole del mattino ha già scaldato i mattoni, disposti di taglio, a spina di pesce. Se ne può seguire facilmente la forma lungo il bordo irregolare di ciascun mattone. Al termine di una fila di campigiane (sono i mattoni più costosi: li lavorano con maestria i fornaciai di Campi, nel contado), ecco una superficie più liscia e regolare: è un inserto di pietra serena. L’intera piazza è attraversata da queste strisce di pietra, che incorniciano le file in mattoni in quadrati regolari. L’intera superficie della piazza è coperta da un sottile strato di minute particelle che si attaccano ai polpastrelli: è polvere, la polvere di Firenze. La città ne è piena; sollevata dal passaggio dei carri o dei cavalli, forma vere e proprie nubi che si insinuano ovunque: nelle narici dei viandanti; nelle case, passando dalle finestre debolmente coperte dalle impannate; la polvere si deposita sul selciato delle strade e delle piazze, sulle statue, sui vestiti, sui teloni dei venditori ambulanti… Molti stranieri in visita a Firenze se ne lamentano, come la più spiacevole e abituale caratteristica della città. E questo cos’è" Ha una consistenza più soffice e fibrosa… È certo un pezzo di cartapesta perso ieri da uno dei carretti del corteo per la Festa degli Omaggi. Ieri era San Giovanni e qui, come ogni anno, si è svolta la tradizionale festa dell’offerta dei ceri per la chiesa metropolitana da parte dei popoli soggetti alla città. Le candele che verrranno utilizzate durante le funzioni del prossimo anno nella cattedrale di Santa Maria del Fiore sono portate in corteo per le strade cittadine su carretti decorati con tabernacoli dorati di cartapesta. Questa festa è anche detta dell’Obbedienza, dal momento che in questa occasione che i tredici Magistrati e il Senato rinnovano il giuramento di fedeltà al Granduca, giurando davanti ai vangeli e baciando la mano o la veste del Sovrano.

 

Spostandosi verso il bordo della piazza si incontrano i gradini che portano all’aringhiera: sono facilmente riconoscibili. I gradini, come i parapetti e la cornice della pedana, sono in un’arenaria più porosa e dalla superficie ruvida: la pietra forte, tipica degli edifici di questa città. Costeggiando la ringhiera, dove ieri c’era il Granduca Ferdinando con la sua corte, si giunge a un piedistallo di pietra liscia e levigata: certo è il marmo del piedistallo del David, opera ammirata del Michelangelo. Risalendo la cornice del piedistallo, si può toccare la base scabrosa della scultura, con evidenti i segni grossolani della subbia e delle gradine; al centro il piede del giovane pastore, che impressione per le sue dimensioni, almeno il doppio di un modello reale. La superficie è accuratamente levigata, quasi morbida al tatto, risultato dell’accurato lavoro dell’artista che l’ha prima lisciata coi raschietti, poi lucidata con le polveri. Al 13 centro della base c’è il broncone, quel ceppo d’albero inserito nella composizione per reggere l’intera struttura; al tatto è assai diversa dal resto della statua: appare più fredda, ma ancor più liscio del marmo. È l’oro con cui l’artista ha ricoperto, come ricorda il Vasari, “la cigna, il broncone e la ghirlanda". La morbidezza al tatto è certo frutto della brunitura, che rende la copertura lucida e liscia, ottenuta passando sull’oro una pietra d’agata. È il segreto degli scultori che usano le foglie d’oro nelle loro opere.

 

A poca distanza dal giovane David che impugna la frombola, c’è un’altra statua, che restituisce le stesse sensazioni al tatto: è l’Ercole che sconfigge Caco del Bandinello. Alle spalle della statua di marmo, fatti pochi passi, ecco la superficie scabrosa della facciata del palazzo. La pietra forte è stata lavorata dagli scalpellini quasi tre secoli fa per dare a ciascuna una forma sporgente, a bozzo. La superficie è solcata dai segni regolari degli scalpelli che hanno sbozzato ciascuna pietra. Ma una pietra della facciata, verso l’angolo che dà sulla via della Ninna e sulla loggia nuova dei Magistrati, che ospita gli uffici delle magistrature granducali, presenta segni molto particolari. Con i polpastrelli è possibile seguire un’incisione, facilmente riconoscibile nel profilo di un uomo. È l’importuno. C’è chi dice che all’inizio di questo secolo sia stato lo stesso Michelangelo a scolpirlo, tenendo le braccia dietro la schiena e riproducendo sulla bugna il ritratto di un seccatore, mentre ne ascoltava annoiato le inutili chiacchere. Ma probabilmente si tratta di una delle tante leggende che circondano questo palazzo e i personaggi che ci hanno avuto a che fare. Riscesa la gradinata davanti al palazzo, sull’angolo della loggia che fu dei Signori c’è un altro piedistallo di marmo. Qui la decorazione è molto più elaborata degli altri; sugli spigoli sono scolpite nel marmo figure. Partendo dal basso si riconoscono: strette zampe di animale si dipartono da artigli mostruosi ancorati alla base; ma più sopra due braccia femminili ricoperte da un tessuto sottile e come increspato dal vento; il busto è ricoperto di innumerevoli seni e più sopra ghirlande di fiori e frutti incorniciano il collo e il volto di una donna dai lineamenti distesi. Nelle nicchie fra le figure ci sono piccole statue, di un materiale diverso, liscio e freddo come il metallo. Pure di metallo " forse è bronzo " è una lastra posta nella parte inferiore del piedistallo, sul lato rivolto verso la piazza. C’è scolpito un bassorilievo con diverse figure: si riconosce al centro una figura femminile avvinta a uno scoglio, con i capelli scompigliati dal vento, sulla riva di uno specchio d’acqua da cui si erge un essere mostruoso. Nella parte superiore una figura in volo, impugnando una spada, sta per trafiggere la creatura marina. Certo! È la liberazione di Andromeda da parte di Perseo. Dunque questo è il piedistallo del Perseo, opera del Cellini. Sono cinquant’anni che la statua è stata posta qui dal Duca Cosimo a rammentare ai fiorentini che egli, come l’eroe argivo, aveva saputo riportare l’ordine e la giustizia a Firenze, sconfiggendo i suoi nemici interni ed esterni, quei serpenti che escono dal corpo di Medusa e che alludono alle proverbiali discordie cittadine. E da allora è opera ammirata da tutti: c’è chi ne loda le forme perfette; chi le fattezze apollinee del viso dell’eroe; chi l’armonia della 14 mano, stretta nello spasmo della morte, che penzola dal corpo inerte di Medusa; chi la tecnica innovativa (è stato fuso in una sola gettata, non in più fusioni, come si usa). Abbandonata la piazza, stando accostato alle pareti delle case che costeggiano via dei Farsettai e poi il Corso di San Bartolo, dove stanno i pittori, si può procedere un po’ più spediti: al tatto si riconoscono le pietre forti delle facciate, i legni dei portoni e delle mostre con gli stipiti e le catene di sostegno in ferro battuto e, nei canti, le macchie di cera colata dalle candele poste dai devoti sotto le immagini sacre nelle edicole. Queste pietre più grandi e queste scalinata indicano che si è all’altezza della chiesa di Sant’Anna, affidata al popolo dei Lombardi. È la chiesa che fu eretta per ricordare l’aiuto della santa nel giorno in cui cacciato il Duca di Atene, il tiranno della città, due secoli fa

 

Giunti all’angolo del corso il selciato appare ancora più polveroso del solito e ingombro di rifiuti: bucce di frutta, semi di lupino, chiazze di acqua e di altro liquido leggermente più denso, forse vino. Nel pomeriggio di ieri, di qui è passata la carriera alla lunga dei barberi o cavalli sciolti, una gara molto seguita in città e che attrae sempre gran numero di persone anche dal contado: la mossa ai cavalli è data dal Ponte sul Mugnone, fuori le mura del Prato e, dopo aver attraversato gli Ognissanti, via della Vigna nuova, il mercato Vecchio, il Corso, giungono di faccia alla chiesa di San Pier Maggiore, nel Quartiere di Santa Croce. Proseguendo l’esplorazione tattile lungo la via degli Adimari, ecco una nuova chiesa (le stesse grandi pietre, la stessa scalinata monumentale): è San Cristoforo, dove stava la Misericordia prima di trasferirsi dov’è ora, nella vecchia sede degli Uffiziali dei Pupilli. Superata la chiesa si giunge alla piazza di San Giovanni. Traversata la stretta strada degli Adimari e costeggiate le levigate basi di marmo della Loggia del Bigallo, fatti pochi passi, ecco una parete dove sottili listelli di pietra orizzontali e verticali, leggermente porosi, incorniciano lastre più grandi e lisce… il Battistero di San Giovanni, sicuramente. Ogni tre passi la parete è interrotta da una lesena realizzata con le stesse pietre leggermente porose delle cornici; più avanti lo spigolo, sporgente, dove le pietre più levigate e quelle più leggermente più scabre si alternano in file orizzontali (non si indovina l’alternanza di marmi verdi e bianchi perché hanno la medesima consitenza al tatto)… Poi ancora una parete con lastre incorniciate… Sul bordo sporge una colonna. Con la mano si possono seguire i dischi di pietra sovrapposti. Girato intorno alla colonna si incontra una cornice con sottili incisioni verticali e poi una ghirlanda di fiori e frutti in pietra e, al centro, un uccellino… poi una rientranza ad angolo retto sulla cui superficie sono intagliate leggemente decorazioni floreali: è lo stipite di una porta, tutta rivestita di freddo metallo. Ci sono cornici con piccole borchie diamantate e rose; su ogni angolo della cornice una piccola figura quasi a tutto rilievo: la testa di un leone… e dentro, una lamina metallica da cui emergono in rilievo un’altra cornice con curve e spigoli (è una losanga lobata, il cosiddetto compasso gotico) e, al centro figure umane che sembrano muoversi sotto le dita.

 

Dopo il grande portale ricomincia la parete, interrotta da un altro spigolo, altre lesene e poi nella parte inferiore… una sorpresa. Qui la pietra non è liscia e regolare come nelle altri parti. È una grande lastra rettangolare di pietra, forse di marmo. Incorniciato da una sottile decorazione a greca, al centro si può toccare una scultura a rilievo (che posizione scomoda per mettere un’opera, così, vicino a terra!): ci sono persone che portano oggetti (sacchi o ceste") sulle spalle; sulle loro teste tralci da cui pendono rigonfi grappoli d’uva… una vendemmia! Al centro del rilievo due figure sopra a una vasca colma di acini… la pigiatura dell’uva! E cosa sono quelle figure ricurve sotto il peso del carico sulle spalle che salgono su di una passerella" certo stanno caricando su qualcosa… certo! Nella parte sinistra del rilievo si distingue bene una nave, con il ventre panciuto e la grande vela triangolare spiegata. Sono dunque marinai che caricano il vino su un’imbarcazione" E perché i volti sono arrotondati sotto i polpastrelli, come usurati dal tempo" Forse è una scultura antica, ritrovata chissà dove e riutilizzata come semplice pietra da costruzione… Al termine di questo viaggio tattile, Firenze ha riservato una piccola scoperta: si può toccare il tempo, si può riconoscerne lo scorrere sulla superficie di un marmo antico, si può immaginare come quelle figure dalle forme consumate siano il frutto non solo del tempo, ma dello stesso gesto (sfiorare con le dita le teste e le membra dei marinai piegate dal loro carico) ripetuto per secoli, da migliaia di mani rimaste anonime.

 

 

 

 

 

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